don Enzo Pacini, "Il mistero del regno è rivelato agli umili"
Il mistero del regno è rivelato agli umili
Domenica 9 luglio - XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. «Io sono mite e umile di cuore».
06/07/2017 di Enzo Pacini*
Una delle affermazioni dello storico latino Tacito più conosciute è il celebre giudizio sul
comportamento delle truppe imperiali romane: «rapinano, uccidono e distruggono e dove hanno fatto il deserto lo chiamano pace», un’affermazione tragicamente attuale. In questi giorni si parla infatti sui media della sempre più probabile sconfitta militare del califfato e del ritorno alla pace per le città e i territori oggetto di contesa: però basta solo dare un occhiata alle condizioni di città come Aleppo, Mosul e altre per rendersi conto dell’immane distruzione che si è abbattuta su esse e come una pace di questo tipo, anche se attesa, porti con sé una serie sconfinata di ferite sanguinanti che infetteranno a lungo la popolazione stremata. Su questo sfondo possiamo leggere la profezia di Zaccaria nella prima lettura di oggi (Zc 9,9-10) e coglierne la differenza: l’arco di guerra viene spezzato non grazie all’uso di uno più potente e devastante, ma con la forza dell’umiltà del Messia. La possiamo leggere in filigrana rispetto alla realtà delle nostre esperienze come qualcosa di tuttora irrealizzato e forse, anche se in modo inconfessato, di irrealizzabile.
Eppure la pace messianica non è un elemento secondario del Vangelo, roba da sessantottini fuori tempo massimo, è il cuore dell’annuncio perché manifesta il regno inaugurato da Cristo (cf. Mc 1,15). E allora perché forse anche noi ci troviamo ad essere credenti mutilati di questo elemento centrale? Ovvero perché, pur mantenendolo a livello dottrinale, lo abbiamo proiettato in una eternità di là da venire, così da essere cosa «altra» rispetto alla nostra vita? Una risposta può essere che di fronte a certe tragedie nessuno ha la capacità di gestirle, nessuno ha la bacchetta magica per risposte tanto complesse; possiamo sentirci incapaci di essere operatori di pace in contesti così difficili. Ma allora perché i guitti, i delinquenti, i mafiosi che hanno in mano le leve del potere, combinando spesso un disastro dietro l’altro, hanno tanto seguito? Perché l’ammirazione, l’occupazione delle prime pagine, fino al baciamano del boss del quartiere? Se è vero che il mistero del regno è rivelato agli umili, come umile è il Cristo Messia, significa che gli umili sono depositari di una rivelazione (Mt 11, 25-30). Ricordiamo che «rivelazione» è un tema centrale della fede cristiana: si parla di religione rivelata proprio per sottolineare che non si tratta di una costruzione del pensiero dell’uomo ma è Dio che comunica se stesso. Allora se gli umili sono i depositari di questa rivelazione ne sono anche gli interpreti, gli esegeti. Non sono una categoria, non diventano per questo dei professionisti ma sono il segno che le tracce di Dio non passano là dove uno, istintivamente, penserebbe. Può darsi che l’umile, il piccolo non sappia neppure di essere depositario di questa rivelazione, che non faccia nessun discorso celebrativo di questa realtà.
Ma per il fatto di esistere ci parla del mistero di Dio che sceglie la «tapinità» (rifacendosi al termine usato dal vangelo) di Cristo e di Maria (cf. Lc 2,48) per incontrare questo mondo. Ricordare questo per un credente, mettersi alla scuola degli umili, anche e soprattutto degli umili che non hanno nessuna voglia di far da maestri ad altri, diventa un antidoto all’arroganza sempre risorgente degli oppressori che si fanno chiamare benefattori o padri o salvatori della patria (cf. Lc 22,25) perché la venuta del regno e della sua pace non sia contrabbandata con la sterilità del deserto, di cui parlava Tacito o con la «pace terribile della morte» della quale ha parlato il Concilio (GS 82).
