Chiesa del Gesù - Roma, Commento II Domenica di Quaresima [A]
Gen 12,1-4; Sal 32; 2Tm 1,8-10; Mt 17,1-9
Dopo il deserto e la presa di coscienza della forza seduttiva delle tentazioni, subito, la liturgia quaresimale ci porta in alto, per ricordarci dov’è la meta.
È la sapiente scelta della Chiesa, che ci permette di fuggire la tentazione di concepire la preparazione alla Pasqua come un semplice susseguirsi di mortificazioni e di volti tristi, dimenticando che essa opera la nostra piena umanizzazione.
Se siamo nel deserto, se ci interroghiamo su chi siamo diventati, se dedichiamo più tempo alla preghiera, se esercitiamo una qualche forma di digiuno e di elemosina è solo per raggiungere la bellezza di Dio.
Dio sa di quanta bellezza abbia bisogno il nostro mondo, e anche noi.
Al centro di questa domenica c’è dunque la bellezza e l’armonia a cui misticamente tutti gli uomini tendono e che desiderano per essere veramente uomini.
Che cos’è allora questa bellezza, che sul Tabor si manifesta in Cristo?
Non è il puro estetismo che è miseramente un surrogato della bellezza.
Nel capolavoro di Fellini 8 e ½ il protagonista Guido, – che è un regista la cui arte è in crisi perché è in crisi la sua vita -, incantato dalla bellezza pura di Claudia che genera in lui un rispetto sacro che lo potrebbe rinnovare, le chiede: «Tu saresti capace di essere fedele a una cosa, a una cosa sola e farne la ragione della tua vita? Una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto, proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Ne saresti capace?».
Lei ribatte: «E tu ne saresti capace?». Guido risponde amaro, riferendosi al personaggio del suo film, che però è l’immagine di se stesso: «No, questo tipo vuole prendere tutto, arraffare tutto, non sa rinunciare a niente, cambia strada ogni giorno perché ha paura di perdere quella giusta e sta morendo come dissanguato».
La sua crisi è una crisi di sangue: è uno che arraffa con una ingordigia insaziabile e non sa dare.
Il protagonista intuisce che c’è una bellezza che promette salvezza, una bellezza infinita, che non si può rovinare, ma si rende conto che la via d’accesso gli è preclusa.
Ci vorrebbe una fedeltà tale da rendere quell’oggetto d’amore, infinito.
Mezzo secolo dopo viene premiato un altro film che racconta la stessa storia.
C’è uno scrittore in crisi di ispirazione che si annulla nel mondo delle feste romane, dorme di giorno, balla e consuma alcool e amori di notte.
Per lui la vita è solo una promessa d’amore non mantenuta: non resta che raccogliere tante delusioni quante sono state le illusioni.
La prima parte del film è un viaggio alla ricerca di una via di uscita dal suo torpore esistenziale, per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di senso a interlocutori validi perché “spirituali”: un vescovo e una suora austera.
Ma nessuno dei due è spirituale, cioè capace di lasciarsi vitalizzare dallo Spirito nella carne.
La Chiesa è l’ultimo interlocutore che possa dare ragione della speranza – che è la grande bellezza del cristianesimo -, tuttavia né il vescovo (carne senz’anima) né la Santa (anima senza carne) riescono a dare risposte di senso a questo uomo che cerca la bellezza e la validità di sperare.
Questa è l’assenza fragorosa che il film fa emergere.
Dove sono i cristiani immersi nel mondo, come l’anima nel corpo?
Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo chi si allontana dal mondo, non ne è inghiottito? C’è spazio per la contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per la trasfigurazione del quotidiano?
Eppure la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo.
La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia …
Il mistero dell’Incarnazione ha reso ogni vissuto umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente, che salva ogni singola e apparentemente insignificante esperienza umana.
Cristo è stato a tal punto fedele a noi, da renderci infiniti perché amati, salvando dall’usura, dal cinismo e dalla morte la nostra carne.
Ma questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi trova nell’agire quotidiano il dialogo con Dio.
