Mons. Giuseppe Costa,"SOLENNITÀ DI TUTTI I SANTI"
LITURGIA DELLA PAROLA
a cura di mons. Giuseppe Costa, biblista
Martedì 1 Novembre 2016
Ap 7,2-4.9-14; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
1. La pericope della prima lettura è tratta dalla seconda parte del libro dell’Apocalisse nella quale
Giovanni, rapito in estasi, vede le cose che accadranno dopo. La visione beatifica è composta da due scene susseguenti e che appaiono contrapposte. All’immagine apparentemente riduttiva dei centoquarantaquattromila eletti delle tribù di Israele, segnati dal sigillo di salvezza, preservati dalla devastazione, segue il numero sterminato, che nessuno poteva contare, di ogni razza popolo, nazione e lingua che canta le lodi di Dio davanti al trono e all’Agnello. In realtà il numero è simbolico (144.000 = 12 x 12 x 1000) e indica la totalità dei salvati: coloro che sono stati riconosciuti degni di stare ritti, perché risorti, davanti al trono dell’Agnello e di cantare le lodi di Dio. Espressione chiave della pericope è la salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello. A Dio è rivolta, infatti, tutta la liturgia di lode, gloria, onore e rendimento di grazie. I salvati, i Santi, sono tali perché hanno lavato le vesti nel sangue dell’Agnello, immolato per la salvezza dei credenti e ora contemplato nella gloria. È il sangue dell’Agnello che ha lavato le vesti degli eletti, li ha resi degni di portare le palme nelle mani segno del martirio, al quale si sono associati passando attraverso la grande tribolazione. In questo testo liturgico è allo stesso tempo narrato e celebrato il Mistero Pasquale di Cristo, al quale tutti i credenti si associano già nella liturgia terrena, anticipazione gioiosa della liturgia festosa del regno dei cieli nella quale si potrà gustare in pienezza la beatitudine dei Santi.
2. Nella seconda lettura, l’Apostolo considera il cristiano nella sua reale qualità di figlio di Dio. Non si tratta di una esortazione, né di un invito alla speranza: è la constatazione gioiosa del dono di amore del Padre. Un dono che si traduce in chiamata di salvezza. Si tratta di un grido di gioia e di giubilo che afferma la nuova realtà del credente, il quale possiede un bene donatogli dal Padre, in modo stabile e irrevocabile. È questa, certamente, la condizione finale dei Beati, dei Santi, ma è anche la condizione del cristiano che nutre questa speranza e che cammina nella vita di ogni giorno, inserito nel cuore della Chiesa e proteso verso la manifestazione di Dio. Il credente, infatti, vive nella vita sacramentale, avviata dal Battesimo che lo ha reso figlio, una realtà di figliolanza col Padre già donata e pregusta una comunione che sarà completa e totale nell’incontro con Lui. In questo incontro, nella futura glorificazione, la relazione tra il cristiano e Dio sarà pienamente avvincente e profondamente intima: noi saremo simili a Lui. È una somiglianza che è iniziata in Gesù Cristo e che si completerà nell’incontro con il Padre. È la condizione dei santi che godono della visione di Dio e che lo contemplano così come egli è. Alla fine della pericope, l’ammirazione stupita per la condizione del credente si tramuta in invito, in stimolo per la vita presente: la gioiosa speranza dell’incontro con Dio, che si basa sui segni reali già presenti della figliolanza, deve spronare alla conversione, deve spingere alla purificazione.