*cappellano del carcere di Prato
Fonte:http://www.toscanaoggi.it
Domenica 9 luglio - XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO. «Io sono mite e umile di cuore».
06/07/2017 di Enzo Pacini*
Una delle affermazioni dello storico latino Tacito più conosciute è il celebre giudizio sul
comportamento delle truppe imperiali romane: «rapinano, uccidono e distruggono e dove hanno fatto il deserto lo chiamano pace», un’affermazione tragicamente attuale. In questi giorni si parla infatti sui media della sempre più probabile sconfitta militare del califfato e del ritorno alla pace per le città e i territori oggetto di contesa: però basta solo dare un occhiata alle condizioni di città come Aleppo, Mosul e altre per rendersi conto dell’immane distruzione che si è abbattuta su esse e come una pace di questo tipo, anche se attesa, porti con sé una serie sconfinata di ferite sanguinanti che infetteranno a lungo la popolazione stremata. Su questo sfondo possiamo leggere la profezia di Zaccaria nella prima lettura di oggi (Zc 9,9-10) e coglierne la differenza: l’arco di guerra viene spezzato non grazie all’uso di uno più potente e devastante, ma con la forza dell’umiltà del Messia. La possiamo leggere in filigrana rispetto alla realtà delle nostre esperienze come qualcosa di tuttora irrealizzato e forse, anche se in modo inconfessato, di irrealizzabile.
Eppure la pace messianica non è un elemento secondario del Vangelo, roba da sessantottini fuori tempo massimo, è il cuore dell’annuncio perché manifesta il regno inaugurato da Cristo (cf. Mc 1,15). E allora perché forse anche noi ci troviamo ad essere credenti mutilati di questo elemento centrale? Ovvero perché, pur mantenendolo a livello dottrinale, lo abbiamo proiettato in una eternità di là da venire, così da essere cosa «altra» rispetto alla nostra vita? Una risposta può essere che di fronte a certe tragedie nessuno ha la capacità di gestirle, nessuno ha la bacchetta magica per risposte tanto complesse; possiamo sentirci incapaci di essere operatori di pace in contesti così difficili. Ma allora perché i guitti, i delinquenti, i mafiosi che hanno in mano le leve del potere, combinando spesso un disastro dietro l’altro, hanno tanto seguito? Perché l’ammirazione, l’occupazione delle prime pagine, fino al baciamano del boss del quartiere? Se è vero che il mistero del regno è rivelato agli umili, come umile è il Cristo Messia, significa che gli umili sono depositari di una rivelazione (Mt 11, 25-30). Ricordiamo che «rivelazione» è un tema centrale della fede cristiana: si parla di religione rivelata proprio per sottolineare che non si tratta di una costruzione del pensiero dell’uomo ma è Dio che comunica se stesso. Allora se gli umili sono i depositari di questa rivelazione ne sono anche gli interpreti, gli esegeti. Non sono una categoria, non diventano per questo dei professionisti ma sono il segno che le tracce di Dio non passano là dove uno, istintivamente, penserebbe. Può darsi che l’umile, il piccolo non sappia neppure di essere depositario di questa rivelazione, che non faccia nessun discorso celebrativo di questa realtà.
Ma per il fatto di esistere ci parla del mistero di Dio che sceglie la «tapinità» (rifacendosi al termine usato dal vangelo) di Cristo e di Maria (cf. Lc 2,48) per incontrare questo mondo. Ricordare questo per un credente, mettersi alla scuola degli umili, anche e soprattutto degli umili che non hanno nessuna voglia di far da maestri ad altri, diventa un antidoto all’arroganza sempre risorgente degli oppressori che si fanno chiamare benefattori o padri o salvatori della patria (cf. Lc 22,25) perché la venuta del regno e della sua pace non sia contrabbandata con la sterilità del deserto, di cui parlava Tacito o con la «pace terribile della morte» della quale ha parlato il Concilio (GS 82).
*cappellano del carcere di Prato
Fonte:http://www.toscanaoggi.it
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