MONASTERO MARANGO,"Credere che siamo partecipi della vita di Dio"

5° Domenica di Quaresima (anno A)
Letture: Ez 37,12-14; Rm 8,8-11; Gv 11,1-45
Credere che siamo partecipi della vita di Dio
1)Un certo Lazzaro di Betania, il villaggio di Maria e di Marta sua sorella, era malato.

Betania era un villaggio che sorgeva a meno di tre chilometri da Gerusalemme. Ora si chiama Azarieh, ed è attraversato da un odioso muro di separazione che divide ebrei e palestinesi. Una comunità di suore comboniane, che hanno casa sul versante ebraico, hanno acquistato un piccolo terreno anche dall’altra parte, e così hanno aperto una piccola finestra di speranza. I muri si possono anche attraversare: è come porre dei segni di vita in un cimitero.
A Betania io ho abitato per nove mesi, all’inizio degli anni ottanta, e di questo paese, ormai tutt’uno con la città, mi sono rimasti i suoni, i colori, i profumi. Sento ancora sulla mia pelle il vento del deserto e il calore del sole d’estate. Ho patito anche un rigido inverno, durante il quale è nevicato otto volte. Ma i più poveri soffrivano di più, fino a morire di freddo. A Betania ho gioito delle voci dei bambini e ho contemplato i volti di tanti uomini e donne del popolo palestinese, segnati dalla passione di Cristo. La tomba di Lazzaro mi era molto familiare, perché ci passavo accanto ogni giorno, andando a messa nella comunità di Dossetti. Passando, molto spesso ero preso dal pensiero della vita che passa veloce e della morte che sembra coprire ogni cosa.

Lazzaro, amico di Gesù, lo troviamo solo qui, nel vangelo di Giovanni, e non sembra neppure conosciuto dai lettori dell’evangelista. Il suo nome in ebraico significa «Dio viene in aiuto». Sono invece ben note le sue sorelle, Marta e Maria. Marta è attiva e premurosa, una vera padrona di casa; Maria, al contrario, è meno vivace e più contemplativa, e deve spesso farsi riprendere dalla sorella (cfr. Lc 10,32-34). Ma probabilmente è proprio per loro che viene scritta questa pagina, come pure per i discepoli e per i Giudei, rappresentanti della religione ufficiale. Mentre Lazzaro rimane sullo sfondo, muto e senza parola, il brano evidenzia la poca fede di tutti gli altri personaggi. I discepoli hanno solo paura di morire, Tommaso in testa.
Le sorelle rimproverano a Gesù la sua poca premura: se fosse venuto subito avrebbe potuto guarire il loro fratello ammalato. I Giudei sono già molto prevenuti nei confronti di Gesù e lo provocano continuamente : uno come lui, da Nazareth, non può essere il Messia, non può venire da Dio!

Come possiamo vedere, il racconto di Lazzaro occupa quasi interamente il capitolo 11 del vangelo di Giovanni e contiene la più lunga descrizione di un miracolo , tra quelli narrati nel Nuovo Testamento. Lascio a voi prendere in mano il testo e leggerlo attentamente, fino a penetrarne pienamente il contenuto. Io, data la lunghezza del testo, mi limiterò solo ad alcune considerazioni generali, cercando di cogliere il senso dell’intero capitolo.

Davanti ai nostri occhi viene progressivamente costruendosi un vero dramma, con una tensione che sale e va crescendo. Due sono gli elementi caratteristici di questo dramma: Gesù, che è il personaggio principale del racconto, e poi, davanti a lui, tutti gli altri: i discepoli, Marta e Maria, i Giudei. Gesù rivelerà a loro la sua “gloria” nel mistero della sua passione e morte. Avendo sofferto personalmente è in grado di capire la sofferenza dell’uomo. Non solo. Gesù, con il dono della sua vita, offre a tutti un amore che è più forte della potenza della morte. Non si tratta di chiedere il miracolo di poter vivere un poco di più, di sopravvivere ad una malattia grave, di godere di una certa immunità, ma di essere fatti partecipi della vita di Dio, una vita che nemmeno la morte ci può strappare. Aver fede è credere questo. E’ la domanda che Gesù pone ai discepoli, alle sorelle, ai Giudei, a ciascuno di noi. Sono in primo luogo i discepoli che, trattenuti dalla paura e dalla loro logica umana, dovranno fare il passo della fede. Si presenta poi Marta, afflitta e nello stesso tempo animata dalla speranza di una risurrezione futura, fin troppo lontana per essere creduta davvero; anch’essa è chiamata alla fede. Infine i Giudei contribuiscono con le loro osservazioni a provocare il miracolo, e pure loro sono provocati alla fede. Credere non è aderire ad una dottrina, nemmeno alla dottrina della risurrezione. Noi crediamo che Gesù è la risurrezione e la vita e chi si affida a lui sperimenta già fin d’ora la gioia della vita eterna. Neppure la morte, quando essa verrà, potrà avere alcun potere su questa nuova vita.

