MONASTERO MARANGO," La perfezione non trova Dio"

30° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture: Sir 35,15b-17.20-22a; 2Tm 4,6-8.16-18; Lc 18,9-14
La perfezione non trova Dio
1)Gesù disse ancora questa parabola
Il figlio del falegname non usa il linguaggio degli scribi per dialogare con le folle che lo seguono, spesso gente dei campi o pastori di umili greggi. Non sa nemmeno parlare nello stile solenne dei sacerdoti di Gerusalemme. Gesù preferisce parlare con il linguaggio dei poeti: inventa immagini, suggerisce paragoni, narra con maestria parabole che conquistano gli uditori. Nel parlare di Dio alla gente dei campi la sua parola si trasfigura: bisogna insegnare loro a guardare la vita in maniera diversa. Anche Dio , narrato da Gesù, è un Dio diverso da come lo hanno imparato.
 
per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri.
Alcuni si persuadono da loro stessi di essere migliori degli altri, di non dover rendere conto a nessuno delle loro azioni, e per convincersi ancora di più hanno bisogno di prendere le distanze dagli altri. Disprezzandoli. Non c’è nessuno che possa eguagliarli nella pratica del bene e della giustizia. Nessuno. Magari è una giustizia ritagliata sui loro interessi e il bene è ciò che fa bene a loro, ma non importa. Esistono solo loro. 

Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
I farisei costituivano un gruppo formato da gente dotta, molto familiarizzata con le tradizioni e i costumi di Israele. Si sentivano uniti da un insieme di credenze e pratiche che li identificavano dinanzi al popolo. La loro prima preoccupazione era quella di assicurare la fedele risposta di Israele al Dio Santo che gli aveva dato una Legge che li distingueva da tutti i popoli della terra. Dovevano dunque approfondire lo studio della Torà e adempiere fedelmente tutte le prescrizioni che rafforzavano l’identità del popolo di Dio: l’osservanza del sabato, la purità rituale, il pagamento delle decime per il tempio, e tanto altro. Erano indubbiamente delle persone molto religiose, come ne esistono ancor oggi. 
Di fronte a loro stanno i peccatori, persone che hanno trasgredito l’Alleanza in maniera deliberata, senza che in essi sia possibile osservare alcun segno di pentimento. Possiamo farne un piccolo elenco: coloro che profanano il culto, che disprezzano il sabato, che collaborano con Roma nell’opprimere il popolo giudaico; e poi i delinquenti, gli usurai, i truffatori, i ladri e le prostitute.
Se i farisei si ritengono gli unici “giusti”, tutti gli altri sono i “perduti”. In questo lunghissimo elenco ci sono i pubblicani, coloro che riscuotono le imposte sulle mercanzie e i diritti di transito sulle strade maestre importanti o alle porte di qualche città. Questi pubblicani svolgono un lavoro talmente disprezzato che a volte, in mancanza d’altri, si ricorreva a degli schiavi. 
Si capisce subito che questa categoria di persone non sono amanti della religione e non frequentano abitualmente i luoghi sacri. Ai nostri giorni sono in notevole aumento.
 
O Dio, abbi pietà di me peccatore.
La preghiera del fariseo la conosciamo, e forse fa parte anche del nostro repertorio, imparato fin da piccoli: «O Dio, ti ringrazio, perché non sono come gli altri». Conosciamo meno quello che dice ripetutamente il pubblicano, anche perché riteniamo che questi “lontani” non sappiano affatto cosa sia la preghiera. A questo proposito lasciatemi dire una cosa: la presunzione delle persone per bene, la loro violenza nell’esprimere disprezzo verso quelli che ritengono diversi da loro e lontani da Dio, l’occupazione di tutto lo spazio della religione ufficiale, impedisce spesso a quelli che sentono tutto il peso del loro peccato e della loro lontananza, di poter accedere in qualche modo all’esperienza religiosa. Il campo è tutto occupato, Dio non appartiene a loro, che sono ormai privati di ogni diritto. Glielo facciamo capire in tante maniere. 

Nella parabola odierna già il posto in cui si trovano il fariseo e il pubblicano indica la differenza e sottolinea una lontananza. L’uno «sta in piedi», come se il tempio appartenesse solo a lui, mentre l’altro «si ferma a distanza», come se avesse osato varcare la soglia di una casa non sua. Il primo prega «tra sé»: non prega Dio, ma elenca per il suo orgoglio una lunga esposizione delle sue molteplici virtù. Pensa che, se riesce a vederle lui stesso, tanto più le vedrà Dio e lo ammirerà e lo gratificherà con l’abbondanza dei suoi favori. Dio è obbligato nei suoi confronti. 
Per questo, però, ha bisogni di disprezzare tutti gli altri uomini, che non hanno raggiunto il suo livello di perfezione: tutti gli altri sono «ladri, ingiusti, adulteri». Il fariseo cammina per la via dove trova solo se stesso, ma è anche la via della perdita di Dio. Il pubblicano invece non trova in sé altro che peccati, un vuoto di Dio, che nell’invocazione «abbi pietà di me» diventa grembo che accoglie Dio e la sua potente misericordia. 
Nessun uomo, che prende come ultimo scopo della sua vita la propria perfezione, troverà mai Dio. 
Chi invece ha l’umiltà di far entrare la perfezione di Dio nell’abisso del proprio vuoto e del proprio peccato, sperimenterà la gioia intima del perdono e della “giustificazione” di Dio.

La grande preoccupazione di tante persone ‘di chiesa’ è di porre un confine netto tra coloro che meritano di essere accolti da Dio e quelli che non meritano nulla. Anzi, ritengono che bisognerà ricordare a questi ultimi il castigo che li minaccia e l’ira di Dio che incombe.
Gesù, però, ci mostra un Dio diverso, che non corrisponde alle nostre idee ‘religiose’.
Egli accoglie presso di sé pubblicani e peccatori senza porre loro alcuna condizione. Li accetta come amici. Siede a tavola con loro. Riconosce che spesso sono capaci di una fede autentica, che nasce da un cuore pentito. Gesù vuole provocare la nostra sensibilità religiosa, fatta spesso di osservanze esteriori, di appartenenze che giudicano e separano gli uni dagli altri: «Noi non siamo come quelli!». Capita invece, come nella parabola di oggi, che quelli che stanno sulla soglia siano più vicini al cuore di Dio di quelli che si sono comprati il posto in prima fila. E’ scritto, infatti che «la preghiera del povero attraversa le nubi» (Sir 35,21).

Dio è una buona notizia, non una minaccia. I peccatori, le prostitute e i pubblicani, possono rallegrarsi: anche loro sono invitati al banchetto. La casa di Dio è la loro casa, non si devono arrestare sulla soglia o sentirsi respinti. Non è l’osservanza che salva, ma Dio, che viene ad abitare il nostro cuore malato e lo risana. Il Signore non è un muto spettatore delle nostre imprese religiose, né un giudice adirato per i nostri peccati. Lui offre a tutti la sua amicizia e colloca tutti, peccatori e giusti, davanti all’abisso insondabile del suo perdono. Sì, il regno di Dio viene offerto a tutti; rimangono esclusi soltanto coloro che, volendo salvare sé stessi elevandosi al di sopra degli altri, non si rifugiano nell’oceano della misericordia di Dio, molto più vasto dei nostri peccati. Così dice il Vangelo: «Il pubblicano, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato».



Giorgio Scatto
Fonte:MONASTERO MARANGO,CAORLE(VE)

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