Juan J. BARTOLOME sdb Lectio Divina "Aumenta la nostra fede".

2 ottobre 2016 | 27a Domenica T. Ordinario - Anno C | Lectio Divina
Lectio Divina su: LC 17,5-10
Dobbiamo ringraziare Luca che ci ricorda questo episodio: i discepoli di Gesù gli si sono avvicinati
riconoscendo la debolezza della loro fede. Senza motivo previo, la confessione è inaspettata. Senza sorprendersi né recriminarli, Gesù coglie l'occasione per istruirli sull'enorme potere che possiede l'uomo che si fida di Dio. Per piccola che sia, la fede è capace di realizzare le cose impossibili. Le immagini che usa Gesù sono forti: potrà radicarsi nel mare chi basa la sua esistenza su Dio. Con la parabola come commento, Gesù aiuta a capire in che cosa consiste la fede che chiede ai suoi; non si tenta di non credere a ciò che non si è visto né di affermare quello mai sperimentato; la fede consiste nel mantenersi attento ed ubbidiente.
La forza del credente risiede in un'obbedienza totale, servile, perché rinuncia al salario, al riconoscimento da parte del padrone. Non bisogna solo prescindere da qualunque altro signore, bisognerà desistere dal sognare ricompense. A chi deve obbedienza non gli è dovuto gratitudine. Chi crede in Dio fino a potere fare la sua volontà senza pensare a ricompense dovute, vede intorno a se le cose impossibili. La fede che vuole Gesù per i suoi si alimenta dei piccoli, ma costanti, servizi a Dio. Quella è la fede che Gesù vuole da quanti gli chiedono che gliela aumenti. Sapendo quello che ci chiede Gesù, siamo disposti a chiedergli più fede?
In quel tempo, 5gli apostoli dissero al Signore: "Aumenta la nostra fede".
6 Il Signore rispose:
"Se avrete fede pari a un granellino di senapa, potrete dire a questo gelso: 'Sii sradicato e trapiantato nel mare." Ed esso vi ascolterebbe.
7 Supponiamo che un tuo servo sia ad arare o a pascolare, al ritorno dal campo, chi di voi dice: "Allora, vieni e siediti a tavola"? 8 Non gli dice piuttosto: 'Prepara la mia cena, servi me, mentre mangio e bevo, e poi puoi mangiare e bere'? 9Deve essere grato al servo perché ha fatto quello che ha dovuto? 10 Lo stesso fate voi: Quando avete fatto tutto quello che vi è stato ordinato, dite: 'Siamo servi inutili, abbiamo fatto quello che dovevamo fare".
1. LEGGERE: capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Il testo appartiene ad una breve istruzione di Gesù sulla vita comune. Dirigendosi agli apostoli (Lc 17,1), li ha avvertiti di non scandalizzare i fratelli più deboli, (Lc 17,1-3a), e li ha esortati a perdonare senza limite coloro che li abbiano offesi, (Lc 17,3b -4). È precisamente questa imposizione del perdono fraterno quello che provoca negli apostoli il desiderio di un aumento di fede. Di fronte ad un'esigenza tanto poco logica, tanto esagerata, (bisogna perdonare quello che ha peccato sette volte in un solo giorno contro uno), è normale che gli apostoli riconoscano che sono scarsi di fede, (Lc 17,5). Perdonare l'aggressore che chiede perdono esige fiducia. E sembra sempre maggiore l'offesa che la capacità di fidarsi dell'aggressore. Bisogna notare la 'novità' del concetto di fede che sottostà alla richiesta degli apostoli: l'offeso crede in Dio se, e quando, riesce a perdonare al suo aggressore.
La risposta di Gesù è molto superiore a questa concezione del perdono dovuto come esercizio di fede. Si incentra nella forza della fede, non nei suoi effetti. Gesù ha indovinato, con poche parole, a creare una poderosa similitudine: basterebbe alla fede avere il volume di uno dei più piccoli semi per trapiantare gelsi nel mare. Solo con un minimo di fede si riuscirebbe in una cosa impossibile, rimboschire il mare (Lc 17,6).
