Padre Paolo Berti, “Due uomini salirono al tempio a pregare...”

XXX Domenica del tempo ordinario           
Lc.18,9-1 “Due uomini salirono al tempio a pregare...” 

La preghiera del giusto “arriva fino alle nubi”, ma la preghiera del fariseo della parabola non
s’innalzò per niente, anzi quella preghiera fece scendere più in basso il fariseo poiché fu un ulteriore atto di mancanza d'amore sia verso Dio che verso il prossimo.
Chi soccorre il povero e la vedova “sarà accolto con benevolenza”, e il fariseo non venne accolto perché mentre si presentava a Dio, non amava il suo prossimo, e con ciò neppure amava Dio (Cf. 1Gv 4,21). Il fariseo infatti aveva ridotto Dio a sola volontà legale. Un Dio che ritiene importante solo l’aspetto formale dove non ha luogo l’amore, ma solo l’adempimento rigoroso, che poi non era rigoroso nei fatti, della Legge, come pegno contrattuale per ottenere benevolenza. L’alleanza ne risultava appiattita e la Legge veniva ridotta a clausole giuridiche di contratto, non guida ad amare. Poste le cose così, il fariseo della parabola - tipo di tanti in Israele - arrivava ad enumerare davanti a Dio tutte le cose fatte: “Vedi Dio come ti ho soddisfatto; devi essere contento; ecc.”. Ma non solo, perché il fariseo andava oltre, attribuendo con ringraziamento il suo gonfiore a Dio. Nella legge si parla d’amore, e l’amore vuole l’umiltà, allora il fariseo, per far quadrare il cerchio della sua superbia, introdusse, appunto, il ringraziamento, che è espressione d’amore, di umiltà, di rispetto, di riconoscimento della gratuità dei doni ricevuti. Così svuotò di significato il ringraziamento, perché esso è segno d'amore, di vera umiltà. Tutta formale fu la preghiera del fariseo, cioè senza amore, cioè senza verità.
Il fariseismo era il risultato di una drammatica evoluzione secolare. Guardiamo ad Israele prima della deportazione a Babilonia, quando la Legge non era osservata e si accoglievano gli idoli. Cosa si faceva molto spesso? Ci si rivolgeva a Dio pensato come geloso - e Dio lo è (Cf. Dt 32,21; 1Re 14,22; Ez 8,3; Ps 78,58) -, ma lo si pensava pure senza forza di giustizia, nel senso di un Dio che si può trarre dalla propria parte in ogni caso con le liturgie del tempio, con i sacrifici di tori ed agnelli. Questo era un bieco offendere Dio: “A me essi rivolgono le spalle, non la faccia” disse Dio a Geremia (2,27); e così si facevano preghiere, si cantavano inni, facendo del ringraziamento una sfrontatezza. Ma Dio fece sapere ad Israele che era sì Dio geloso, ma anche giusto giudice, che non si lasciava sedurre da ipocrite liturgie, e lo fece sperimentare con il flagello delle invasioni assire e babilonesi e le deportazioni conseguenti.
Ma ecco che dopo il ritorno dall’esilio, pian piano, si arrivò al fariseismo. Dio è giustizia e dunque dobbiamo osservare la legge se vogliamo essere salvi! Capite? Prima Dio era buono, amante del popolo, senza avere la forza della giustizia; poi Dio ha solo la forza della giustizia avendo sì l’amore, ma un amore vuoto d’amore.
Il fariseo seguì il copione consueto: prima si deforma Dio per farlo simile a sé (Ps 49/50 21); poi si dice che si è conformi a Dio, e poi tutto si sigilla ringraziando Dio di essere quello che si è.
Ora vi chiedo un supplemento di attenzione, ma ne vale la pena, perché l’illusione di superbia del fariseo era quella di sentirsi giusto per l’adempimento legale delle opere, ma ci fu anche chi giunse a smantellare le opere, arrivando a dirsi giusto sul vuoto di una fede morta.
Ecco, Lutero, sotto l’ossessione dei suoi peccati, prima concepì Dio come giustizia, poi per sfuggire a questo quadro - senza voler rinunciare al peccato - tolse a Dio l’esercizio della giustizia, dicendo che l’uomo è irrimediabilmente peccatore e non può che peccare e quindi non avendo responsabilità non è giudicabile. Un po’ come tante volte si sente dire: “Ma noi siamo povere creature, cosa può volere Dio da noi?”.
Seguitemi nel discorso. La salvezza, lo sappiamo, è il frutto di una sovrana elargizione di Dio in Cristo, ma poi occorre che l’uomo la accolga e la viva con la fede operante nella carità; ma Lutero si allontanò da questa verità e pensò che la salvezza è un’offerta di Dio senza la necessità di una fede testimoniata nel suo essere dalle opere, dal momento che l’uomo rimane irrimediabilmente serrato nel peccato, e quindi non libero. Pensato ciò, ne conseguiva che la grazia santificante donata dalla Redenzione non poteva che essere concepita come una realtà estrinseca e non trasformante l’uomo, come invece ben compare nella Scrittura; basti pensare alle parole di san Paolo: “Non sono più il che vivo, ma è Cristo che vive in me”.