La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano, solo se riscopriamo la contemplazione all’interno di ogni azione, se l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi, viene colto in ogni momento.
Questo è possibile solo grazie a una vita dallo “stile sacramentale”, cioè una vita in cui il visibile rimanda ad una pienezza di cui è ombra.
È impossibile contemplare senza una vita sacramentale, perché la trasformazione è offerta sacramentalmente solo dallo Spirito a ogni uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il suo lavoro, i suoi travagli, i suoi desideri.
Solo chi vive sacramentalmente la vita, vede la vita per quello che è: un frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel frammento.
Il cristiano contemplativo è immerso nel mondo senza esserne sommerso.
La grande bellezza è la trasfigurazione sacramentale del visibile, scoperta dalla contemplazione nell’agire quotidiano.
È l’unione a Cristo nella giornata concreta, i cui gesti “risorgono” e la loro grandezza è determinata non dal successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro – dalla fedeltà.
Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande bellezza dell’ordinario.
Senza questo la vita è dis-graziata, cioè esiliata dalla grazia.
Il Tabor non è solo una breve occasione per assaporare la bellezza dell’Eterno, ma è soprattutto l’invito a cercare e trovare la vera trasfigurazione nell’ordinario della nostra quotidianità.
La Quaresima non è solo mortificazione, ma invito a ri-scoprire questo senso profondo e sacramentale della nostra vita, il senso veramente umano della vita.
Non è fuggire la carne ma esserne fedeli, trovando in essa quella presenza dello Spirito che la trasfigura e che la fa essere santificata; si potrebbe dire transustanziata.
Dopo il deserto e la presa di coscienza della forza seduttiva delle tentazioni, subito, la liturgia quaresimale ci porta in alto, per ricordarci dov’è la meta.
È la sapiente scelta della Chiesa, che ci permette di fuggire la tentazione di concepire la preparazione alla Pasqua come un semplice susseguirsi di mortificazioni e di volti tristi, dimenticando che essa opera la nostra piena umanizzazione.
Se siamo nel deserto, se ci interroghiamo su chi siamo diventati, se dedichiamo più tempo alla preghiera, se esercitiamo una qualche forma di digiuno e di elemosina è solo per raggiungere la bellezza di Dio.
Dio sa di quanta bellezza abbia bisogno il nostro mondo, e anche noi.
Al centro di questa domenica c’è dunque la bellezza e l’armonia a cui misticamente tutti gli uomini tendono e che desiderano per essere veramente uomini.
Che cos’è allora questa bellezza, che sul Tabor si manifesta in Cristo?
Non è il puro estetismo che è miseramente un surrogato della bellezza.
Nel capolavoro di Fellini 8 e ½ il protagonista Guido, – che è un regista la cui arte è in crisi perché è in crisi la sua vita -, incantato dalla bellezza pura di Claudia che genera in lui un rispetto sacro che lo potrebbe rinnovare, le chiede: «Tu saresti capace di essere fedele a una cosa, a una cosa sola e farne la ragione della tua vita? Una cosa che raccolga tutto, che diventi tutto, proprio perché è la tua fedeltà che la fa diventare infinita. Ne saresti capace?».
Lei ribatte: «E tu ne saresti capace?». Guido risponde amaro, riferendosi al personaggio del suo film, che però è l’immagine di se stesso: «No, questo tipo vuole prendere tutto, arraffare tutto, non sa rinunciare a niente, cambia strada ogni giorno perché ha paura di perdere quella giusta e sta morendo come dissanguato».
La sua crisi è una crisi di sangue: è uno che arraffa con una ingordigia insaziabile e non sa dare.
Il protagonista intuisce che c’è una bellezza che promette salvezza, una bellezza infinita, che non si può rovinare, ma si rende conto che la via d’accesso gli è preclusa.
Ci vorrebbe una fedeltà tale da rendere quell’oggetto d’amore, infinito.
Mezzo secolo dopo viene premiato un altro film che racconta la stessa storia.
