MONASTERO MARANGO, "Ritrovare il proprio desiderio di resurrezione "

23° Domenica del Tempo Ordinario (anno C)
Letture: 2Mac 7,1-2.9-14; 2Ts 2,16-3,5; Lc 20,27-38
Ritrovare il proprio desiderio di resurrezione 
1)In quei giorni ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re,
a forza di flagelli e nerbate, a cibarsi di carne suina proibita.
Così inizia la prima lettura di questa domenica, che ci fa ricordare l’eroismo dei fratelli martiri durante la rivoluzione dei Maccabei, nel II secolo avanti Cristo. La tradizione riporta il nome di questa madre, Simona, che non ha esitato a sostenere i suoi figli nella dura prova, senza temere la morte: «Senza dubbio il Creatore del mondo vi restituirà di nuovo lo spirito e la vita».
Nel mio primo viaggio in Iraq ho potuto visitare, a Qaraqosh, una chiesa dedicata a questa eroica madre. Il piccolo e antico santuario era presidiato da militari curdi, prima che la violenza del Daesh travolgesse ogni cosa, costringendo più di centocinquantamila cristiani alla fuga e all’esilio. Ma la furia jihadista non ha spazzato via lunghi secoli di cristianesimo. Dopo più di due anni di attesa nei campi profughi di Erbil, i cristiani sperano ora di poter tornare ai loro villaggi, liberati in questi giorni dall’esercito curdo e iracheno. I nostri amici monaci di Qaraqosh, rimasti con la loro gente nella difficile prova dell’esilio, ci hanno inviato le prime testimonianze fotografiche; sono immagini che parlano di violenza e di devastazione: le chiese incendiate, le case saccheggiate, il nero colore della morte dappertutto. Posso però affermare con certezza che la fede di queste comunità cristiane non è venuta a mancare, e nemmeno l’amore. Questi cristiani, la cui identità storica è il martirio, ci insegnano che «è preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati».
Appena sarà possibile tornerò da loro, per essere rinsaldato nella fede: la loro esistenza testimonia che la morte dei giusti non è mai per sempre.

Anche il vangelo parla di resurrezione.
Si avvicinarono a Gesù alcuni sadducei.
I sadducei sono un gruppo dell’aristocrazia, tra i quali veniva reclutata la classe dei «gran sacerdoti». Conservatori e integralisti, non ammettevano che la fede, per rimanere fedele a se stessa, dovesse progredire e arricchirsi di nuove conquiste. Della Scrittura riconoscevano solo i primi cinque libri (il Pentateuco) e negavano tutto ciò che, essendo affermato in altri libri, ai loro occhi era deviazione dottrinale. Mi pare di vederli anche oggi, certi teologi e moralisti.
Tra le altre cose, i sadducei dicevano, ad esempio, che era ridicolo credere nella resurrezione. Molti cristiani pensano alla stessa maniera: la morte è la fine di ogni speranza.
Per costringere Gesù a sconfessare questa credenza nella resurrezione, i sadducei costruiscono un «caso» al limite dell’assurdo. Il pretesto è la legge del levirato (levir = cognato). Secondo questa legge, di origini antiche ma ormai in disuso al tempo di Gesù, il cognato doveva sposare la cognata quando il marito di lei moriva senza avergli dato figli maschi, al fine di assicurare una posterità al fratello defunto. In un tempo in cui non si aveva ancora idea di una resurrezione possibile, il prolungare così il proprio nome sembrava l’unico modo di «sopravvivere». Con la loro storiella i sadducei spingono alle estreme conseguenze un errore in cui talvolta cadono in molti, anche quelli che dicono di credere nella resurrezione: capita, infatti, di immaginare l’esistenza in cielo come analoga a quella che viviamo attualmente sulla terra. Tutto uguale a prima, solo un po’ meglio, senza dolori e senza dover lavorare. Riposo eterno!

Qual è la risposta di Gesù alla provocatoria domanda dei sadducei che vogliono sapere di chi sarà moglie, nella resurrezione, quella donna che ha avuto in vita sette mariti?
«I figli di questo mondo prendono moglie e prendono marito».
Nella risposta di Gesù non è importante sapere se, nella vita futura, coloro che si sono amati nel matrimonio avranno ancora una maniera particolare di amarsi. Ci dice semplicemente che questa vita futura che è promessa non è modellata sulla vita presente; è totalmente trasfigurata, è una vita in Dio, nella lode, come quella degli angeli.
Occorre anche essere «giudicati degni della vita futura e della resurrezione dai morti». Luca, come spesso fa nel suo vangelo, ci incoraggia a rinunciare a noi stessi per trovare la gioia in Gesù; ci stimola a vivere «oggi» la sua passione per partecipare alla sua resurrezione. Il grande lavoro da fare è ritrovare il proprio desiderio, che spesso giace come morto sotto cumuli di impegni, di pesi, di condizionamenti, di credenze religiose, che altri hanno imposto sulle nostre spalle. Il grande lavoro, da assumere con fedele perseveranza, sono i piccoli gesti di amore che preannunciano l’alba della resurrezione, perché la resurrezione, ogni giorno, ogni momento, avviene attraverso le finezze dell’amore. L’amore è già, fin d’ora, la vittoria sulla morte.

«poiché sono figli della resurrezione, sono figli di Dio».
Non viviamo alla presenza di Dio soltanto nel servizio della lode, uguali agli angeli, ma siamo introdotti nella sua intimità come figli, o meglio, come suo Figlio. Siamo ben lontani dalla ridicola domanda dei sadducei! Essi volevano trascinare Gesù sul terreno della casuistica, mentre egli ci immerge totalmente nel cuore della fede, che è relazione indistruttibile tra persone, edificata nell’amore.

«Che i morti risorgano lo ha indicato anche Mosè».
Parlare del «Dio dei morti» è una contraddizione. «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» significa il Dio che ha protetto e salvato questi patriarchi. Se costoro fossero morti per sempre, sarebbe evidente che Dio sarebbe venuto meno all’impegno assunto a loro riguardo. Li avrebbe salvati da qualche male passeggero, ma non dall’unico vero male: la morte. Il suo aiuto sarebbe una solenne presa in giro. Una beffa.
«perché tutti vivono per lui».
Vuol dire: «grazie a lui». Il Dio vivente non può cessare di dare la vita, e quindi Abramo e i patriarchi continuano a goderne. Loro, e «quelli che sono giudicati degni della vita futura». Se i morti non risuscitano, Dio è morto. Non può essere un Dio che vive e che appaga per sempre il desiderio di coloro che lo amano se, come gli altri uomini, è impotente di fronte alla morte.
Sì, noi crediamo nella resurrezione perché siamo certi di essere amati dal Dio vivo, e perché, poveramente, anche noi lo amiamo.
L’amore, infatti, è più forte della morte.
Fonte:MONASTERO MARANGO, CAORLE(VE)

Giorgio Scatto

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