MONASTERO MARANGO, "Nell'umiltà e nella debolezza si compie la rivoluzione dell'amore

3° Domenica di Avvento (anno A)
Letture: Is 35,1-6a.8a.10; Gc 5,7-10; Mt 11,2-11
Nell'umiltà e nella debolezza si compie la rivoluzione dell'amore
1)Un profeta anonimo del VI secolo a.C. canta il ritorno dall’esilio di Babilonia con immagini che
hanno la forza di risvegliare la speranza anche nei lettori di oggi.
La prima immagine è anche la più immediata tra quante possono presentarsi al momento in cui la carovana degli esuli inizia il suo pellegrinaggio: «Si rallegrino il deserto e la terra arida, esulti e fiorisca la steppa». L’idea del deserto che fiorisce e si trasforma è suggerita dalla memoria dell’antica fede religiosa del popolo. Attraverso l’esperienza del deserto Israele è giunto a stringere alleanza con Dio; nel deserto ha ricevuto la Legge; nell’aridità di luoghi senza vita ha ottenuto il cibo e l’acqua necessari per la propria sopravvivenza. Il deserto non è stato solamente il luogo della prova e di indicibili sofferenze, ma è apparso piuttosto come l’epoca dell’affettuosa intimità con Dio, un tempo in cui anche una terra riarsa si era trasformata in giardino.
Esultanza, gioia, canto: il profeta immagina la scena della partenza e del cammino nel deserto come una solenne azione liturgica, segnata dalla lode e dal ringraziamento. Allora, anche l’incerto sentiero nel deserto diventava una “via santa”, e lo sfiduciato poteva riprendere coraggio, rendendo salde le ginocchia vacillanti. Il cammino nel deserto diventava una meravigliosa avventura nella quale tutti erano attori principali, anche il cieco, il sordo, lo zoppo e il muto. Festa per tutti!

Osservo che molti vivono come se fossero ciechi, incapaci di vedere l’offerta di un cambiamento che sta davanti a loro. Rimangono sordi alla parola che può ridestare la loro vita. Molti stanno come immobili, con i piedi di piombo che impediscono loro non solo di «saltare come un cervo», ma anche di spostarsi leggermente in avanti. E sono muti, privi di parola, di canto, di sorriso, perché sono come impietriti dalla paura che qualcosa cambi intorno a loro.

Il profeta grida con forza: «Dite agli smarriti di cuore: “Coraggio, non temete!”».
Allora, usciamo, usciamo! E danziamo la vita, abbracciati ai ciechi, ai sordi, agli zoppi e ai muti! E vedrete che sarà la danza più bella, profezia di un mondo mai visto fino ad ora, se non nei gesti e nelle provocazioni di Gesù di Nazareth, e di tutti i “folli” come lui.

Siate costanti, fratelli, fino alla venuta del Signore.
Viviamo in un mondo nel quale la ricerca del bene possibile per tutti sembra un desiderio destinato a morire sul nascere, ucciso dai maestri del profitto e dai professionisti della rapina, con la forza brutale delle armi di distruzione di massa o con la violenza del diritto costruito a loro misura. Spesso la forza della legge è la legge della forza. C’è bisogno di saggezza e di pazienza, intesa non come rassegnazione, ma come decisa e perseverante resistenza, soprattutto in tempi difficili come i nostri. Non è una cosa impossibile. Il nostro tempo ci dona moltissime figure di donne e uomini resistenti fino alla morte: sono per noi degli indicatori stradali, luci nella notte, finché non spunterà il giorno. Come immagine l’apostolo Giacomo ci pone dinanzi la figura del contadino: egli lavora pazientemente il suo campo, in attesa dei frutti che verranno, dopo che «le prime e le ultime piogge» avranno irrigato la terra. E continua a seminare pazientemente, anche dopo una rovinosa tempesta.