Tutti questi personaggi entrano nel racconto uno alla volta, ma li troveremo tutti insieme al momento dell’epilogo. Tutti sono invitati alla fede, ma sembra che questo appello sia rivolto in modo più insistente ai Giudei. Tutto il vangelo di Giovanni sottolinea la tensione esistente tra Gesù che si rivela nelle sue parole e nelle sue opere e l’incredulità dei Giudei. Questo richiamo alla fede è costante nell’episodio della risurrezione di Lazzaro. Il verbo «credere» viene usato otto volte per indicare la risposta dell’uomo alla visione della gloria di Dio che si manifesta nell’uomo Gesù. Lazzaro è morto e sepolto da quattro giorni: i Giudei possono giustamente dubitare della potenza di Gesù. Marta e Maria gli dicono: «Se tu fossi stato qui, mio fratello non sarebbe morto». Secondo loro Gesù avrebbe potuto fare qualcosa per la vita del fratello, ma ritengono che pure lui, che ha guarito molti, sia impotente di fronte alla morte.
Gesù sa che la morte molte volte aspetta pazientemente, anche lunghi anni. A volte giunge rapida e improvvisa. Spesso trascina con sé dolore, angoscia, sofferenza. Che sia la morte il vero dio dell’uomo? Molti lo credono. L’uomo vive per la morte, affermano. Solo un debole raggio di luce lo illumina, prima che tutto venga inghiottito dall’ombra. E intorno a noi molte sono le rappresentazioni di questo dio: guerra, fame, miseria, violenza, sfruttamento. L’odore della morte è ovunque. Anche la chiesa sembra talvolta una pianura piena di ossa inaridite e bruciate dal sole, sulla quale deve essere invocato lo Spirito di vita.

Gesù però ha affrontato la morte, per vincerla. Il suo amore è più forte della potenza della morte. Le tenebre, per dirla con il linguaggio di Giovanni, non hanno potuto soffocare la luce.
Per questo, piangendo la morte del suo amico Lazzaro, come noi piangiamo gli amici, le vittime del terrore, i morti innocenti, può anche dire: «Togliete la pietra dal sepolcro!». Chi è amato da Gesù, chi è stato toccato dalla gloria del Cristo risorto, non può rimanere prigioniero della morte. Il suo destino è altrove. In fatti “il morto uscì, i piedi e le mani legati con bende, e il viso avvolto da un sudario. Gesù disse: «Liberatelo e lasciatelo andare»”. Il vangelo vuole consegnarci due verità. Innanzitutto che la morte è inevitabile. E’ davanti agli occhi di tutti. Tutti, presto o tardi, saremo avvolti dalle sue bende, senza più avere la luce negli occhi, oscurati da un pesante sudario. Tutto questo provoca sofferenza e dolore. Anche Gesù ha pianto l’amico morto. E anche lui ha sperimentato la morte. Ma la verità è un’altra. Gesù, che è la vita, ha combattuto la morte, l’ha affrontata sul suo terreno, è sceso sino agli inferi dove la morte custodisce il suo bottino, e l’ha vinta. Il risorto ci fa il dono della sua vita. Molto di più di quello che chiedevano Marta e Maria. Molto di più di quello che speravano i discepoli, quando si sono messi alla sequela di Gesù. Molto di più di una fede prigioniera della Legge, come è quella dei farisei.

Lasciatelo andare.
La strada non è quella che conduce all’oscurità del sepolcro, ma quella che conduce al Padre.
Il discepolo, lungo la strada, è impegnato a togliere tutte quelle pietre che impediscono alla vita di manifestarsi.

Giorgio Scatto
 Fonte :MONASTERO MARANGO CAORLE (VE)

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