C’è uno scrittore in crisi di ispirazione che si annulla nel mondo delle feste romane, dorme di giorno, balla e consuma alcool e amori di notte.
Per lui la vita è solo una promessa d’amore non mantenuta: non resta che raccogliere tante delusioni quante sono state le illusioni.
La prima parte del film è un viaggio alla ricerca di una via di uscita dal suo torpore esistenziale, per giungere – nella seconda parte – a porre la domanda di senso a interlocutori validi perché “spirituali”: un vescovo e una suora austera.
Ma nessuno dei due è spirituale, cioè capace di lasciarsi vitalizzare dallo Spirito nella carne.
La Chiesa è l’ultimo interlocutore che possa dare ragione della speranza – che è la grande bellezza del cristianesimo -, tuttavia né il vescovo (carne senz’anima) né la Santa (anima senza carne) riescono a dare risposte di senso a questo uomo che cerca la bellezza e la validità di sperare.
Questa è l’assenza fragorosa che il film fa emergere.
Dove sono i cristiani immersi nel mondo, come l’anima nel corpo?
Chi sta nel mondo può essere solo mondano? Solo chi si allontana dal mondo, non ne è inghiottito? C’è spazio per la contemplazione della bellezza nell’agone delle 24 ore? C’è spazio per la trasfigurazione del quotidiano?
Eppure la fede è fondata sull’incarnazione del Verbo.
La carne di Dio ha attraversato in Cristo tutto il ventaglio dell’esperienza umana: il lavoro, il sudore, il fallimento, la gioia, il sorriso, il pianto, la stanchezza, la noia, il tradimento, l’amicizia …
Il mistero dell’Incarnazione ha reso ogni vissuto umano – in unione con Cristo – un luogo di incontro con il Dio trascendente, che salva ogni singola e apparentemente insignificante esperienza umana.
Cristo è stato a tal punto fedele a noi, da renderci infiniti perché amati, salvando dall’usura, dal cinismo e dalla morte la nostra carne.
Ma questo è possibile solo a chi vede Dio nell’agire quotidiano, anzi trova nell’agire quotidiano il dialogo con Dio.
La grande bellezza è quotidiana e a portata di mano, solo se riscopriamo la contemplazione all’interno di ogni azione, se l’ininterrotto dialogo, che lo Spirito causa dentro di noi e attorno a noi, viene colto in ogni momento.
Questo è possibile solo grazie a una vita dallo “stile sacramentale”, cioè una vita in cui il visibile rimanda ad una pienezza di cui è ombra.
È impossibile contemplare senza una vita sacramentale, perché la trasformazione è offerta sacramentalmente solo dallo Spirito a ogni uomo che la desideri mentre si muove nel mondo, con il suo lavoro, i suoi travagli, i suoi desideri.
Solo chi vive sacramentalmente la vita, vede la vita per quello che è: un frammento di una trascendenza, che dà gusto a quel frammento.
Il cristiano contemplativo è immerso nel mondo senza esserne sommerso.
La grande bellezza è la trasfigurazione sacramentale del visibile, scoperta dalla contemplazione nell’agire quotidiano.
È l’unione a Cristo nella giornata concreta, i cui gesti “risorgono” e la loro grandezza è determinata non dal successo ma dall’amore che vi scopriamo dentro e mettiamo dentro – dalla fedeltà.
Solo se i nostri sensi diventano porte aperte al dono continuo della grazia, lo Spirito potrà attraversarci e mostrarci la grande bellezza dell’ordinario.
Senza questo la vita è dis-graziata, cioè esiliata dalla grazia.
Il Tabor non è solo una breve occasione per assaporare la bellezza dell’Eterno, ma è soprattutto l’invito a cercare e trovare la vera trasfigurazione nell’ordinario della nostra quotidianità.
La Quaresima non è solo mortificazione, ma invito a ri-scoprire questo senso profondo e sacramentale della nostra vita, il senso veramente umano della vita.
Non è fuggire la carne ma esserne fedeli, trovando in essa quella presenza dello Spirito che la trasfigura e che la fa essere santificata; si potrebbe dire transustanziata.
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