MONASTERO MARANGO, "Una carne malata di vendetta"

Una carne malata di vendetta
Briciole dalla mensa - 24° Domenica T.O. (anno A) - 17 settembre 2017
LETTURE
Sir 27,33-28,9   Sal 102   Rm 14,7-9   Mt 18,21-35
COMMENTO
La prima lettura di questa domenica è tratta dal libro del Siracide, un testo contenuto nella Bibbia
cristiana, ma non accolto nella Bibbia ebraica, perché considerato apocrifo. E’ stato scritto originariamente in ebraico a Gerusalemme intorno al 180 a.C. da “Gesù figlio di Sirac”, poi tradotto in greco dal nipote poco dopo il 132 a. C.. E’ chiamato anche “Ecclesiastico” perché la Chiesa antica tenne questa raccolta in particolare considerazione perché utilizzata per la formazione dei catecumeni.


Rancore e ira sono cose orribili e il peccatore le porta dentro.

I temi contenuti in questo brano affiorano fin dal primo versetto, grazie a parecchi termini importanti: innanzitutto la coppia «rancore-ira» che il saggio considera «cose orribili»; poi la coppia «perdono dell’uomo-misericordia di Dio», che egli unisce con una relazione di causa ed effetto. Possiamo renderci conto che la sapienza di Sirac non si limita alla ricerca di uno stile di vita che possa considerarsi nobile, di una esistenza da uomini saggi. Essa vuole stimolare il lettore a situarsi spiritualmente di fronte a Dio. A questo scopo incoraggia l’uomo a dare alla propria vita l’impronta del rispetto dei comandamenti, vivendo «in alleanza». Sotto questo aspetto il rancore, l’odio, la vendetta, che falsano nell’uomo il sentimento dell’amore, appaiono agli occhi del Siracide come particolarmente incompatibili con una vita di fede: «Perdona l’offesa al tuo prossimo e per la tua preghiera ti saranno rimessi i peccati».


«Signore, se mio fratello commette una colpa contro di me, quante volte dovrò perdonargli? Fino a sette volte?». E Gesù gli rispose: «Non ti dico fino a sette volte, ma fino a settanta volte sette».

E’ nota la “legge” di vendetta formulata dall’antico e feroce canto di Lamec: «Ho ucciso un uomo per una scalfittura
e un ragazzo per un livido. Sette volte sarà vendicato Caino, ma Lamec settantasette» (Gen 4,23-24).
Il primo istinto di chi subisce un torto, è quello di vendicarsi, cioè di restituire il colpo con gli interessi. Purtroppo le cronache di tutti i giorni ci narrano in abbondanza fatti di sangue, accoltellamenti e uccisioni nati dal niente: una parola maldestra, uno sguardo di troppo, una precedenza non rispettata, una spinta occasionale. Siamo precipitati in una società violenta, che non conosce più non solo l’altissimo orizzonte della proposta evangelica, ma nemmeno la misura normale dell’essere umani.
Già nell’Antico Testamento la “legge del taglione” limitava la vendetta alla reciprocità: «Se uno farà una lesione al suo prossimo, si farà a lui come ha fatto all’altro: frattura per frattura, occhio per occhio, dente per dente »(Lv 24,19-20). Poi, lentamente, la “legge del taglione” si è messa in cammino, fino alle pagine straordinarie di Isaia, che preannunciano la novità del vangelo: «Maltrattato, si lasciò umiliare, e non aprì la sua bocca; era come un agnello condotto al macello» (Is 53,7).
Nel vangelo Gesù ripudia la legge del taglione, fino ad esigere che si ami e preghi per nemici e persecutori. Ancor di più: dobbiamo accordare il perdono «fino a settanta volte sette». Sempre.
Lo spettacolo che viene offerto dal racconto della parabola evangelica supera ogni immaginazione: è portato davanti al re un servo debitore della somma allucinante di diecimila talenti: trecentosessanta tonnellate di oro! Probabilmente doveva trattarsi di un funzionario di alto rango, che si trovava in una situazione disperata. In realtà, questo debito veramente fantastico, immaginato dalla fantasia del narratore, rappresenta una cifra “teologica”, se vogliamo: davanti a Dio noi siamo tutti debitori insolvibili. La somma indicata è dunque il simbolo della nostra estrema miseria di fronte a Dio. Anche se pensassimo di sacrificare totalmente noi stessi e quanto abbiamo di più caro al mondo, continueremmo a rimanere insolventi davanti a Dio.



Il padrone ebbe compassione di quel servo, lo lasciò andare e gli condonò il debito.

Ebbe compassione: questo verbo si rivela come uno dei più belli dei vangeli sinottici. Significa letteralmente «essere commosso nel profondo delle viscere»; «nel profondo del cuore», diremmo noi oggi. E’ il verbo che rivela il cuore stesso di Dio. Riferito a Gesù, descrive il fremito di un’emozione pienamente umana che afferra il cuore del Maestro di fronte alle folle stanche e abbandonate, di fronte ai peccatori, di fronte alle sofferenze dei malati. Da questa fonte, alla quale ci siamo abbeverati, deve scaturire il perdono del fratello al fratello: «Non dovevi anche tu avere pietà del tuo compagno, così come io ho avuto pietà di te?».
Non sempre accade così. Come il servo della parabola, al quale è stato condonato tutto, spesso anche noi, per un piccolo ‘debito’ afferriamo per la gola il fratello, fino a umiliarlo mille volte.
La pietà, la misericordia, sono realtà sempre più rare. Anche tra i cristiani. Non occorre scendere in certe regioni del sud per renderci conto di vendette di sangue che durano da decenni, e che hanno sterminato intere famiglie. Io me ne sono reso conto personalmente, negli anni vissuti in Calabria. Esiste anche in mezzo a noi, nei nostri paesi e nelle nostre famiglie, la divisione, l’ostilità, e anche l’omicidio. La violenza, l’incapacità di perdonare, hanno spesso origine da gelosie, da problemi di confini, da spartizioni di eredità, da piccoli torti subiti. Siamo ancora nell’Antico Testamento, e anche più indietro. L’esito è una esistenza impoverita e prigioniera di pensieri tristi. Viviamo in una carne malata.



Così anche il Padre vostro celeste farà con voi se non  perdonerete di cuore, ciascuno al proprio fratello.

Il culto esteriore, praticato anche da coloro che non vogliono perdonare, deve lasciare il posto alla religione del cuore. La Chiesa: una comunità di fratelli che si perdonano e si amano. Si amano perdonandosi. E insieme fanno festa.

Giorgio Scatto
Fonte:www.monasteromarango.it/

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