Lutero si aggrappò a san Paolo circa la giustificazione mediante la fede (Rm 3,28) e non mediante le opere, ma con l’errore fatale di non vedere che Paolo si riferiva ai farisei che facevano consistere la salvezza solo nell’osservanza della legge e - bisogna aggiungere - nell’appartenenza etnica ad Israele, e che, san Paolo, parlando della fede, voleva l’imitazione dell’autore e perfezionatore della fede (Eb 12,2), Gesù Cristo, e quindi l’imitazione delle opere di lui (Gv 15,12; Rm 15,5s; 1Pt 2,21; 1Gv 3,16). Paolo, infatti, non aboliva le opere, ma anzi le poneva come frutto della fede in Cristo nel dono dello Spirito Santo.
Tutto il gioco di Lutero era quello di dirsi non responsabile delle opere che faceva. Ma se non si è responsabili delle opere, su quale terreno, di esame di sé, si può pensare il proprio essere gradito a Dio? Lutero si trovò di fronte alla sua fede senza le opere e quindi morta in se stessa, come ci dice Giacomo 3,20; per dirsi che invece era “vivo” ricorse alla fiducia in Dio; così la sua fede la pensò viva se era fede-fiduciale; un bel pasticcio, che si può ben considerare frutto della presunzione e vuoto dell’illusione. La cosiddetta fede-fiduciale è un tutt’uno con la contraddizione di Lutero: essere salvo, sentirsi giusto, senza compiere le opere che testimoniano l’esistenza della fede, quella viva (Mt 5,17s; Rm 2,13; 3,31; 2 Cor 8,7; Gal 5,6; 1Tm 1,5; Gc 3,20; 2Pt 1,5).
Ancora chiedo la vostra attenzione; io sto cercando di presentare questo dramma dell’errore nella maniera più precisa e più semplice nello stesso tempo.
Ecco, allora; ecco, il disastro supremo: la contraddizione viene introdotta in Dio. Dio, nel pensiero di Lutero, è giusto perché non imputa, le colpe all’uomo, poiché - è il dire di Lutero - l’uomo è irrimediabilmente rovinato dal peccato originale (cosa che non è affatto; l’uomo è solo ferito dalla colpa originale, e il passo di Paolo nella lettera ai Romani 7,14s si riferisce solo ai moti della concupiscenza e niente affatto ai cedimenti alla carne), ma poi è nello stesso tempo ingiusto, visto che di due peccatori, uno lo spedisce di suo arbitrio all’Inferno per tutta l’eternità, e l’altro, sempre di suo arbitrio, lo accoglie in Paradiso.
Hans Urs von Balthasar, un teologo cattolico, rinomato, ora deceduto, senza rendersene conto, è arrivato a dare una mano a Lutero dicendo che l’Inferno esiste, ma che è nobile pensarlo vuoto. Ha dato una mano a Lutero, perché Balthasar viene ad eliminare la contraddizione di giusto-ingiusto in Dio, dal momento che Dio non manda nessuno all’Inferno. Dio rimane alla fine solo misericordia, senza esercizio della giustizia; proprio un andare frontalmente contro a non poche pagine delle Scritture, che tutti conosciamo. Balthasar in questo non è stato ascoltato dalla Chiesa; comunque è doloroso che ci siano teologi che sembrano rivelarci più di quanto ci abbia detto Gesù Cristo. Balthassar ha precisato che sperare la salvezza di tutti gli uomini non è contrario alla fede, ma la fede ha come punto fermo la Scrittura la quale parla di peccato contro lo Spirito Santo, che non può essere perdonato (Mt 12,32), non perché Dio non lo voglia, ma perché non lo può vista la radicale chiusura di un cuore ad ogni voce di Dio.