La paziente costanza del cristiano è un atto di coraggio e di forza, che trova la sua radice nel cuore abitato dallo Spirito. E’ come la casa costruita sulla roccia, che non teme i tempi della calamità e dell’iniquità.
La prova quotidiana che abbiamo imparato a vivere radicati nella speranza della venuta del Signore, con incrollabile fiducia, con paziente attesa, è il fatto che non ci lamentiamo più gli uni degli altri  Il lamento è il segno più eloquente della nostra miopia, che non sa vedere lontano e costruire il futuro.

Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?
Giovanni è in carcere perché ha osato criticare la cattiva condotta di un potente. Cosa sempre più rara al giorno d’oggi, quando assistiamo a vergognosi pellegrinaggi verso i palazzi del potere da parte di miriadi di adulatori di corte. La speranza di far carriera all’ombra di qualche cupola è purtroppo conosciuta anche nella Chiesa.
Giovanni no, non è abituato al linguaggio politicamente corretto e usa parole forti, se non addirittura violente: «Razza di vipere! La scure è posta alla radice degli alberi. Dopo di me viene uno che è più forte di me!». Sì, il tratto caratteristico di «colui che viene» doveva essere la forza. Il Battista vede in lui il terribile giudice che estirperà con il fuoco inestinguibile tutti i peccatori che non si saranno pentiti dai loro peccati e non avranno cambiato vita prima che sia troppo tardi.
Ma l’apparire sulla scena di Gesù di Nazareth non corrisponde affatto all’idea che il profeta del deserto si è fatto del futuro Messia. Giovanni vive momenti di vero smarrimento: «Dobbiamo aspettare un altro?». E’ come aspettare ciò che non avverrà mai. Ci sono certe opportunità della storia che, se lasciate cadere, non si presenteranno mai più. Il profeta, che non abita nei palazzi dei re e non veste abiti di lusso, il più grande tra i nati di donna, è profondamente deluso.

Che cos’è che, nella vicenda di Gesù, non corrisponde alle aspettative giustizialiste di Giovanni?
Sono esattamente queste le «opere di Cristo» che lo spiazzano e lo disorientano:
«I ciechi riacquistano la vista,
gli zoppi camminano,
i lebbrosi sono purificati,
i sordi odono,
i morti risuscitano,
ai poveri è annunciato il Vangelo».
Le opere di Gesù attualizzano l’antica profezia del profeta anonimo che scrive sotto il nome di Isaia.
Le opere di Gesù sono l’irruzione del Regno di Dio in mezzo a noi.
Le opere di Gesù sona la carezza di Dio verso tutti gli esclusi, gli impoveriti, i peccatori.
Per quanto è nelle mie possibilità, mi basterebbe incominciare dall’opera che a prima vista sembra la più facile, ma che è anche la più disattesa: annunciare il vangelo della misericordia ai poveri, con parole umili e vere, con gesti degni dell’uomo. Il resto, ne sono sicuro, verrebbe tutto di seguito, fino alla meraviglia dei morti che risorgono.
Il segreto sta nel non scandalizzarsi della proposta di Gesù di Nazareth e del fatto che egli intende la sua missione nel mondo in maniera diametralmente opposta da come l’aveva immaginata il Battista. E da come continuano a pensarla anche tanti nostri contemporanei, che brandirebbero volentieri la croce per farne una spada.
Gesù si presenta non come il «forte» che dispiega contro i peccatori la potenza vendicatrice della collera di Dio, bensì come la manifestazione della inaudita misericordia del Signore verso tutti.
E’ la rivoluzione dell’amore, che si compie nell’umiltà e nella debolezza.

Lo scandalo che ci minaccia è l’eccesso di sterile zelo, che ci rende ciechi e incapaci di vedere i segni della salvezza in atto, anche sul volto di chi non ti saresti mai aspettato. Siamo muti personaggi che non hanno imparato a danzare e a cantare di fronte alle meravigliose opere del Signore.
Avvento è anche non rimanere prigionieri di noi stessi e delle nostre idee. Papa Francesco ci avverte che la realtà è più importante dell’idea. Anche delle idee religiose.


Giorgio Scatto
Fonte:MONASTERO MARANGO, CAORLE (VE)

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