don Giuseppe Costa, "La parabola del fariseo e del pubblicano"

Una Parola per noi di don Giuseppe Costa
DOMENICA XXX DEL TEMPO ORDINARIO
23 Ottobre 2016
Sir 35,12-14.16-18; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
1. Il brano del Siracide, che costituisce il testo della prima lettura di questa Domenica del Tempo
Ordinario, fa parte di un capitolo che si apre (35,1-11) con una riflessione sui sacrifici che, senza disposizione interiore, sono un inganno, e che continua, proprio nel nostro testo, con l’interiorizzazione del vero culto nella preghiera. Di fronte a Dio ci si deve sentire tutti bisognosi e peccatori, poiché il Signore è un giudice imparziale: non è uno che tiene conto delle persone, non è uno che si fa corrompere dai doni (v. 11). Dio è giudice giusto (v. 12)! Infatti, ciò che Dio solamente gradisce e accetta è la preghiera, e la preghiera che Egli esaudisce è quella che gli rivolgono il povero e l’oppresso (v. 13), l’orfano e la vedova (v. 14) e, soprattutto, l’umile (v. 17). Dopo avere ribadito che Dio è, per definizione (cfr. Es 22,21-22; Pr 22,22-23; 23,10-11), il protettore e il difensore del povero, dell’orfano e della vedova, l’attenzione si sofferma sull’umile. Ed è proprio sulla preghiera dell’umile che si concentra la riflessione dell’Autore. Con un denso e pittoresco linguaggio simbolico («la sua preghiera giungerà fino alle nubi… la preghiera dell’umile penetra le nubi»: vv. 16-17) vengono ribadite l’efficacia, la potenza e la ferma costanza («non desiste finché l’Altissimo non sia intervenuto») della preghiera. Qualità queste che rendono possibile l’adempimento della vera giustizia di Dio «con la soddisfazione dei giusti e ristabilendo l’equità» (v. 18).
2. Il testo della seconda lettura fa parte del testamento di Paolo, che vede ormai vicino il suo martirio, intravvisto come un sacrificio cruento, e si abbandona ai ricordi con espressioni metaforiche e immagini ricche si significato simbolico per esortare Timoteo e i cristiani a imitarlo con coraggio nelle prove della vita per la vittoria finale (vv. 7-8). Appaiono, infatti, tre immagini diverse, di cui le prime due legate alla terminologia sportiva (combattere la battaglia e terminare la corsa), mentre la terza è un’immagine tipicamente teologica (conservare la fede). Le prime due immagini in effetti spingono verso la terza che le chiarifica e che dà il senso e la motivazione dell’agire di Paolo. Anche se non si parla esplicitamente di morte, è facilmente comprensibile che a essa fa riferimento l’Apostolo. Le metafore sportive della lotta e della corsa direttamente connesse con quella della corona (v. 8a) fanno presagire che la gara è giunta alla fine. Anche Paolo è giunto al suo traguardo, intravvede la fine del suo cammino con la prospettiva di un premio, simile a quello che gli atleti ottengono al termine della loro gara. Da notare, tuttavia, che per Paolo si tratta di un premio differente: certo una corona, ma una corona di giustizia! E qui ritorna il tema, presente nella prima lettura, della giustizia di Dio, il quale darà a Paolo e «a tutti coloro che attendono con amore la sua manifestazione» (v. 8b) la giusta ricompensa, il premio. Il cristiano che vive unito a Cristo, che lo imita, come Paolo, nelle virtù, nel coraggio, nella perseveranza, non teme ma ama la sua venuta, la sua gloriosa manifestazione dall’alto. Nei versetti finali (vv. 16-18), Paolo evoca la sua condizione personale di sofferenza e di abbandono, parafrasando certamente l’abbandono di Gesù da parte dei suoi discepoli. Egli si sente come il Maestro e perdona («Non se ne tenga conto contro di loro»: v. 16) come ha perdonato Lui (cfr. Lc 23,34) e come ha perdonato Stefano ai suoi lapidatori (cfr. At 7,59-60) e a Paolo stesso che ne custodiva il mantello (cfr. At 7,58). Abbandonato da tutti, ma certamente no dal Signore, che Paolo ha sentito sempre vicino e che gli ha dato forza per annunziare il vangelo (v. 17). La presenza costante del Signore è la garanzia per l’annunzio evangelico e missionario dell’Apostolo, sostegno nelle prove e liberazione da ogni male, addirittura anche «dalla bocca del leone»: un’altra espressione metaforica dell’Apostolo e proverbiale nella comunità ebraica per indicare un pericolo estremo (cfr. Dan 6,20; 1Mac 2,60).