Per dare fondamento e spiegare la similitudine ricorre ad altro esempio più elaborato, ma che non si riconcilia molto bene al tema della fede; perché non parla espressamente, di credere, poco o molto, bensì di servire sempre, (Lc 17,7 -10). Il servo, perfino quando fa quello che gli è stato comandato, non riesce a sentirsi libero di continuare a servire il suo padrone. A servizio compiuto non segue ricompensa completa, bensì nuovi ordini da compiere. Il padrone non ringrazia per essere servito sempre ed in primo luogo. Per captare il senso della parabola bisogna tenere in conto, oltre al suo motivo, la straordinaria potenza di una minima fede, il protagonista, il domestico che deve servire senza aspettare riconoscimento né salario. Quando faccia tutto quello che si chiede a lui, e qui, in concreto, è il perdono del fratello che mette a prova la fede personale, non smetterà di essere quello che è, un povero servo che fa quello che deve fare.
Compresa in questo modo, la catechesi di Gesù indica, con chiarezza estrema che dobbiamo essere disposti a perdonare sempre, che il perdono dovuto al fratello richiede sempre più fede di quella che si ha, che la fede è solo servizio concreto e permanente al Signore che non deve ringraziarci quando noi facciamo quello che ci comanda, perché siamo quello che siamo, servi inutili.
 2. MEDITARE: applicare alla vita quello che dice il testo!

Non ci richiama l'attenzione che un giorno gli apostoli chiedessero a Gesù che aumentasse la loro la fede? Com'è possibile che coloro che avevano lasciato tutto per seguirlo riconoscessero, improvvisamente, che ancora non si fidavano quanto basta del loro Signore? Quegli uomini che tutti i giorni condividevano vita e fortuna con Gesù, lo ascoltavano con più frequenza, gli ubbidivano più radicalmente, notarono un bel giorno che la loro fede era insufficiente. Non sempre, e questo può essere il nostro caso, essere fedeli discepoli porta ad essere migliori credenti.
Gli apostoli scoprirono la scarsità della loro fede quando ascoltarono che dovevano perdonare al fratello che offendeva "sette volte al giorno", (Lc 17,4). Non si sentirono capaci di fidarsi di un Signore che imponeva loro tale obbligo, perdonare l'aggressore sette volte in un stesso "giorno." Con tutto ciò risulta istruttivo comprovare come la loro scarsa fede non li separò, nemmeno per un momento, dal loro Signore: perché seguivano colui al quale non credevano del tutto, si rivolsero a lui e accorsero con la richiesta che aumentasse la loro fede. Non si defraudarono di se stessi solo perché non potevano essere migliori credenti. E non lo erano, per non potere perdonare.
Non abbandonarono il loro Signore con la scusa che non si fidavano oramai quanto basta di lui. Rimasero con lui e lo pregarono di aumentare la loro fede. Tutta una lezione, meglio, una doppia lezione. Impararono, in primo luogo, che perdonare al fratello è un esercizio di fede in Dio. Che l'aggressore non può meritarsi il perdono in qualche occasione, ma Dio merita sempre la nostra fiducia. Che si può perdonare in realtà, non chi è riconosciuto come offeso e ristabilisce il suo diritto bensì chi si mette nelle mani di Dio.
Ci sarebbe meno penoso, ci si trasformerebbe in godimento, perdonare chi ci ha offesi, se ci arrendessimo, fiduciosi, a Dio. Non ci mancherebbe il suo potere, se l'avessimo sperimentato prima. Gli apostoli impararono, inoltre, che chi è offeso 'deve' non il suo perdono al suo aggressore, bensì al suo Dio. Perdonare è compito dei credenti e la fede è relazione di fiducia con Dio. Se all'aggressore tocca chiedere perdono, all'offeso tocca affidarsi a Dio e concedere il suo perdono.
È curioso e consolante che Gesù non rimanesse per niente deluso di alcuni discepoli che gli confessarono la loro poca fede. Li sfidò, piuttosto, a che osassero fidarsi della sua parola. Con un'audace immagine, Gesù insegnò ai suoi apostoli ad appoggiarsi più sulla potenza della fede che nella debolezza constatata dell'incredulità. Molto poca fede basterebbe, assicurò loro, per piantare gelsi in mare. La nostra incredulità personale, la scarsa fede che prestiamo a Gesù ed il suo messaggio, non sarebbe ostacolo per sentirci sempre meno inviati di Cristo ad un mondo credente, se ci accorgessimo che Gesù continua a contare su di noi, uomini di poca fede, per trasformarci in suoi apostoli.