3. Il Vangelo di oggi si trova all’interno del quinto capitolo del Vangelo di Matteo in cui viene presentato l’inizio dell’attività missionaria di Gesù. Il primo dei suoi cinque grandi discorsi (quello della Montagna) si apre con le otto beatitudini (più una nona che riprende l’ottava e la sviluppa). Gesù annuncia nove volte di seguito beatitudine, felicità completa e gioia perfetta. Egli inizia la sua attività, con la buona notizia per antonomasia: il messaggio sulla pienezza delle beatitudini per quelli che sono i veri fedeli, i Santi. Ogni «beatitudine», ricca di contenuto e profonda nel suo significato, è divisibile in tre parti: nella prima si ripete l’invocazione «beati»; nella seconda parte si sottolinea la condizione tipica nella quale si trova l’uomo aperto all’azione di Dio con un comportamento giusto; nella terza parte viene presentata l’azione di Dio. Il cuore delle beatitudini si apre e si chiude con quello che possiamo chiamare il fondamento delle beatitudini: «di essi è il Regno dei cieli». Espressione questa che descrive la signoria di Dio su tutte le cose e su tutta la storia: signoria che si esercita al modo del pastore. La povertà di spirito esiste là dove l’uomo vede e riconosce il proprio bisogno, la propria insufficienza e dipendenza, il proprio pericolo e limite, la propria miseria, e si rivolge a Dio nella preghiera e nella fiducia. Non si identifica semplicemente con la povertà materiale, ma abbraccia tutte le forme innumerevoli di povertà che vengono riconosciute davanti a Dio. La beatitudine degli afflitti sembra essere contraddittoria: afflizione è il contrario di gioia e beatitudine. Motivi di afflizione sono la morte, la malattia, le disgrazie fisiche e morali, il peccato e la manchevolezza: semplicemente la nostra vita di ogni giorno, fragile, debole e aperta a rovesci di fortune. L’afflitto è colui che vive in una di queste realtà e, nonostante tutto, confida nel Signore e si pone sotto la sua ombra. La mitezza è caratteristica di Gesù (Mt 11,29; 21,5). Egli chiama beati i miti che non abusano di alcun potere: sono gli uomini che sanno dominare loro stessi, che lasciano spazio all’altro per respirare e vivere, lo accettano e lo riconoscono nel suo modo di vivere, nei suoi bisogni e nelle sue necessità e richieste. Non intendono sopraffarlo e abbassarlo, non vogliono sovrastare e dominare su tutto, né imporre le proprie idee e i propri interessi a danno degli altri. Rispettano e riconoscono l’altro perché dotato di eguale valore e lo amano così come egli è. Fame e sete indicano che la giustizia è un bisogno materiale, naturale ed elementare, forte che proviene dall’uomo e nasce dal suo stesso interno. Il contrario è l’indifferenza e la mancanza d’interesse. I misericordiosi non passano indifferenti accanto al bisogno altrui, ma si fermano ad aiutare come il buon samaritano (Lc 10,31-37). Sono disposti a perdonare colui che li ha feriti o ha commesso torti nei loro riguardi, a conservare un cuore buono verso di lui e a porgergli di nuovo la mano per ristabilire la comunione. La purezza di cuore ci rimanda all’interno dell’uomo, al centro della volontà e delle aspirazioni. Un centro essenziale ed esistenziale che nell’uomo deve essere sempre rivolto a Dio e continuamente proteso verso di Lui. Agli operatori di pace sono necessari tutti gli atteggiamenti menzionati precedentemente. Pace non significa soltanto mancanza di opposizione reciproca, atteggiamento neutrale, ma lo stare insieme attivo, pieno di amore, vivo e concorde. La stessa giustizia spesso non provoca apprezzamento, ma rifiuto, pregiudizio e persecuzione. Così il discepolo partecipa della sorte del Maestro.
4. Le beatitudini hanno il carattere di promesse sicure e di chiari punti di orientamento e hanno una forza profondamente liberatrice. Chi possiede queste disposizioni descritte da Gesù può contare con estrema sicurezza sulla felicità e sulla gioia piena che è vera beatitudine, che è vera santità. Quella santità di cui oggi la Chiesa celebra le lodi, intessendo un rendimento di grazie al Padre, principio e fonte di ogni santità. Una santità da celebrare, ma anche da assaporare nella vita presente, nelle scelte di ogni giorno, nella vita cristiana. Una santità-meta che diventa santità-via. Se Dio, infatti, nella condizione escatologica dei Santi ci consolerà, non dobbiamo respingere l’attuale valle di lacrime, ma possiamo accettare serenamente sofferenza e bisogno, possiamo serenamente e gioiosamente piangere. Se per disposizione di Dio ci è assicurato lo spazio vitale, non dobbiamo imporci con violenza a spese dell’altro, ma possiamo rispettarlo e amarlo come noi stessi. Se Dio ci sazierà e ci donerà la pienezza di vita e di felicità, possiamo orientare tutta la nostra fame e sete a fare la volontà di Dio e non dobbiamo essere preoccupati affannosamente per la nostra vita. Se Dio è misericordioso con noi e ci perdona, non dobbiamo esigere il pagamento di debiti, ma possiamo condonarli. Perché Dio si lasci vedere da noi dobbiamo avere occhi non offuscati e cuore libero, libero da ogni orientamento contrario a lui. Se Dio ci accoglie nella sua famiglia, possiamo impegnarci per la pace, per la vita e per la comunità secondo il modello del Dio Trinitario. Se Dio, nella sua signoria, è fedele a noi, non dobbiamo avere paura davanti alle persecuzioni, ma possiamo rimanere fedeli all’adempimento della sua volontà. La santità, dunque, come via, come cammino da percorrere con speranza, oggi, nella Chiesa. Un cammino verso la santità che è allo stesso tempo cammino verso la libertà.
