Alessandro Cortesi op, Commento XXXIII domenica tempo ordinario – anno C – 2016

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Mal 3,19-20; 2Tess 3,7-12; Lc 21,5-19

‘Malachia’, l’ultimo libro del gruppo dei profeti è libro anonimo: Malachia significa infatti ‘mio
messaggero’, colui che annuncia la parola del Signore: “ecco manderò il mio messaggero” (Mal 3,1).

Nei sei annunci del profeta che compongono il libro è presentata una polemica contro il modo in cui i sacerdoti in Israele svolgono il culto (1,6-2,9) è vista invece positivamente l’attitudine di popoli pagani che nel loro culto riconoscono il Dio del cielo: “dall’oriente e dall’occidente grande è il mio nome tra le genti” (1,11).

Malachia scorge la possibilità di accogliere stranieri nel popolo di Dio se essi riconoscono il Dio d’Israele. E’ in polemica con la scelta della chiusura, rappresentata da Esdra nel post-esilio (cfr. Esd 7) secondo cui nessuno straniero fuori del popolo d’Israele poteva essere ammesso al tempio.

Malachia riprende invece le aperture del terzo Isaia che si allargano ad orizzonti universali: “Gli stranieri che hanno aderito al Signore per servirlo, e per amare il nome del Signore, e per essere suoi servi, quanti si guardano dal profanare il sabato e restano fermi nella mia alleanza li condurrò sul mio monte santo e li colmerò di gioia nella mia casa di preghiera… perché il mio tempio si chiamerà casa di preghiera per tutti i popoli” (Is 56,6-7). Il tempio stesso non dev’essere segno della esclusione ma luogo di riconciliazione ed accoglienza.

Nell’ultimo capitolo del libro Malachia presenta il motivo dell’attesa di un ‘giorno del Signore’: il suo sguardo va ad un messaggero che deve preparare la via e identifica lo individua nella figura di Elia: ‘ecco io invierò il profeta Elia prima che giunga il giorno grande e terribile’ (Mal 3,23). Nella tradizione ebraica infatti Elia non era morto ma  trasferito in cielo e si attendeva così il suo ritorno: avrebbe infatti accompagnato il popolo a prepararsi alla venuta di Dio (2Re 2,11). Malachia descrive così il ‘giorno del Signore’ – immagine che si ritrova in Amos, profeta dell’VIII secolo (Am 5,18-20) – con le immagini del fuoco e della paglia consumata, indicando un intervento finale di Dio che capovolge una storia di ingiustizia e prevaricazione (Mal 3,5). Se il fuoco consuma e distrugge ogni ingiustizia e oppressione, in contrasto è descritta la luce che invade la vita dei ‘cultori del nome di Dio’ che troveranno gioia: per essi ‘sorgerà il sole di giustizia con raggi benefici e voi uscirete saltellanti come vitelli di stalla’ (Mal 3,20).

Gesù a Gerusalemme, nell’area del tempio, riprende tali riferimenti al ‘giorno del Signore’ : ‘Verranno giorni in cui tutto quello che ammirate non resterà pietra su pietra che non venga distrutta” (Lc 21,6). Gli chiedono allora: ‘quando accadrà questo e quale sarà il segno che ciò sta per compiersi?” (Lc 21,7). Di fronte a tale domanda, ancora una volta Gesù invita ad evitare le false questioni e la curiosità, espressione di una mentalità magica, tesa a vedere segni eclatanti, per tenere in mano il futuro. Invita invece a vivere la vigilanza. Ciò significa assumere la responsabilità nel tempo. In contrasto con la richiesta di evidenze tranquillizzanti le parole di Gesù sono provocazione ad operare scelte in fedeltà a lui, sulla strada da lui indicata. Le prove, le difficoltà, le incertezze e la persecuzione stessa saranno occasione di rendere testimonianza e di scoprire la presenza dello Spirito nel cuore.

Dopo la distruzione del tempio opera dell’esercito di Tito nell’anno 70 la comunità di Luca ricorda l’invito di Gesù: ‘quando sentirete parlare di guerre e rivoluzioni non terrorizzatevi… non sarà subito la fine”. Fu quell’evento certamente la fine di un mondo. La questione posta da Gesù sta nel vivere il presente nella consapevolezza di essere protesi ad un compimento, opera di Dio sulla storia. Il regno di Dio si manifesterà alla fine ma sin d’ora cresce in ogni scelta e gesto capace di esprimere la via di Gesù. Si radica qui una fiducia fondamentale per tutti coloro che accolgono la chiamata resistere, a perseverare, nell’affidarsi a Gesù e nell’impegno a compiere il bene: “Nemmeno un capello del vostro capo perirà. Con la perseveranza salverete le vostre anime”.