Non è necessario essere una gran credente, per essere un buon apostolo: basta avere la fede sufficiente per tentar di fare le cose impossibili. Invece di condannare i suoi discepoli per la loro poca fede, Gesù li incoraggiò a stimarla di più alludendo al potere che hanno quelli che sanno avere una fede scarsa: chi si fida di Dio non trova limiti per la sua fede, benché la sua fede abbia un limite. Chi conosce i limiti della sua fede non è obbligato a mettere limiti alla sua immaginazione: può tentar di fare le cose impossibile se si fida di Dio.
Gesù non era preoccupato dall'essere accompagnato da cattivi credenti, uomini di poca fede. Non si sorprende, se scopre che tra coloro che lo seguono, continuiamo ad esserci alcuni increduli. Gli fa male, quello sì, che continuiamo essendo timidi, pusillanimi, inattivi. La poca fede non è scusa valida per non tentare di fare le cose impossibili, come trapiantare gelsi nel mare. Se è bene avere poca fede, peggiore è ancora non osare vivere di fede. Che cosa manca ancora alla nostra fede affinché sia tanto grande quanto un granello di senape? Se Dio ha messo ad un livello di fede tanto piccolo il miracolo, perché nella nostra vita di fede scarseggiano tanto i portenti, le sorprese, l'impossibile?
Non sembra che preoccupasse Gesù che suoi più vicini fossero poco credenti. Ma esige da loro che la loro scarsa fede sia fede autentica, cioè, cieca obbedienza. Con la similitudine del servo povero, Gesù spiega ai suoi apostoli che tipo di fede si aspetta da parte loro. Come il servo non può aspettare ricompense quando fa quello che gli è stato comandato, così il credente non deve illudersi di ottenere quello che si aspettava, solo perché ha obbedito al suo signore legittimo. In ciò sta, possibilmente, il motivo più frequente per il quale la nostra vita, sincera, di fede non riesca a procurarci le soddisfazioni che speriamo.
Desideriamo che Dio premi la nostra vita di fede ed il nostro servizio, mettendosi a nostro servizio quando sentiamo qualunque necessità. Il servo che ritorna a casa del suo padrone, dopo avere compiuto il suo dovere, ci fa notare Gesù, continua ad essere servo. Il mandato compiuto non dà diritto ad un salario né a un premio. A chi deve obbedienza totale non gli è dovuto né saldo né riconoscimento. La paga del servo è avere un signore.
Vivere la nostra relazione con Dio come se dovessimo guadagnarci il merito per il nostro servizio, prestargli solo obbedienza quando, o unicamente, speriamo di assicurarci di essere ascoltati nelle nostre domande di aiuto, trasformare la nostra vita di credenti in un elenco di meriti di fronte a Dio, fare la sua volontà per sperare che dopo deve fare la nostra, significa non avere fede, né molta né poca. Gesù sopporta la poca fede dei suoi, ma non la sua mancanza, la disubbidienza. Gesù ci fa notare oggi, come fece un giorno coi suoi apostoli che quando desideriamo qualcosa da lui, non si limiterà a vedere se la nostra fede è piccola o grande, guarderà se abbiamo fede, cioè, se viviamo nella sua presenza come il servo in casa del suo signore, facendo quello che dobbiamo fare.
La fede che è obbedienza, ci salva, dunque, dell'impotenza senza dovere obbligarci ad essere grandi credenti. L'obbedienza della fede ci fa riconoscere la nostra piccolezza senza lasciarci cadere nella delusione. Non presenziamo, non facciamo miracoli, non perché non abbiamo sufficiente fede in Dio, bensì perché non gli siamo sufficientemente servi. Dato che vogliamo essere i suoi apostoli, chiediamo al Signore una fede che, per piccola che sia, ci faccia suoi servi: come Maria, la serva del Signore, sperimenteremo le cose impossibili, quando incominciamo a servire veramente Dio. Se non ci chiede molta fede, diamogli più fiducia e serviamolo meglio.
Juan J. BARTOLOME sdb
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