Fonte:VICARIATO DI ROMA
Ufficio Liturgico
a cura di mons. Giuseppe Costa, biblista
Martedì 1 Novembre 2016
Ap 7,2-4.9-14; 1Gv 3,1-3; Mt 5,1-12a
1. La pericope della prima lettura è tratta dalla seconda parte del libro dell’Apocalisse nella quale
Giovanni, rapito in estasi, vede le cose che accadranno dopo. La visione beatifica è composta da due scene susseguenti e che appaiono contrapposte. All’immagine apparentemente riduttiva dei centoquarantaquattromila eletti delle tribù di Israele, segnati dal sigillo di salvezza, preservati dalla devastazione, segue il numero sterminato, che nessuno poteva contare, di ogni razza popolo, nazione e lingua che canta le lodi di Dio davanti al trono e all’Agnello. In realtà il numero è simbolico (144.000 = 12 x 12 x 1000) e indica la totalità dei salvati: coloro che sono stati riconosciuti degni di stare ritti, perché risorti, davanti al trono dell’Agnello e di cantare le lodi di Dio. Espressione chiave della pericope è la salvezza appartiene al nostro Dio seduto sul trono e all’Agnello. A Dio è rivolta, infatti, tutta la liturgia di lode, gloria, onore e rendimento di grazie. I salvati, i Santi, sono tali perché hanno lavato le vesti nel sangue dell’Agnello, immolato per la salvezza dei credenti e ora contemplato nella gloria. È il sangue dell’Agnello che ha lavato le vesti degli eletti, li ha resi degni di portare le palme nelle mani segno del martirio, al quale si sono associati passando attraverso la grande tribolazione. In questo testo liturgico è allo stesso tempo narrato e celebrato il Mistero Pasquale di Cristo, al quale tutti i credenti si associano già nella liturgia terrena, anticipazione gioiosa della liturgia festosa del regno dei cieli nella quale si potrà gustare in pienezza la beatitudine dei Santi.
2. Nella seconda lettura, l’Apostolo considera il cristiano nella sua reale qualità di figlio di Dio. Non si tratta di una esortazione, né di un invito alla speranza: è la constatazione gioiosa del dono di amore del Padre. Un dono che si traduce in chiamata di salvezza. Si tratta di un grido di gioia e di giubilo che afferma la nuova realtà del credente, il quale possiede un bene donatogli dal Padre, in modo stabile e irrevocabile. È questa, certamente, la condizione finale dei Beati, dei Santi, ma è anche la condizione del cristiano che nutre questa speranza e che cammina nella vita di ogni giorno, inserito nel cuore della Chiesa e proteso verso la manifestazione di Dio. Il credente, infatti, vive nella vita sacramentale, avviata dal Battesimo che lo ha reso figlio, una realtà di figliolanza col Padre già donata e pregusta una comunione che sarà completa e totale nell’incontro con Lui. In questo incontro, nella futura glorificazione, la relazione tra il cristiano e Dio sarà pienamente avvincente e profondamente intima: noi saremo simili a Lui. È una somiglianza che è iniziata in Gesù Cristo e che si completerà nell’incontro con il Padre. È la condizione dei santi che godono della visione di Dio e che lo contemplano così come egli è. Alla fine della pericope, l’ammirazione stupita per la condizione del credente si tramuta in invito, in stimolo per la vita presente: la gioiosa speranza dell’incontro con Dio, che si basa sui segni reali già presenti della figliolanza, deve spronare alla conversione, deve spingere alla purificazione.
