Alessandro Cortesi op, Commento V domenica tempo ordinario – anno A – 2017

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(foto di Francesca Cortesi)
Is 58,7-10; 1Cor 2,1-5; Mt 5,13-16
“Voi siete il sale della terra… voi siete la luce del mondo”. Il simbolo del sale attraversa la Bibbia e presenta significati diversi. Ha infatti usi negativi come segno del giudizio di Dio e distruzione
(Sodoma e Gomorra, la moglie di Lot Dt 29,22; Gen 19,26; Sap 10,7). In positivo il sale è elemento indispensabile alla vita (Sir 39,26) e segno di forza (Ez 16,4), ma è soprattutto un simbolo di relazione: nel libro dei Numeri si parla di “un’alleanza di sale, perenne, davanti al Signore” (Num 18,19) e nel Levitico (Lev 2,13) si indica un rito: “dovrai salare ogni tua offerta di oblazione: nella tua oblazione non lascerai mancare il sale dell’alleanza del tuo Dio”. Il sale ricorda quindi il legame di alleanza tra Dio e il suo popolo. E' simbolo di amicizia. Ancor oggi nel mondo orientale il segno di un’intesa è proprio il mangiare insieme pane e sale.

Sale è anche segno di vita (da cui ‘salario’, per sopravvivere) e di sapienza: “Il vostro parlare sia sempre con grazia condito col sale (della sapienza) per sapere come rispondere a ciascuno” (Col 4,6). ‘Buona cosa il sale; ma se il sale diventa senza sapore, con che cosa lo salerete? Abbiate sale in voi stessi e siate in pace gli uni con gli altri’ (Mc 9,50).

Gesù chiede ai suoi discepoli di essere luce e sale, non solo testimoni e annunciatori, ma segno di alleanza nella storia. Il sale rinvia ad un rapporto, come la luce che illumina perché si possa vedere: Matteo presenta anche una parabola che parla di città sul monte e di lucerna sul candelabro. Gesù chiama i suoi discepoli, dopo aver indicato loro la via delle beatitudini ad essere segno di alleanza con lo sguardo rivolto all'umanità. Li invia ad essere un segno che non s'impone, ma contagia e attrae. La comunicazione della fede, come incontro con Cristo, non è opera di indottrinamento ma di testimonianza, di fascino, di gioia: "risplenda la vostra luce davanti agli uomini, perché vedano le vostre opere buone e rendano gloria al Padre vostro che è nei cieli"

Sale e luce sono immagini di qualcosa che è presenza discreta, che non si nota ma sta a servizio di una realtà più grande, è per altri. Permeano la vita ma in modo nascosto a servizio di una realtà più grande. Parlano così della vita dei discepoli: anch'essi sono inviati a ‘stare dentro’ alla realtà, a non fuggire o essere indifferenti e distanti. Essere sale e luce è così seguire la via di Gesù che si fa solidale con la nostra storia. I discepoli lo potranno essere solamente se seguono lui povero, mite, misericordioso, operatore di pace, perseguitato, e sapranno fare con Lui esperienza di quella felicità presentata nelle beatitudini – che non elimina problemi e difficoltà - ed è affidamento nel rapporto con lui.

Stare dentro le realtà come segno di un'amicizia al cuore della vita: è l'incontro con il Dio umanissimo che si prende cura dei piccoli: a questo siamo chiamati nel vivere la sequela di Gesù. Sta qui racchiuso un tratto della comunità che Gesù voleva: non preoccupata di se stessa, della propria grandezza di visibilità e di numeri, ma capace di ascoltare la sete di una umanità ferita e in ricerca ponendosi a servizio. Ricca solo di quel sale e di quella luce che non vengono dalle proprie forze ma da una relazione con Dio luce, da un dono di incontro e amicizia.

La prima lettura offre altre indicazioni importanti perché nelle tenebre brilli la luce: Isaia innanzitutto critica un tipo di religiosità che annulla il senso profondo del rapporto con Dio, la religiosità magica, vissuta in modo individualistico nella pratica di un culto separato dalla vita per ingraziarsi un Dio lontano.

Indica i tratti di una spiritualità diversa a cui Gesù stesso si riferisce: "brillerà la luce… se toglierai di mezzo a te l'oppressione". Essere luce si concretizza nello sciogliere le catene, nel rompere i vincoli che tengono le persone schiave incapaci di libertà e crescita personale, è sguardo agli altri, impegno storico di vicinanza, di liberazione.

