Mons. Nazzareno Marconi Commento DOMENICA DELLE PALME

COMMENTO ALLA LITURGIA DELLA PAROLA PER LA SETTIMANA SANTA
DOMENICA DELLE PALME
(S. E. Mons. Nazzareno Marconi)

PRIMA LETTURA - Dal libro del profeta Isaia  (50,4-7)
Questo brano costituisce il terzo canto del servo del Signore. Colui che parla è la persona stessa del
servo che descrive il compito affidatogli. Il servo di Dio è il consolatore che porta la fiducia di Dio e dona una suprema consolazione a chi è scoraggiato e abbattuto; fedele discepolo di Dio ci consola con il suo insegnamento. Egli è in grado di consolare gli altri con la sua dottrina perché è per primo un ascoltatore docile della parola di Dio. Dio stesso gli apre l'orecchio e lo rende attento. La sua sofferenza innocente, che otterrà ampio sviluppo nel quarto canto è una descrizione anticipata della passione di Gesù. Il servo di Dio ingiustamente perseguitato è il Signore Gesù. Nel mezzo della persecuzione ingiusta e della sofferenza il servo però non perde la fiducia in Dio ed è sicuro della protezione divina; tale sicurezza supera ogni umana possibilità ed è opera di Dio come dono al suo fedele.
SECONDA LETTURA - Dalla lettera di san Paolo Apostolo ai Filippesi (2,6-1)
L'inno che forma il testo della lettura si trova nel corso della esortazione che san Paolo rivolge ai Filippesi invitandoli ad avere gli stessi sentimenti di Cristo; l'anima dell'apostolo prorompe in un canto lirico che riassume l’intera vicenda di Gesù.
Il testo può essere diviso in sei strofe di cui le prime tre indicano il movimento di discesa e umiliazione di Gesù, le altre tre il movimento di ascesa e di glorificazione. Gesù ha spogliato se stesso, non nel senso che abbia rinunciato alla sua divinità, ma nel senso che, facendosi uomo, nella condizione umana da lui scelta ha rinunciato alla manifestazione delle prerogative divine che gli sarebbero toccate per la sua divinità.
L'abbassamento del Figlio di Dio continua nell'essere solidale con gli uomini anche nella morte; non solo, ma sceglie la morte di croce, cioè la morte degli schiavi, la morte più infamante. L'umiliazione è totale.
VANGELO - Passione secondo Matteo (26,14-27,66)
Per comprendere il racconto della passione è necessario partire da una domanda che sembra strana: perché gli evangelisti hanno raccontato la Passione? I primi cristiani infatti erano coscienti che il fatto importante da tramandare ai posteri era la risurrezione di Gesù. Essi si sentono testimoni della resurrezione e sanno che Gesù ci ha salvati soprattutto vincendo la morte con la sua Risurrezione. In base a questo avrebbero potuto considerare la passione come un incidente di percorso, un ultimo tentativo del male di opporsi a Gesù, che fortunatamente non aveva avuto conseguenze irrimediabili. In definitiva avrebbero potuto descrivere solo molto sommariamente alcuni fatti e non, come è avvenuto, dedicare un ampio spazio nei loro vangeli a questi due o tre giorni. Ma fare questo sarebbe stato ''tradire'' il vero Gesù. È infatti "tutto Gesù" che ci ha salvati, e non soltanto il Gesù glorioso del mattino di pasqua. Gli evangelisti vogliono sfuggire alla tentazione molto umana di sorvolare sul dolore e sull'insuccesso per badare soltanto al risultato finale. Per i primi cristiani diventava infatti sempre più chiaro che la gloria della resurrezione era stata costruita da Gesù nel dono di sé della passione. La resurrezione non è un episodio, ma costituisce un tutt'uno con la vita di Gesù, che ha nel suo ''modo di morire'' il suo sigillo e il suo primo coronamento. La passione è dunque un momento prezioso del messaggio di Gesù, sottolinea l'accettazione della realtà e non la fuga da essa, il messaggio cristiano non è infatti una ricostruzione mitica che consenta di dimenticare il reale.