Alessandro Cortesi op



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(Camerino, i vigili del fuoco mettono al riparo una tela di Giovanbattista  Tiepolo situata in una chiesa  danneggiata dal terremoto)

Arte e macerie

Mentre dalle macerie del terremoto dell’Umbria vengono salvate le opere d’arte che, pur danneggiate, costituiscono un messaggio di ciò che può rimanere ed essere seme di nuova ricostruzione in rapporto ad un’eredità di bellezza consegnata, altri terremoti scuotono la vita dei popoli, ed in essi l’arte si fa voce esile di ricordo, di memoria, di risveglio…



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L’artista Banksy ha girato un video in cui suggerisce a modo di promozione pubblicitaria da parte di una compagnia di turismo la proposta di una nuova meta per un viaggio da programmare nella striscia di Gaza. E’ una tragica e dolorosa presentazione delle oportunità che prevede tale viaggio: località esclusive, con vicini attenti e vigilanti, con molte possibilità di sviluppo economico della zona…

L’arte dello street artist ha trovato tra le macerie causate dai bombardamenti gli spazi in cui offrire messaggi evocativi  laddove si direbbe non vi sia spazio per altro se non per la desolazione. Sono graffiti che annunciano speranza laddove regna isolamento e disperazione, e tracciano parole incerte che cercano di risvegliare un torpore di chi non schierandosi in conflitti tra chi ha il potere e gli impoveriti, pensando così di tranquillizzare la propria coscienza, di fatto appoggia il più forte e giustifica ingiustizia e oppressione. “Se ci laviamo le mani, nel conflitto tra chi ha tutto il potere e chi ne è senza, ci poniamo dalla parte dei potenti, non rimaniamo neutrali”



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Banksy così disegna giostre di luna park che dondolano attorno ad una torre di controllo del muro di separazione e di apartheid, trova spazi tra edifici diroccati per tratteggiare il volto della dea Niobe che piange i propri figli, con allusione all’antico mito,


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raffigura accanto ad un gomitolo di ferro intrecciato, resto informe di un bombardamento, il profilo di un gatto ponendo la domanda: ‘questo gatto ha trovato con chi giocare, e i nostri figli?’

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Eron, street artist italiano, originario di Rimini, ha realizzato una sua opera nel febbraio 2016 per L’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani con il titolo “Soul of the Sea”: in essa sul relitto di un’imbarcazione distrutta dal naufragio ha ritratto volti di donne e bambini. L’immagine è stata pubblicata dall’Economist e dal Chicago Tribune come miglior foto del giorno nel mondo. Eron ci riporta con gli spruzzi delle sue bombolette indirizzati sulla chiglia di un barcone naufragato nel Mediterraneo, il ricordo di volti, di chi sulla quella barca era vivente, con i tratti quasi evocativi di una natività, o del sogno di un bambino. Sono volti evocati come diafani fantasmi, stampati su relitti di imbarcazioni, quasi effetto naturale di una ruggine che evoca la memoria.


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Così le sculture poste sul fondo marino, opera di Jason deCaires Taylor artista britannico nel primo museo subacqueo – il Museo Atlantico a Lanzarote – provocano a pensare al viaggio di tanti migranti che nel loor morire hanno trasformato il mare Mediterraneo in una tomba e costituiscono rivelazione della barbarie in cui siamo immersi nell’Europa fortezza in cui si diffondono sentiemnti di rifiuto e disprezzo dei poveri.  Lo scatto di un selfie di una coppia senza volto sullo sfondo del mare – che è però solcato dai barconi di migranti – è tragico contrasto tra la serenità della vita e la promessa di vita racchiusa nel profilo della donna incinta e la realtà di morte e disperazione del percorso della migrazione.




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Le sculture di Taylor rinviano alla ‘Zattera di Medusa’, famoso dipinto di Jean Louis Théodore Géricault del 1818, opera elaborata con riferimento al naufragio che all’epoca ebbe ampia risonanza della fregata francese Medusa, in cui si salvarono solo quindici membri dei 150 della ciurma abbandonati ad una zattera di fortuna menre il resto dell’equipaggio si era riparato nelle scialuppe. Il dipinto divenne aspra denuncia contro l’esclusione dei più deboli, e aspra critica verso la monarchia francese del tempo, aprendo una nuova epoca della storia dell’arte.

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La scultura di Taylor di una folla che cammina, sul fondo del mare, fatta di individui isolati, distratti e apparentemente connessi, con i volti fissi sul proprio ipad, ma con gli occhi chiusi, è richiamo a prendere consapevolezza della cecità dilagante di fronte alle macerie di un’umanità perduta. Il mare dei naufragi è luogo in cui persone vive divengono figure anonime senza riconoscimento. Nel mare dell’indifferenza di quanti si muovono insieme verso una direzione senza meta, senza capacità di fermarsi e di accorgersi, la vita degli altri diviene insignificante. L’arte si fa messaggio di denuncia di un mondo in cui c’è indifferenza e distruzione e si fa anche appello a scorgere vie per emergere da tale immersione: se l’arte non è in grado di cambiare il mondo può essere voce affidata alla fragilità della materia per scuotere le coscienze.

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