Nella pagina di Isaia è indicato anche un altro modo di essere luce, quello della condivisione: "nel dividere il pane con l'affamato, nell'introdurre in casa i miseri…". "La tua luce sorgerà come l'aurora" se nella vita vi sarà condivisione. La fame, l’impossibilità di poter accedere al minimo per sopravvivere è terribile schiavitù e frutto di una ingiustizia contro cui lottare. E c'è anche una fame profonda del cuore a cui porre attenzione: "se sazierai l'afflitto nel cuore". Il sogno di Dio sull'umanità, a cui i discepoli di Gesù sono inviati è un mondo in cui per tutti vi sia da mangiare e s'impari a condividere nell'ascolto delle sofferenze degli altri.

Alessandro Cortesi op


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(Roma, chiesa di Santa Sabina)

Parole buone

Ci sono parole che curano, ci sono le parole della solitudine, ci sono le parole dei volti e ci sono le parole pesanti difficili: quelle del medico di fronte ad un paziente, degli amici accanto ad un malato. Ci sono le parole da leggere nei comportamenti incomprensibili degli adolescenti, e quella da scorgere nelle taciturne chiusure di chi è ferito, in segni ardui da decodificare. Ci sono le parole delle emozioni di chi ha subito traumi e violenza, ci sono le parole dell'ombra e quelle della luce. Ci sono le parole non dette che pure popolano le quotidianità dei rapporti e degli incontri.

Interrogarsi sulle parole diviene urgente oggi quando la comunicazione di tipo virtuale sta invadendo il nostro modo di comunicare. La facilità di invio di messaggi, il fascino dell'essere sempre connessi, ad ogni ora del giorno e della notte, in una rete che collega presenze lontane o vicine sta generando un genere inedito di comunicazione. Tante parole si incrociano, gettate, proferite, non pronunciate di fronte a volti, ma lanciate in uno spazio immateriale senza confini. Spesso sono parole dette nell'anonimato o con profili artefatti e illusori, in modo immediato e per lo più irriflesso.

Tanta aggressività e autentica violenza che percorre le nosre società trova un primo terreno di coltura proprio nell'arbitrio esercitato in uno spazio immateriale in cui non vi è apparentemente alcun limite, né fisico né di altro genere.

Le parole di odio seminate senza pensarci, le parole di notizie non verificate, le parole generatrici di sentimenti e opinioni senza fondamento, le parole che uccidono lanciate come pietre su persone indifese, le parole della calunnia o del dispregio: sono tutte queste le parole che si affollano e si moltiplicano, ridotte a chiacchiera. Talvolta sono parole ridotte quasi  a primordiali urli disarticolati, o ragionamenti cavilosi in cui regna solo l'aggressività e l'offesa e viene meno lo sguardo all'altro, il rispetto, come stare di fronte riconoscendo la dignità di un volto. Si assiste così ad una profluvie di parole, ad un eccesso anche di parlarsi in cui sempre meno si genera però il fiorire di relazioni. Chi ha praticato la comunicazione in rete suggerisce la pratica sana dell'interruzione del passaggio dal virtuale al reale. Ma davanti allo schermo di computer o di uno smartphone c'è sempre qualcuno, una persona che ha sentimenti e vive una storia. Allora, dove e come incontrare parole che curano?

A partire dall'esperienza di uno psichiatra che cerca di sondare i territori della comunicazione Eugenio Borgna s'interroga sulla parola. "Le parole non sono di questo mondo, sono un mondo a se stante, ma sono anche creature viventi, e di questo non sempre siamo consapevoli nelle nostre giornate divorate dalla fretta e dalla distrazione, dalla noncuranza e dalla indifferenza, che ci portano a considerare le parole solo come strumenti, come modi aridi e interscambiabili di comunicare i nostri pensieri. Ma le parole che ci salvano non sono facili da rintracciare, e come diceva Marina Cvaeteva, la grande scrittrice russa dilaniata dalla solitudine e dal dolore (le lettere meravigliose che ha scambiato con Rilke si leggono ancora oggi con lo stupore nel cuore), faticoso e febbrile è il lavoro necessario nel trovare parole che facciano del bene. Ma come trovare, e come rivivere, le parole che salvano, e creano relazione? La salvezza non può venire se non dall'ascolto, dall'ascolto del dicibile e dell'indicibile, che ci dovrebbe accompagnare in ogni momento della giornata, e in ogni situazione della vita" (Eugenio Borgna, Parlarsi. La comunicazione perduta, Einaudi 2015, 12-13).

