Chiesa del Gesù - Roma, "La fede è una risposta d’amore"

XXVII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Ab 1,2-3;2,2-4; Sal 94; 2Tm 1,6-8.13-14; Lc 17,5-10
Nella prima lettura, il profeta Abacuc si lamenta con Dio per tutte le ingiustizie che vede nel popolo e
sollecita un suo intervento.

Il profeta, di fronte al problema del male, non crede alla superficiale spiegazione che riconosce negli oppressori gli strumenti della collera del Signore per punire i peccati del popolo infedele.

Dio che è santo e giusto non può rispondere al male con il male.

La situazione che sta davanti agli occhi del profeta è drammatica, segnata da disgrazie, dolori, violenze, lotte, contese; e Dio sembra non rendersene conto, non intervenire, come se fosse impotente.

Eppure si tratta del suo popolo amato che sta vivendo un’amara schiavitù! Il profeta legittimamente si domanda “fino a quando” durerà questa situazione.

Abacuc sembra sfidare Dio perché gli dia una risposta; egli starà fermo come vedetta e sentinella al suo posto sino a che Dio non risponderà.

E la risposta viene.

Dio parla al profeta e, attraverso di lui, a tutti gli uomini: soccomberà chi non ha l’animo retto, mentre il giusto vivrà per la sua fede.

Di fronte a quanto sta accadendo, ogni credente è chiamato a riscoprire con urgenza la radicalità della propria fede.

Non si tratta di scelte particolari e parziali. È in gioco la ragione che presiede le singole scelte concrete, strettamente legato al dono della fede.

La fede è l’adesione al Dio dell’Alleanza, una fiducia incrollabile nelle sue promesse e nella sua fedeltà, che permetterà avere vita e di non soccombere come l’empio, che pensa stoltamente che Dio non esiste.

Il peccato, il male, l’ingiustizia, non appartiene al Principio, ma è sempre situato tra l’alfa e l’omega della storia.

Solo Dio e il suo amore sono stabili per sempre; e l’uomo giusto che vive della fede ne è consapevole e aspetta il giorno del Signore.

Nella seconda lettura, l’Apostolo Paolo ricorda a Timoteo di “ravvivare il dono” che gli è stato dato; e aggiunge che questo dono non è “uno spirito di timidezza, ma di forza, di amore e di saggezza”.

Paolo delinea come deve essere l’uomo di fede; e quale la scelta di colui che vuol vivere guardando anzitutto il Signore.

L’uomo di fede non è timido o vergognoso; ma saldo e coraggioso nella testimonianza, confidando in Dio solo.

Norma dell’impegno missionario deve essere la fede nella parola di Dio e nel “buon deposito” che è il vangelo e la persona stessa di Cristo risorto che cammina con la sua Chiesa.

Il Vangelo di Luca si apre con la preghiera degli apostoli a Gesù: “Aumenta la nostra fede!”. È forse la preghiera che tutti dovremmo fare in questi tempi.

Qual è il motivo che spinge i discepoli a formulare questa richiesta e, soprattutto, di quale fede si tratta?

Poco prima del testo proclamato, Gesù invita i suoi discepoli a evitare tutto ciò che può essere di scandalo, perché può allontanare i piccoli dalla fede, e a perdonare senza misura, accogliendo tutti coloro che si pentono dei loro peccati.

Queste richieste radicali di Gesù fanno nascere nei discepoli la domanda sulla fede.

In vista della sequela il discepolo scopre la pochezza della propria fede e soprattutto la sua incapacità a tradurre le esigenze del Regno in vita concreta.

In realtà, afferma Gesù, di fede non ne occorre tanta come a volte si pensa, ne basta poca, purché sia autentica.

Il paragone è vivacissimo: il gelso è saldamente abbarbicato alla terra e neppure le tempeste riescono a sradicarlo. Ebbene, un briciolo di fede può sradicarlo.

La fede è un affidarsi totalmente a Dio, è l’accettazione di un progetto calcolato sulle possibilità di Dio e non sulle nostre.

Non si misurano più le possibilità a partire da noi, ma a partire dall’amore di Dio verso di noi.

Dopo l’insegnamento sulla forza della fede Gesù propone una parabola che non è priva di risvolti irritanti.

Dio appare comportarsi come certi padroni incontentabili, che sempre chiedono e pretendono, e non danno un attimo di pace ai loro servitori.

Questa parabola va letta alla luce di quella raccontata poco prima nel capitolo 12, dove è il padrone che si cinge la veste per servire i suoi servi.

È l’immagine di Gesù, il servo senza utile che si pone al servizio dell’uomo e invita i suoi discepoli a fare altrettanto.

La parabola ci ricorda che non si entra a servizio del Vangelo con lo spirito del salariato: tanto lavoro e tanta paga.

Gesù vuole che i suoi discepoli affrontino coraggiosamente e in piena disponibilità, le esigenze del Regno, con spirito completamente diverso, con spirito di gioia e di gratitudine.

Il discepolo è chiamato a fare il proprio dovere sino in fondo e al termine dire: siamo servi senza utile, cioè gratuiti, che trovano la loro realizzazione nel servizio.

La fede, come l’amore, non accampa diritti e non è nella logica del do ut des.

Un detto rabbinico illumina la parabola affermando: “Se avrai praticato molto la Torâ, non vantartene; perché per questo sei stato creato”.

Questa consapevolezza deve animare anche il discepolo di Cristo.

La fede è una risposta d’amore a un atto d’amore ricevuto.

Il discepolo obbedisce a Dio perché ama lui e coloro a cui è inviato, per questo può considerarsi senza utile, perché realizzato nell’amore.

MM
Fonte:http://www.chiesadelgesu.org/

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