dom Luigi Gioia "Oltre ogni paura"
Oltre ogni paura
dom Luigi Gioia
XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (25/06/2017)
Visualizza Mt 10,26-33
E' difficile considerare il cristianesimo ‘vangelo', cioè buona notizia, quando ci annuncia che il
peccato regna nel mondo, che al peccato di un solo uomo (Adamo) si sono aggiunti i peccati di molti, tutti hanno peccato, e che questo genera strutture di peccato all'opera nella storia delle quali siamo inevitabilmente complici. Gli esempi sono nella cronaca di tutti i giorni. Individualmente, nessuno di noi è insensibile al dramma di migliaia di profughi costretti dalle guerre -che sono i nostri paesi occidentali ad avere innescato- ad abbandonare le loro patrie per cercare rifugio nei nostri paesi. Individualmente, non siamo insensibili alla loro sorte e se ne incontrassimo li aiuteremmo senz'altro in qualche modo, ma collettivamente facciamo di tutto per tenerli lontani, per impedire loro di entrare nei nostri paesi, per deportarli nei loro luoghi d'origine dove saranno di nuovo esposti a pericoli mortali. Una struttura di peccato è questa: indipendentemente dalla volontà dei singoli, essa stritola tutti sul suo passaggio e, a meno di essere eroi, nessuno sembra capace di resistere ai suoi meccanismi letali. Il nostro benessere riposa su queste strutture e nessuno è pronto a rinunciarvi, né saprebbe come fare. C'è davvero una inevitabilità riguardo al male nel mondo e alla nostra complicità con esso, che la tradizione cristiana ha chiamato ‘peccato originale' e che Paolo descrive impietosamente quando afferma che in tutti gli uomini si è propagata la morte.
Il cristianesimo non pecca però di pessimismo o di fatalismo nell'offrire questo quadro. Se denuncia così accoratamente questa situazione non è per colpevolizzare nessuno, né per dispensare dalla lotta per la giustizia. Ben al contrario, è in virtù della sua acuta consapevolezza di quanto tale situazione, pur restando critica, porti già in sé i semi di cambiamento dai quali risulteranno i cieli e la terra nuovi. Da dove proviene infatti la diagnosi del cristianesimo sulla storia? Non prima di tutto dall'esperienza, né da una analisi meramente storica, sociologica o filosofica. Sorprendentemente, tale diagnosi proviene dalla salvezza di Cristo e il ragionamento di Paolo, che è poi diventato quello cristiano, è facilmente riassumibile come segue: se era necessario che Dio si facesse uomo per salvarci, questo vuol dire che la nostra situazione doveva essere (e resta) davvero drammatica. Gli esegeti hanno infatti appurato che Paolo ragiona a partire non dal peccato, ma dal dono della grazia: è perché tutti hanno bisogno del perdono di Cristo che sappiamo che tutti hanno peccato; è misurando quanto il dono della grazia non sia come la caduta, e con quale abbondanza il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sia riversato su tutti, che deduciamo quanto ne avessimo bisogno.
Se dunque il cristianesimo presenta un quadro non roseo della situazione dell'umanità non è per incuterci timore, per colpevolizzarci o per scoraggiarci, ma ben al contrario come sottofondo al grande messaggio di consolazione e di speranza che risuona praticamente in ogni pagina della Scrittura. Se infatti spesso vi è terrore all'intorno, se spesso insulto e vergogna coprono la nostra faccia, se la vita ci esporrà ad ogni sorta di sfide, di prove, di sofferenze, l'invito reiterato due volte nel vangelo di oggi è non abbiate paura.
Ci è garantita l'amorevole assistenza di un Dio che ci conosce a tal punto da aver contato il numero dei capelli sul nostro capo, che ci ha tanto amato da dare il suo Figlio per noi e la cui fedeltà è eterna.
Ogni volta che nella Scrittura un profeta o un salmo si lamentano di una prova, gridano una sofferenza, protestano contro il Signore, lo fanno con onestà, audacia, senza paura di offendere il Signore, consapevoli di poter dire tutto a Dio, ma concludono sempre questi sfoghi con una lode, con un ringraziamento, dando già per scontato di essere stati ascoltati ed esauditi. Le letture di oggi ci mostrano questo modello all'opera sia nel testo di Geremia che nel salmo. Il primo si conclude con un invito a cantare inni al Signore e a lodarlo perché ha liberato il povero dalla mano dei malfattori e il secondo invita i poveri a vedere, a rallegrarsi, a farsi coraggio, già sicuro che il Signore ascolta i miseri, e conclude con un invito alla lode: A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brulica in essi.
Ritroviamo la stessa dinamica presente nel pensiero di Paolo. Possiamo dire che è la fede nella fedeltà di Dio, nel suo amore per noi, che libera il grido di dolore e gli permette di esprimersi in tutta la sua veemenza. Il salmista può rivolgere a Dio la sua preghiera con sincerità, senza timore, perché ne conosce la fedeltà, la bontà ed anche la tenerezza: Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore; volgiti a me nella tua grande tenerezza.
Il realismo cristiano, insomma, non ha bisogno di edulcorare in nulla la realtà del male del mondo, ma è al sicuro da ogni forma di fatalismo, di cinismo e di disperazione perché conosce il Dio in cui spera, ha imparato a decifrare il suo intervento nella storia, ne conosce la tenerezza e la fedeltà e a queste sa di poter ricorrere senza temere mai di restare deluso.
