MONASTERO MARANGO"L'esodo come nostalgia del futuro"

2° Domenica di Quaresima (anno A)
Letture: Gen 12,1-4a; 2Tm 1,8b-10; Mt 17,1-9
L'esodo come nostalgia del futuro
1)Gesù prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni e li condusse in disparte, su un alto monte.

I discepoli stanno vivendo un momento molto critico, dopo che Gesù ha annunciato loro che«doveva soffrire molto da parte degli anziani, dai capi dei sacerdoti e dagli scribi, e venire ucciso e risorgere il terzo giorno» (Mt 16,21). C’è smarrimento e paura, voglia di tornare indietro. Sappiamo che Pietro, l’amico impulsivo e passionale di Gesù, vuole addirittura impedirgli di continuare a camminare sulla sua strada, attirandosi un rimprovero feroce da parte del Maestro, che lo chiama “satana”. Dopo aver enunciato le condizioni della sequela, è per sostenere la fede dei discepoli, e la nostra, che i sinottici narrano l’episodio della trasfigurazione del Signore.
Non desidero commentare a lungo il brano, per poter sostare maggiormente sulla Genesi e sul significato della vocazione di Abramo.

Con la trasfigurazione, Dio stesso vuole confermare la fede dei discepoli, debole e superficiale, rivelando loro, sia pure fugacemente, la gloria del Figlio, il quale è venuto a portare la vera luce e la vera vita. La sua potenza trionfa sulla morte, che egli sta per affrontare.
Mosè ed Elia, che conversano con Gesù, sono le Scritture, i cinque libri della Legge e tutti profeti, che annunciano e rivelano il mistero pasquale di Cristo. Leggiamo infatti nel racconto dei discepoli di Emmaus: «Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? E cominciando da Mosè e da tutti i profeti, (Gesù) spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui» (Lc 24,27). Tutte le Scritture contengono una sola parola, e questa parola è Cristo. Alla loro luce la vita di Gesù diventa intelligibile e, alla luce della sua vita, le profezie acquistano il loro significato autentico. Anche Pietro, Giacomo e Giovanni conoscono le Scritture, ma le leggono come una luce che rimane chiusa nel passato, o come speranza di un compimento lontano, inafferrabile. L’esperienza del Tabor li conduce all’attualità della Parola. Quella Parola viva, di cui narrano le Scritture, è Gesù di Nazareth: ora occorre ascoltare lui per avere la vita. I discepoli lo hanno visto pregare e diventare trasparente al Padre suo. Hanno pregato, sono entrati nella sua preghiera, nella sua relazione filiale e gioiosa con il Padre, e sono stati trasformati, essi pure trasfigurati.
La trasfigurazione non è uno spettacolo per pochi eletti, è una esigenza terribile in ciascuno di noi, per diventare ciò che desideriamo essere; non rimanendo sul monte, costruendo tende e sospendendo il corso del tempo, ma scendendo ai piedi della montagna, per affrontare un cammino duro e impegnativo. Occorre iniziare un pellegrinaggio di fiducia sulla terra, il solo che ci condurrà ad esprimere l’inedito che è nascosto in noi.

Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò.
Ad una lettura attenta del testo della Genesi notiamo che Abramo partì due volte: la prima volta con suo padre, alla ricerca di fortuna, come molti; la seconda volta chiamato da Dio: «Poi Terach prese Abramo, suo figlio, e Lot, figlio di Aran, figlio di suo figlio e Sarai sua nuora, moglie di Abram suo figlio, e uscì da Ur dei Caldei per andare nella terra di Canaan. Arrivarono fino a Carran e vi si stabilirono» (Gen 11,31). Per quanto questo possa essere un viaggio avventuroso, esposto a insidie e pericoli, rimane una decisione dell’uomo, un segno tangibile ed eroico della sua intraprendenza e del suo desiderio di futuro. E’ dentro questa avventura umana che inizia l’avventura della fede, il pellegrinaggio verso la sorgente. C’è un Dio che entra nella tua vita e che non ti attende alla fine dei tuoi giorni, o nel momento del dolore e della disperazione, ma è già all’inizio del tuo andare, all’inizio dei tuoi progetti, anche se tu non lo sai. «Dio ci cerca, Dio ci aspetta, Dio ci trova prima che noi lo cerchiamo, prima che noi lo aspettiamo, prima che noi lo troviamo. Questo è il mistero della santità» (papa Francesco, La misericordia è una carezza, Rizzoli, Milano 2015, p.12).
Ecco, allora, la seconda partenza, vissuta in obbedienza a un imperativo divino, che raggiunge Abramo in un fremito impercettibile dell’aria, come voce di sottile silenzio: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela, dalla casa di tuo padre» (Gen 12,1). Diventare pellegrini della fede è lasciarsi dietro tutto un mondo fatto di certezze materiali, di orizzonti culturali, di relazioni affettive. Solo chi decide nel suo cuore questa nuova partenza, diventando per sempre «un forestiero, un uomo di passaggio» (Gen 23,4), potrà sperare di trovare un approdo sicuro, fino a ereditare il bene promesso, cioè Dio stesso.

La via del pellegrinaggio non è un’evasione. La via del pellegrino è una via che apre a responsabilità maggiori e più stabili rispetto a quelle a cui eravamo abituati; è una rinuncia alle scorciatoie e alle posizioni di rendita, alle facili illusioni della propaganda. Essere pellegrini, come Abramo, richiede, prima di tutto, la rinuncia alla ricerca del potere individuale e collettivo. Questa spinta aggressiva al possesso e all’esercizio del potere, infatti, implica una visione totalmente diversa della realtà rispetto a ciò che ci è dato di contemplare quando si decide di diventare pellegrini. E’ scritto: «Abramo partì come gli aveva ordinato il Signore». Il pellegrinaggio della fede si snoda perciò lungo le vie dell’obbedienza e non è costruito sui propri desideri di essere qualcuno o di possedere qualcosa, alla fine del viaggio. Diventare pellegrini è obbedire ad una parola, lasciandone cadere molte altre, pure importanti.

Faremo bene a ricordare che questa dimensione di non possesso, di provvisorietà, del diventare pellegrini in una terra che non è nostra, è una dimensione permanente dell’essere credenti e cristiani. Il Signore, all’inizio, ha preso l’uomo e lo ha posto nel giardino dell’Eden «perché lo coltivasse e lo custodisse» (Gen 2,25), ma di questa terra l’uomo non ha mai il diritto assoluto di proprietà. In essa egli dovrà considerarsi sempre «straniero e pellegrino», come si esprime l’apostolo Pietro scrivendo «ai fedeli che vivono come stranieri, dispersi nel Ponto, nella Frigia, nella Cappadocia, nell’Asia e nella Bitinia» (1Pt 1,17).

L’esodo, come paradigma di una vita di fede che ha inizio con Abramo, si inabissa nella terra d’Egitto, prosegue attraverso il deserto, sperimentando prove, tentazioni, peccati, fino all’ingresso nella Terra promessa, potrebbe essere la raffigurazione di questo tempo quaresimale e dell’intera nostra esistenza. E’ un tempo che comprende anche momenti di oscurità, di silenzio di Dio, di infedeltà dell’uomo, che continuamente infrange le alleanze, nel tentativo di riappropriarsi degli idoli abbandonati in fretta nella sua fuga dall’Egitto. Sì, esiste in ogni tempo la tentazione ad un ritorno perverso alla terra dalla quale siamo partiti, di un ritorno al proprio passato che, invece di provocare l’uomo alla verità e metterlo in cammino, gli prospetta l’impossibilità della strada.
La benedizione promessa ad Abramo e, in lui, a tutte le famiglie della terra, vive solo della nostalgia di futuro.


Giorgio Scatto
Fonte:MONASTERO MARANGO, Caorle (VE)

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