3. Il Vangelo di oggi si trova all’interno del quinto capitolo del Vangelo di Matteo in cui viene presentato l’inizio dell’attività missionaria di Gesù. Il primo dei suoi cinque grandi discorsi (quello della Montagna) si apre con le otto beatitudini (più una nona che riprende l’ottava e la sviluppa). Gesù annuncia nove volte di seguito beatitudine, felicità completa e gioia perfetta. Egli inizia la sua attività, con la buona notizia per antonomasia: il messaggio sulla pienezza delle beatitudini per quelli che sono i veri fedeli, i Santi. Ogni «beatitudine», ricca di contenuto e profonda nel suo significato, è divisibile in tre parti: nella prima si ripete l’invocazione «beati»; nella seconda parte si sottolinea la condizione tipica nella quale si trova l’uomo aperto all’azione di Dio con un comportamento giusto; nella terza parte viene presentata l’azione di Dio. Il cuore delle beatitudini si apre e si chiude con quello che possiamo chiamare il fondamento delle beatitudini: «di essi è il Regno dei cieli». Espressione questa che descrive la signoria di Dio su tutte le cose e su tutta la storia: signoria che si esercita al modo del pastore. La povertà di spirito esiste là dove l’uomo vede e riconosce il proprio bisogno, la propria insufficienza e dipendenza, il proprio pericolo e limite, la propria miseria, e si rivolge a Dio nella preghiera e nella fiducia. Non si identifica semplicemente con la povertà materiale, ma abbraccia tutte le forme innumerevoli di povertà che vengono riconosciute davanti a Dio. La beatitudine degli afflitti sembra essere contraddittoria: afflizione è il contrario di gioia e beatitudine. Motivi di afflizione sono la morte, la malattia, le disgrazie fisiche e morali, il peccato e la manchevolezza: semplicemente la nostra vita di ogni giorno, fragile, debole e aperta a rovesci di fortune. L’afflitto è colui che vive in una di queste realtà e, nonostante tutto, confida nel Signore e si pone sotto la sua ombra. La mitezza è caratteristica di Gesù (Mt 11,29; 21,5). Egli chiama beati i miti che non abusano di alcun potere: sono gli uomini che sanno dominare loro stessi, che lasciano spazio all’altro per respirare e vivere, lo accettano e lo riconoscono nel suo modo di vivere, nei suoi bisogni e nelle sue necessità e richieste. Non intendono sopraffarlo e abbassarlo, non vogliono sovrastare e dominare su tutto, né imporre le proprie idee e i propri interessi a danno degli altri. Rispettano e riconoscono l’altro perché dotato di eguale valore e lo amano così come egli è. Fame e sete indicano che la giustizia è un bisogno materiale, naturale ed elementare, forte che proviene dall’uomo e nasce dal suo stesso interno. Il contrario è l’indifferenza e la mancanza d’interesse. I misericordiosi non passano indifferenti accanto al bisogno altrui, ma si fermano ad aiutare come il buon samaritano (Lc 10,31-37). Sono disposti a perdonare colui che li ha feriti o ha commesso torti nei loro riguardi, a conservare un cuore buono verso di lui e a porgergli di nuovo la mano per ristabilire la comunione. La purezza di cuore ci rimanda all’interno dell’uomo, al centro della volontà e delle aspirazioni. Un centro essenziale ed esistenziale che nell’uomo deve essere sempre rivolto a Dio e continuamente proteso verso di Lui. Agli operatori di pace sono necessari tutti gli atteggiamenti menzionati precedentemente. Pace non significa soltanto mancanza di opposizione reciproca, atteggiamento neutrale, ma lo stare insieme attivo, pieno di amore, vivo e concorde. La stessa giustizia spesso non provoca apprezzamento, ma rifiuto, pregiudizio e persecuzione. Così il discepolo partecipa della sorte del Maestro.
4. Le beatitudini hanno il carattere di promesse sicure e di chiari punti di orientamento e hanno una forza profondamente liberatrice. Chi possiede queste disposizioni descritte da Gesù può contare con estrema sicurezza sulla felicità e sulla gioia piena che è vera beatitudine, che è vera santità. Quella santità di cui oggi la Chiesa celebra le lodi, intessendo un rendimento di grazie al Padre, principio e fonte di ogni santità. Una santità da celebrare, ma anche da assaporare nella vita presente, nelle scelte di ogni giorno, nella vita cristiana. Una santità-meta che diventa santità-via. Se Dio, infatti, nella condizione escatologica dei Santi ci consolerà, non dobbiamo respingere l’attuale valle di lacrime, ma possiamo accettare serenamente sofferenza e bisogno, possiamo serenamente e gioiosamente piangere. Se per disposizione di Dio ci è assicurato lo spazio vitale, non dobbiamo imporci con violenza a spese dell’altro, ma possiamo rispettarlo e amarlo come noi stessi. Se Dio ci sazierà e ci donerà la pienezza di vita e di felicità, possiamo orientare tutta la nostra fame e sete a fare la volontà di Dio e non dobbiamo essere preoccupati affannosamente per la nostra vita. Se Dio è misericordioso con noi e ci perdona, non dobbiamo esigere il pagamento di debiti, ma possiamo condonarli. Perché Dio si lasci vedere da noi dobbiamo avere occhi non offuscati e cuore libero, libero da ogni orientamento contrario a lui. Se Dio ci accoglie nella sua famiglia, possiamo impegnarci per la pace, per la vita e per la comunità secondo il modello del Dio Trinitario. Se Dio, nella sua signoria, è fedele a noi, non dobbiamo avere paura davanti alle persecuzioni, ma possiamo rimanere fedeli all’adempimento della sua volontà. La santità, dunque, come via, come cammino da percorrere con speranza, oggi, nella Chiesa. Un cammino verso la santità che è allo stesso tempo cammino verso la libertà.
Fonte:VICARIATO DI ROMA
Ufficio Liturgico
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