Mentre la preoccupazione generale di Marco nel narrare la passione è quella di portare un ascoltatore ignaro di tutto a riconoscere la divinità di Gesù e il valore della salvezza che ci offre con la sua croce e risurrezione, quella del vangelo di Matteo è di offrire a una comunità cristiana una presentazione chiara e ordinata del contenuto centrale della sua fede.
Matteo non si rivolge a un qualsiasi uomo della strada, ma a una comunità cristiana credente, che ha già lungamente riflettuto su Gesù e che vuol approfondire chiaramente la sua fede. Se in Marco lo stile è quello vivo e choccante dell'annunciatore, dell'evangelizzatore, in Matteo lo stile è invece quello ordinato e metodico del catechista. A Matteo sta a cuore mostrare che non c'è frattura tra l'AT ed il NT ma compimento, e che la Chiesa è la continuazione dell'Israele fedele che ha saputo seguire Dio piuttosto che i suoi capi invidiosi e corrotti. Per questo sottolinea molto spesso il tema del compimento delle Scritture, accanto a quello della prescienza di Gesù, che entra nella passione ben sapendo che cosa lo aspetta, e non come una vittima ignara. A ciò si aggiunge una presentazione benevola del popolo di Israele, che è pur sempre il popolo eletto, e che nel racconto appare soprattutto disorientato: un gregge senza pastore, che segue i suoi capi senza capirli né condividendone i progetti assassini.
Gesù si consegna spontaneamente ai farisei, perché riconosce nella passione il compimento del piano di Dio. Inoltre offre un chiaro insegnamento sul fatto che per ottenere la salvezza non sono vie percorribili né la violenza, né il miracolo che non lascia spazio alla collaborazione umana. Per ben due volte nel racconto della cattura si afferma con chiarezza il compimento delle Scritture, indicandoci in che modo dovremo leggere questo e tutto quanto segue: con il testo evangelico in una mano e l'Antico Testamento nell'altra. In modo particolare sono citate le profezie di Isaia (Is 55; 42; 53 etc.). Matteo, sulla linea di Marco, non afferma questo metodo come suo proprio: è Gesù stesso che ha letto la sua passione alla luce dell'Antico Testamento fin nel momento supremo, quando sulla croce ha fatto proprie le parole del salmo 22: "Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?".
Prima di passare al processo davanti a Pilato, Matteo inserisce l'annotazione sul suicidio di Giuda e soprattutto sul prezzo del sangue (Mt 27,3-10) che viene pagato e che, restituito, permette l'acquisto di un campo. L'evangelista non vuole centrare l'attenzione sulla morte di Giuda, come può apparire a prima vista, ma sul tema del contratto con il traditore e soprattutto del prezzo del sangue. Per la morte di Giuda bastano poche parole, mentre ben sette volte sono citate le monete d'argento e tre volte è citato il sangue. Tutto questo fornisce una prova legale ed evidente sulla iniquità del processo, Giuda stesso proclama prima di morire, e quindi con una sincerità indubitabile: «ho tradito sangue innocente». Inoltre questa insistenza sul tema del prezzo di sangue ha forti reminiscenze antico-testamentarie, il tema del giusto venduto è molto diffuso a partire dalla storia di Giuseppe (Gn 37). E il sangue collegato con il campo ricorda l'omicidio di Abele, il cui sangue grida a Dio dal campo dove è stato versato. Sullo sfondo di questi racconti la morte di Gesù appare come la morte del fratello, tradito dai fratelli, che con il suo sacrificio salverà la loro vita, come aveva fatto Giuseppe. Il sangue di Gesù, come quello di Abele, farà giungere fino a Dio il suo "grido", ma non sarà questa volta una richiesta di vendetta, bensì una domanda di perdono: "Padre perdona loro, non sanno quello che fanno".
Fonte: www.omelie.org

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