Balthassar ha voluto dire che Dio non condanna ma è l'uomo che si condanna da solo, vero che si condanna da solo, ma anche vero che Dio condanna nel giudizio. E se non ci fosse il giudizio, dove sarebbe il premio? La Scrittura ci dice che l'inferno, purtroppo, non è vuoto. Ora sperare la salvezza eterna di tutti gli uomini può avere solo senso se ci si sacrifica nella carità, nella penitenza. Si chiede nella preghiera che “le anime più bisognose della misericordia di Dio siano preservate dal fuoco dell'inferno” (giaculatoria di Fatima), ma non si rimuove il fatto che ci sia chi si chiude a Dio. Sperare nell'inferno vuoto - espressione sintetica dei critici, che non è piaciuta a Balthasar -, ma che è il succo del suo discorso, significa voler annacquare il dramma dell'inferno e perciò raffreddare la preghiera facendola arenare nel quietismo. Qualcuno dice che un'anima che va all'inferno segna un fallimento di Dio, e Dio non sopporta di fallire, e quindi nessuno va all'inferno. Pensiero sballato, a dir poco, perché non è Dio che fallisce, ma l'anima, e neppure l'anima, ad essere precisi fallisce, poiché semplicemente non vuole l'amore di Dio. Chi fallisce è uno che aspira ad una cosa e non la raggiunge, ma chi non vuole Dio, non fallisce, se non nel senso che lui stesso fa fallire la ragione per la quale è stato creato, oppure perché fallisce la sua colpevole illusione (Cf. Lc 24). Riguardo a Dio, Dio fallirebbe se avesse lasciato spazio per un fallimento del disegno della salvezza, ma Cristo, morto sulla croce, non ha dato spazio ad alcun fallimento; chi rifiuta la salvezza non è perché Dio ha fallito in qualche aspetto nel darla. Ma se la misericordia di Dio viene rifiutata, non viene immobilizzata la sua giustizia; infatti presso Dio c'è misericordia, ma anche giustizia (Sir 16, 12-14). Chi rifiuta la somma della somma della somma della misericordia di Dio si trova in una condizione di irreversibilità (Cf. Eb 6,6-8). Vorrebbe costui salvarsi, giunto nell'aldilà, mettendo in difficoltà la giustizia di Dio (Cf. Mt 7,22-23), ma non lo può perché essa condanna proprio il rifiuto di un amore senza confini, cioè il rifiuto di Dio. Se l'amore di Dio fosse vuoto, cioè un puro fatto formale, allora non sarebbe possibile la giustizia, ma l'amore di Dio non è vuoto, egli infatti ha mandato il Figlio, testimone di un amore senza confini sull'altare della croce.
A qualcuno suonerà male, ma l'inferno glorifica l'infinita perfezione della giustizia di Dio, e tale giustizia si esercita a partire dall'amore che Dio ha dato a ciascuno di noi, poiché Cristo è morto per tutti, ha versato il suo sangue per tutti.
Ma non lasciamoci prendere da tali ragionamenti. Le eresie non devono farci perdere tempo.
Ecco, Dio vuole tutti gli uomini salvi, a lui possiamo andare pentiti delle nostre colpe e trovare salvezza, anche se i nostri peccati fossero come scarlatto diventeranno bianchi come neve (Is 1,18).
Considerando il pensiero eretico di Lutero, non dobbiamo pensare che coloro che sono cresciuti fin da piccoli nel luteranesimo non facciano del bene e non si sforzino di farlo; ma certo con risultati parziali. Comunque - va detto - la Scrittura è lì, a disposizione di tutti, e nella Scrittura c’è la correzione del luteranesimo, come di ogni eresia.
Consideriamo la seconda lettura, dove si parla di Dio giusto, che esercita la giustizia, e per questo si parla di premio al valoroso, di corona al valoroso. Paolo si aspetta la ricompensa da Dio perché ha combattuto la buona battaglia, perché attende la venuta del Signore, perché ha orientato la sua vita a seguire Cristo, a imitarlo, e non si sottrae alla prospettiva che il suo sangue stia per essere versato in libagione, e ha mantenuto la fede, potendo però ancora perderla per infedeltà (Cf. Mt 10,22; Lc 21,19; At 11,24; 13,43; Rm 12,12; Fil 2,12; 2Tm 2,12; Ap 2,10.26).
La salvezza dipende dall’iniziativa di Dio in Cristo, ma Paolo ha corrisposto all'iniziativa di Dio, ha creduto e imitato Cristo, l’obbediente del Padre, il nato sotto la Legge (Gal 4,4) per viverla e farla vivere nel suo perfetto compimento d’amore.
Concludendo, guardiamo al personaggio più importante della parabola, al pubblicano. Egli si dichiara peccatore e responsabile dei suoi peccati. Si batte il petto proprio per questo, così come noi ci battiamo il petto al Confiteor dicendo: “Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa”. Egli è umile; si ferma a distanza e tiene la testa abbassata davanti alla maestà di Dio che ha oltraggiato, e chiede perdono.
La superbia, fratelli e sorelle, non accetta di avere sbagliato e cerca di costruire una ramaglia di ragioni per giustificarsi ritenendosi buona e anche salvifica. Rimaniamo umili sempre, perché l’umiltà è obbedienza, come la superbia è disobbedienza. Maria, la Madre umilissima, ci aiuti con la sua intercessione ad essere sempre umili, per essere sempre obbedienti; lei, la donna umilissima e obbedientissima. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.


Fonte:http://www.perfettaletizia.it/

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