MONASTERO MARANGO, "La tragedia umana è travolta dalla sovrabbondanza dell'Amore"

12° Domenica del Tempo Ordinario (anno A)
Letture: Ger 20,10-13; Rm 5,12-15; Mt 10,26-33
La tragedia umana è travolta dalla sovrabbondanza dell'Amore
1)Lodate il Signore, perché ha liberato la vita del povero dalle mani dei malfattori.

La prima lettura di questa domenica del tempo ordinario è tratta da un insieme di testi autobiografici, chiamati «confessioni di Geremia», nei quali il profeta, dialogando con Dio, elenca tutte le sue sofferenze e descrive in termini drammatici le difficoltà che incontra nel compimento della sua missione. Non solo questo profeta tragico ha dovuto rassegnarsi al celibato impostogli da Dio stesso, per simboleggiare in tal modo le tribolazioni del suo tempo (Ger 16,1-4), ma è stato privato anche di tutte le gioie dell’amicizia. Aggiungiamo pure l’insuccesso della predicazione e l’ostilità che questa gli ha attirato, e allora capiremo come egli abbia potuto giungere fino al punto di subire la tentazione di sottrarsi alla Parola di Dio e di rinunciare al suo compito. Credo di comprendere le ragioni per le quali alcuni, anche tra i preti migliori, talvolta lasciano il ministero.
Ma c’è un’altra via d’uscita.
In mezzo a tutte le difficoltà il profeta è certo del soccorso del Signore, perché egli non combatte per sé, ma per il Signore, anche se giunge a provocarlo: «Perché vuoi essere come un forte incapace di aiutare? Eppure tu sei in mezzo a noi, Signore, il tuo nome è invocato da noi, non abbandonarci» (Ger 14,9).

Signore, che provi il giusto, che vedi il cuore e la mente, possa io vedere la tua vendetta su di loro, poiché a te ho affidato la mia causa!
Più di una volta la preghiera che Geremia rivolge al Signore non respira che vendetta contro i suoi nemici. Tali espressioni, che troviamo frequenti anche nei salmi, suonano male ai nostri occhi: raramente, infatti, nelle nostre liturgie cantiamo i drammi della storia e le tragedie dell’umanità. Cantiamo più volentieri il gregoriano piuttosto che la sofferenza e il grido di tanti fratelli.
La pietà di Geremia conosce i sentimenti di vendetta perché il male attorno a lui è davvero grande e insopportabile, ma nello stesso tempo, invocando la distruzione dei suoi persecutori, sa che il male non è invincibile e che Dio può ribaltare la situazione in ogni momento.
La nostra pericope termina con un invito pressante a lodare JHWH, Signore dei poveri: i desideri vendicativi di Geremia si infrangono contro la dura roccia del suo amore misericordioso e vogliono solo far trionfare la giustizia di Dio, fortemente compromessa nella storia personale del profeta, colma di umiliazioni e di oltraggi.

Tutti hanno peccato…
Ma il dono di grazia non è come la caduta. Se infatti per la caduta di uno solo tutti morirono, molto di più la grazia di Dio e il dono concesso in grazia del solo uomo Gesù Cristo si sono riversati in abbondanza su tutti.
Non possiamo semplicemente accontentarci di opporre Gesù ad Adamo. La sovrabbondanza dell’amore di Dio in Gesù Cristo non si può commisurare al peccato dell’uomo e alle sue conseguenze. Il punto focale è quel «molto di più» procuratoci dall’azione salvifica di Gesù Cristo. La percezione di tale abbondanza fa parte della teologia paolina, manifestata anche in altri contesti. Per esempio quando l’Apostolo paragona le sofferenze del tempo presente con la gloria futura: «Il momentaneo, leggero peso della nostra tribolazione ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17).
In tutte le lettere di Paolo si manifesta questa certezza: l’abisso della salvezza non è l’inverso dell’abisso della colpa; è piuttosto la colpa che è un debole segno delle dimensioni inaccessibili della salvezza. In Cristo la tragedia dell’esistenza umana è non solo superata, ma travolta dalla sovrabbondanza dell’amore, che ricopre e supera tutto.

Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo.
Anche questo austero passo del Vangelo è «buona notizia» che ci rivela come la coraggiosa professione della fede, preferendo l’attaccamento a Gesù a qualsiasi altro legame, sia la legge più profonda che sostiene la vita del discepolo.
Chi sono quelli che «uccidono il corpo»? Sono tutti coloro che alimentano l’odio e la persecuzione. Ma non bisogna avere paura, perché il grande progetto del Regno di Dio sarà presto reso manifesto a tutti. Ciò che ora si può appena mormorare all’orecchio sarà proclamato «sui tetti». Non dobbiamo perderci di coraggio se oggi si predica l’ideologia nefasta del rifiuto dello straniero, l’uso delle ruspe nei campi rom, il dominio dell’idolatria del denaro e del potere. Molti cristiani, purtroppo, obbediscono al capopopolo di turno piuttosto che al Vangelo. Dio però ha un altro piano e giungerà a realizzarlo.

Non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo.
Un mio amico monaco iracheno, vissuto sempre in scenari di guerra e di violenza, alla domanda se non avesse paura di morire, mi rispose con un sorriso: «E perché dovrei aver paura? La morte è solo un cambiamento di luogo». Gli uomini possono accanirsi contro la vita del corpo, possono anche soffocarla, distruggerla, ma non hanno alcun potere sulla vita vera, che sfugge ad ogni attacco.
La vita è l’esistenza vera dell’uomo, quella che si fonda in Dio e si compie in Lui. La morte, invece, è l’esistenza – simile a quella di un’ombra – dell’uomo che ha smarrito la sua vicinanza con Dio e la relazione con il fratello. La vera vita, che Dio assicura in maniera definitiva, non può essere diminuita né tolta dagli uomini, neppure attraverso una morte violenta.

Voi valete più di molti passeri!
Il Padre veglia sulla sua creazione, compreso ciò che si compra per niente, come un passero.
Di fronte ai rischi della missione, e anche alla rinuncia da parte di numerosi inviati, il discepolo che vuole mantenersi fedele deve avvertire di essere oggetto della tenerezza del Padre che è nei cieli.
Chi avrà mantenuta integra la sua professione di fede, come i profeti e i martiri, troverà in Gesù un difensore al momento del giudizio.
Fonte:www.monasteromarango.it

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