L'affermarsi della comunicazione digitale ha comportato una diffusione di massa di conoscenze e di dati. Ha riempito le memorie di computer e ha in certo modo realizzato l'utopia di una biblioteca universale 'a disposizione di mouse' nei motori di ricerca e nelle banche dati. Ma l'infinità di parole (e immagini) che riempiono depositi di memoria, sono solamente flussi di dati che richiedono di essere verificati, intrecciati, posti insieme, interpretati. Hanno bisogno della messa in atto di una capacità di memoria non come deposito ma come attività e dinamismo interiore, che sappia porre in relazione e generi pensiero e scelte. Tutto questo richiede un tempo, il tempo della ricerca, il tempo della raccolta e della crescita. E' questo il tempo di maturazione di critica e libertà, che viene negato dalla velocità richiesta dall'immediatezza dell'informazione in tempo reale.

Quanto oggi è più urgente da custodire è piuttosto la pazienza della costruzione. Questa esige la lenta formazione di parole che non siano frutto di tempi ridotti all'istante, ma esito di lento interrogarsi, di domande che hanno bisogno della mediazione di un 'frattempo', del rimanere in silenzio, senza risposte immediate. In questo contesto quante volte anche le parole della fede vengono ridotte a chiacchiera per corrispondere ad una comunicazione della fretta e dell'immediatezza o nella preoccupazione di raggiungere obiettivi indicati come il numero di 'click' o dei 'like'.Dove e come cercare e incontrare parole che curano?

Viviamo un quotidiano in cui viene sempre meno la capacità del silenzio, del riflettere che anticipa sempre un parlare impastato di vita e che segue ogni parola significativa e profonda: "La parola e il silenzio si intrecciano l'una all'altra nel generare e nel ricostruire le premesse a una comunicazione che si allontani da quella delle chiacchiere quotidiane, e si avvicini alle esperienze fondamentali della vita: quelle che hanno come loro oggetto il tema delle attese e della speranza, del dolore e della malattia, del vivere e del morire…" (ibid. 30)

C'è una oppressione che si fa presente e viva oggi nelle parole svendute, nelle parole di violenza lanciate come pietre, nelle parole inutili provenienti da quel chiasso scomposto che popola ogni istante all'esterno e che trova riflesso in una irrequietezza interiore incapace di arrestarsi e ascoltare il suono del silenzio.

Il profeta, uomo della parola, coglie come oppressione s'identifica anche con un parlare senza senso del limite (empietà come arroganza e presunzione): dire parole buone è gesto esigente di un andare incontro all'altro nella sua fame e sete: "Se toglierai di mezzo a te l’oppressione, il puntare il dito e il parlare empio se aprirai il tuo cuore all’affamato, se sazierai l’afflitto di cuore, allora brillerà fra le tenebre la tua luce, la tua tenebra sarà come il meriggio"

Pochi giorni è giunta la notizia della morte di Christian Albini, all'età di 43 anni, un cristiano, un marito, un padre, un giovane,  insegnante di religione, responsabile del Centro di spiritualità della sua diocesi di Crema, innanzi tutto testimone di una fede ricca di apertura e di pensiero. Da anni, oltre a scrivere libri e su riviste ("Jesus" tra le altre), in particolare curava un blog a cui aveva dato il titolo "Sperare per tutti". Era impegnato nel promuovere riflessione teologica legata alla vita con l'intento di ricercare nel nostro tempo 'parole buone' - come amava dire - capaci di edificare. Sperare per tutti nella ricerca di parole buone... Ho sempre apprezzato questa impostazione della sua ricerca e testimonianza, che respirava di un'attitudine serena sul mondo, gli altri, la chiesa, le vicende della vita: un'eredità preziosa, nel suo ricordo, per continuare a cercare e comunicare parole che curano.

Alessandro Cortesi op

Fonte:https://alessandrocortesi2012.wordpress.com










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