3. La parabola del fariseo e del pubblicano, esclusiva di Luca, che costituisce il brano del vangelo di questa Domenica, è un vero e proprio racconto esemplare, che non mette in primo luogo l’accento sulla preghiera in quanto tale, ma su un atteggiamento che, all’occorrenza, si manifesta nella preghiera. Si tratta quasi di un’istruzione d’uso, contro con quel tipo di atteggiamenti e di personaggi di cui si parla già nell’introduzione («alcuni che presumevano di essere giusti e disprezzavano gli altri»: v. 9): gente soddisfatta della propria giustizia e sprezzante nei confronti del prossimo. Un atteggiamento spirituale a due facce, nei riguardi di Dio e nei riguardi degli altri: da una parte si ripone la propria fiducia in se stessi piuttosto che in Dio, dall’altra si disprezzano gli altri. La parabola è un invito all’introspezione per ogni credente, perché parla di qualcosa di molto radicato nel cuore di ogni uomo. È tanto facile che l’amore per Dio si trasformi in un amore idolatra per se stessi; è tanto facile scambiare il dono per un bene proprio e trasformare la preghiera in una vanagloria personale. Il fariseo, nella sua preghiera, formulata in una posizione arrogante quasi da pari a pari stando in piedi (v. 11a), rivela di non essere capace di ricevere nessun dono: è già ricco di sé e la sua è una preghiera solamente di confronto e di dichiarata superiorità verso gli altri in genere (ladri, ingiusti, adulteri: v. 11b) e il pubblicano in particolare (v. 11c). In tal modo sembra volersi appropriare del ruolo di Dio come giudice, elencando tutti i suoi meriti e ricordando le manchevolezze del pubblicano. Al contrario, il pubblicano si mostra in tutta la sua umiltà («non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo»: v. 13a) e verità: ammette di essere peccatore («si batteva il petto dicendo: o Dio abbi pietà di me peccatore»: v. 13b) e dunque bisognoso della giustizia misericordiosa di Dio. Il contrasto è evidente: la descrizione del comportamento è molto breve nel caso del fariseo, con una sola annotazione, mentre è tre volte più sviluppata nel caso del pubblicano. Viceversa, mentre la preghiera di quest’ultimo contiene una sola formula, quella del fariseo si dilunga nell’elencare tre motivi del suo rendere grazie. La preghiera del fariseo è quella del credente soddisfatto, che non esprime alcuna richiesta e non attende nessuna risposta da parte di Dio. La sua è una preghiera di rendimento di grazie che, tuttavia, non mette in conto la grazia di Dio e i doni che da Lui provengono. Anche Maria, nello stesso vangelo di Luca, rende grazie a Dio ma fa precedere e seguire questo ringraziamento da innumerevoli espressioni che sintetizzano le manifestazioni della gratuita benevolenza divina (cfr. Lc 1,46-55). Come contrasto, la preghiera del pubblicano non ha nulla da fare valere: è pura richiesta, formulata da un peccatore cosciente della sua condizione nei confronti di Dio e del prossimo. Alla fine (v. 14a) si conosce il verdetto di Dio, che è il contrario di quello che ciascuno dei due personaggi aveva dato di se stesso nella preghiera; Luca vi aggiunge una notazione (v.14b) che riprende certamente una parola di Gesù, utilizzata anche in altri contesti sia da Luca (cfr. Lc 14,11) sia da Matteo (cfr. Mt 23,12).
4. La preghiera è fede in azione, non un esercizio di pietà eseguito per dimostrare qualcosa a qualcuno, né tanto meno l’esposizione a Dio del proprio curriculum di buone opere per ottenere giustizia e misericordia. Quando la preghiera si esaurisce nell’autoesaltazione davanti al prossimo e, addirittura, davanti allo stesso Dio, allora non può essere esaudita con il dono gratuito della giustizia di Dio. Il dono è dato a colui che non lo possiede e il fariseo con il suo possesso, in quanto presume di essere in regola e di avere tutto in ordine, non lo può ricevere (vangelo). Questo tema centrale è introdotto nella liturgia di oggi dalla prima lettura, che insiste sulla bontà di Dio dinanzi al quale non c’è preferenza di persona né parzialità con nessuno. Al contrario, Dio restituisce dignità agli umili e dà soddisfazione alle loro preghiere fino a quando non sono completamente esaudite. Anche Paolo (seconda lettura), che tuttavia esalta il suo stile di vita battagliero (la buona battaglia) e inarrestabile (la corsa), si adegua a questa logica di verità nei confronti di Dio e di attesa della sua infinita misericordia. In effetti, la differenza tra l’esaltarsi del fariseo e il gloriarsi di Paolo sta nel fatto che l’Apostolo attribuisce tutto a Dio, il quale gli ha dato forza e gli è stato vicino in ogni prova della sua vita. Il suo orgoglio tende non a mettersi al di sopra degli altri, non a giudicare e a insuperbirsi, ma alla conservazione della fede e non significa compiacimento del suo operato, ma di ciò che il Signore giusto giudice ha operato in lui e attraverso lui. La liturgia della Parola di oggi esorta a non creare gerarchie arbitrarie tra i credenti, a non restringere il dono della salvezza all’enumerazione di parole, di opere, di riti, alla contrapposizione tra giusti e peccatori. Spinge, al contrario, a gettare un sincero e appassionato sguardo introspettivo e a dare speranza,  nella stessa certezza di Paolo e nell’umile abbandono del pubblicano, che il Signore libererà da ogni male e salverà per il suo regno eterno ogni credente che confida non nei suoi mezzi, ma nella grazia di Dio.

Fonte:VICARIATO DI ROMAUfficio Liturgico

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