Fonte:http://www.qumran2.net
dom Luigi Gioia
XII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (25/06/2017)
Visualizza Mt 10,26-33
E' difficile considerare il cristianesimo ‘vangelo', cioè buona notizia, quando ci annuncia che il
peccato regna nel mondo, che al peccato di un solo uomo (Adamo) si sono aggiunti i peccati di molti, tutti hanno peccato, e che questo genera strutture di peccato all'opera nella storia delle quali siamo inevitabilmente complici. Gli esempi sono nella cronaca di tutti i giorni. Individualmente, nessuno di noi è insensibile al dramma di migliaia di profughi costretti dalle guerre -che sono i nostri paesi occidentali ad avere innescato- ad abbandonare le loro patrie per cercare rifugio nei nostri paesi. Individualmente, non siamo insensibili alla loro sorte e se ne incontrassimo li aiuteremmo senz'altro in qualche modo, ma collettivamente facciamo di tutto per tenerli lontani, per impedire loro di entrare nei nostri paesi, per deportarli nei loro luoghi d'origine dove saranno di nuovo esposti a pericoli mortali. Una struttura di peccato è questa: indipendentemente dalla volontà dei singoli, essa stritola tutti sul suo passaggio e, a meno di essere eroi, nessuno sembra capace di resistere ai suoi meccanismi letali. Il nostro benessere riposa su queste strutture e nessuno è pronto a rinunciarvi, né saprebbe come fare. C'è davvero una inevitabilità riguardo al male nel mondo e alla nostra complicità con esso, che la tradizione cristiana ha chiamato ‘peccato originale' e che Paolo descrive impietosamente quando afferma che in tutti gli uomini si è propagata la morte.
Il cristianesimo non pecca però di pessimismo o di fatalismo nell'offrire questo quadro. Se denuncia così accoratamente questa situazione non è per colpevolizzare nessuno, né per dispensare dalla lotta per la giustizia. Ben al contrario, è in virtù della sua acuta consapevolezza di quanto tale situazione, pur restando critica, porti già in sé i semi di cambiamento dai quali risulteranno i cieli e la terra nuovi. Da dove proviene infatti la diagnosi del cristianesimo sulla storia? Non prima di tutto dall'esperienza, né da una analisi meramente storica, sociologica o filosofica. Sorprendentemente, tale diagnosi proviene dalla salvezza di Cristo e il ragionamento di Paolo, che è poi diventato quello cristiano, è facilmente riassumibile come segue: se era necessario che Dio si facesse uomo per salvarci, questo vuol dire che la nostra situazione doveva essere (e resta) davvero drammatica. Gli esegeti hanno infatti appurato che Paolo ragiona a partire non dal peccato, ma dal dono della grazia: è perché tutti hanno bisogno del perdono di Cristo che sappiamo che tutti hanno peccato; è misurando quanto il dono della grazia non sia come la caduta, e con quale abbondanza il dono concesso in grazia di un solo uomo, Gesù Cristo, si sia riversato su tutti, che deduciamo quanto ne avessimo bisogno.
Se dunque il cristianesimo presenta un quadro non roseo della situazione dell'umanità non è per incuterci timore, per colpevolizzarci o per scoraggiarci, ma ben al contrario come sottofondo al grande messaggio di consolazione e di speranza che risuona praticamente in ogni pagina della Scrittura. Se infatti spesso vi è terrore all'intorno, se spesso insulto e vergogna coprono la nostra faccia, se la vita ci esporrà ad ogni sorta di sfide, di prove, di sofferenze, l'invito reiterato due volte nel vangelo di oggi è non abbiate paura.
Ci è garantita l'amorevole assistenza di un Dio che ci conosce a tal punto da aver contato il numero dei capelli sul nostro capo, che ci ha tanto amato da dare il suo Figlio per noi e la cui fedeltà è eterna.
Ogni volta che nella Scrittura un profeta o un salmo si lamentano di una prova, gridano una sofferenza, protestano contro il Signore, lo fanno con onestà, audacia, senza paura di offendere il Signore, consapevoli di poter dire tutto a Dio, ma concludono sempre questi sfoghi con una lode, con un ringraziamento, dando già per scontato di essere stati ascoltati ed esauditi. Le letture di oggi ci mostrano questo modello all'opera sia nel testo di Geremia che nel salmo. Il primo si conclude con un invito a cantare inni al Signore e a lodarlo perché ha liberato il povero dalla mano dei malfattori e il secondo invita i poveri a vedere, a rallegrarsi, a farsi coraggio, già sicuro che il Signore ascolta i miseri, e conclude con un invito alla lode: A lui cantino lode i cieli e la terra,
i mari e quanto brulica in essi.
Ritroviamo la stessa dinamica presente nel pensiero di Paolo. Possiamo dire che è la fede nella fedeltà di Dio, nel suo amore per noi, che libera il grido di dolore e gli permette di esprimersi in tutta la sua veemenza. Il salmista può rivolgere a Dio la sua preghiera con sincerità, senza timore, perché ne conosce la fedeltà, la bontà ed anche la tenerezza: Ma io rivolgo a te la mia preghiera,
Signore, nel tempo della benevolenza.
O Dio, nella tua grande bontà, rispondimi,
nella fedeltà della tua salvezza.
Rispondimi, Signore, perché buono è il tuo amore; volgiti a me nella tua grande tenerezza.
Il realismo cristiano, insomma, non ha bisogno di edulcorare in nulla la realtà del male del mondo, ma è al sicuro da ogni forma di fatalismo, di cinismo e di disperazione perché conosce il Dio in cui spera, ha imparato a decifrare il suo intervento nella storia, ne conosce la tenerezza e la fedeltà e a queste sa di poter ricorrere senza temere mai di restare deluso.
Fonte:http://www.qumran2.net
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