MONASTERO MARANGO, "Senza pretese né difese"

14° Domenica del Tempo Ordinario (anno A)
Letture: Zc 9,9-10; Rm 8,9.11-13; Mt 11,25-30
Senza pretese né difese
1)Esulta grandemente, figlia di Sion.
E’ un invito, letteralmente, a saltare, a ballare con gioia. La comunità, riunita per l’assemblea
liturgica, accoglie festosamente il re messia.
Giubila, figlia di Gerusalemme! Ecco, a te viene il tuo re.
Questo re che viene è «giusto e vittorioso». E’ giusto perché è strumento della «giustizia» di Dio che salva. Questo significato viene confermato dal termine seguente, che dovremmo tradurre non come «vittorioso», ma con «salvato». Questo re messia attende la sua «giustizia» e la sua «salvezza» dall’alto. E’ «vittorioso» per grazia, per l’aiuto della potenza che viene solo da Dio.

Umile, cavalca un asino, un puledro figlio d’asina.
Tale «umiltà», praticamente sinonimo di «povertà», esprime una disposizione profondamente religiosa, quella del piccolo che «trema» davanti alla Parola di Dio. Siamo nel cuore di quella che è stata chiamata la spiritualità dei «poveri di JHWH». Non si tratta solo dei poveri e degli afflitti di cui i profeti sempre hanno preso le difese ma, in questa comunità che è tornata dall’esilio ed è ripiegata su se stessa, di coloro la cui speranza non è venuta meno e pongono tutta la loro fiducia in Dio, nonostante ogni prova contraria.
Non è più il tempo di nutrire sogni ambiziosi o desideri di grandezza. Ora la salvezza deve maturare all’interno di questa umile e paziente fedeltà. Nel nostro brano viene dunque espressa l’attesa di questo «salvatore» «salvato per primo», di questo povero che si abbandona solo alla potenza di Dio.

Il messia annunciato, umile e povero, viene per i poveri, ecco perché rifiuta come cavalcatura il cavallo, che serviva per la guerra o per le parate dei re e dei principi.
Cavalca un asino, per sottolineare il carattere umile e pacifico del Regno che viene a instaurare, dove tutto respira semplicità e pace.

Annuncerà la pace fra le nazioni.
La pace non verrà mai dai grandi della terra. Ha le sue radici nel terreno degli umili e degli oppressi. Sarà questo messia umile che porterà lo shalom, la pienezza di tutti i beni, la stabilità, l’equilibrio, la felicità.
«La pace sia con voi»: è il saluto del Risorto, che viene in mezzo ai suoi la sera di Pasqua. E’ la pace conquistata non con gli strumenti della guerra, «con carri e cavalli», ma con il dono della propria vita il cui segno permanente sono le mani e i piedi forati e il costato trafitto dalla lancia del soldato.
Questo dono totale della vita è esso stesso annuncio di pace, perché l’amore è più forte della morte, e il dominio del Risorto sarà «da mare a mare e dal Fiume fino ai confini della terra».

Ti rendo grazie, Padre, Signore del cielo e della terra, perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate ai piccoli.
Le cose nascoste ai sapienti e ai dotti, a quelli che si appoggiano unicamente su loro stessi e sulla loro presunta potenza, qualsiasi essa sia, culturale, economica o militare, o anche religiosa, sono i misteri del Regno, la conoscenza del cuore di Dio, la vocazione ad essere figli di questo Padre buono e misericordioso.
E i «piccoli» sono i poveri, i fragili, i peccatori; quelli che contano poco o nulla, quelli che sono vittime della prepotenza; quelli che vengono oppressi o considerati pietre di scarto. Quelli che, proprio per questi motivi, non possono appoggiarsi su nessun altro se non in Dio. Allora, se vogliamo capire le cose di Dio, dobbiamo farci «piccoli», metterci nell’atteggiamento di chi non ha una propria autonomia, di chi non può contare su nessuno per crescere, e perciò si espone, disarmato alla potenza di Dio.
Il «piccolo» è innanzitutto Gesù, che si consegna totalmente al Padre suo, in una inesprimibile confidenza.
Così, solo il Padre conosce il Figlio, totalmente “nascosto” in lui; ma anche solo il Figlio può rivelare il Padre, perché è il solo che lo conosce intimamente e che può prendere l’iniziativa di “spiegarcelo” (cfr. Gv 1,18).
Questa relazione d’amore, rivelatrice del Padre e del Figlio, resta inaccessibile ai sapienti e agli intelligenti.

Tutto questo ci rimanda ad alcune, semplici, considerazioni.
In un clima culturale in cui è difficile “aprirsi” all’altro totalmente, e siamo invece tentati di presentare la maschera di noi stessi, il reciproco donarsi del Padre e del Figlio, che svela il cuore segreto dell’uno e dell’altro, è un forte e perentorio richiamo a non giocare a teatro, ad essere semplici e trasparenti, a fare di ogni relazione un’occasione di un incontro vero, senza finzioni.
E’ un forte richiamo anche per i rapporti tra gli uomini di Chiesa, spesso giocati con raffinata diplomazia, freddi, distaccati, vissuti senza quella esemplare parresìa, schiettezza e trasparenza, che ci viene continuamente rammentata nelle Sacre Scritture. Spesso i rapporti tra ecclesiastici sono più preoccupati della carriera, del tornaconto, del vantaggio economico, che della semplice verità.
Quante persone, quanti gruppi, che si trovano in nome di Cristo, sono invece intolleranti, chiusi, incapaci di guardare il mondo con lo stesso sguardo di Cristo! Basta guardare al nostro atteggiamento nei confronti dei richiedenti asilo, degli stranieri, dei Rom, per misurare la nostra distanza dallo spirito del Vangelo.

In un contesto in cui prevale l’anonimato, e il primato della libertà individuale, separata dalla responsabilità verso gli altri, occorrono coraggio e costanza per arrendersi alla logica dei «piccoli» secondo il Vangelo, perché questo comporta la scelta di andare controcorrente e il rischio di restare soli, isolati dagli altri. Occorre convertirsi finalmente a Dio, perché possiamo anche convertirci veramente agli uomini in modo da costruire una realtà di comunione e riannodare rapporti con le persone sempre più nuovi e profondi.

Allora si comprende perché il Signore dice: «Imparate da me, che sono mite e umile di cuore». Il modello, il punto di riferimento, è Lui; che è il primo «piccolo» del Vangelo, Lui che da ricco si è fatto povero per amore, da potente si è fatto semplice e disarmato.
Essere discepoli vuol dire mettersi sulla linea contraria ad ogni prepotenza, imposizione, dominio sull’altro. Anche e soprattutto all’interno dei rapporti ecclesiali.
E’ mettersi senza pretese davanti a Dio e agli uomini come uno che cammina sotto la pioggia senza ombrello, senza difese.
Il «ristoro» promesso è allora un rapporto forte, da uomo a uomo, da persona a persona, con tutti, dopo aver maturato assieme a Gesù il senso e l’impostazione di una vita come la sua.


Giorgio Scatto
Fonte:www.monasteromarango.it

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