padre Gian Franco Scarpitta "Convertiti e lavora nella vigna"

Convertiti e lavora nella vigna
padre Gian Franco Scarpitta  
XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (01/10/2017)
  Visualizza Mt 21,28-32
Non è mai troppo tardi per lavorare nella vigna del Signore, purché lo si faccia con amore, con
disinteresse e animati dalla fede che costituisce la nostra vera risorsa fondamentale e per ciò stesso il nostro sprone. Come abbiamo avuto modo di dirci la volta scorsa, non importa iniziare il lavoro nella vigna sin dalla prima ora o quando il sole è tramontato, ma lavorarvi con impegno e abnegazione anche per poco tempo, mirando alla qualità del servizio piuttosto che alle ore lavorative. Nell'ottica della volontà di Dio è sempre meglio fare poco e agire con profondità a convinzione d'amore piuttosto che cimentarsi in tantissime cose per vanagloria e presunzione, basta che si risponda all'invito del Signore a “lavorare nella vigna”, cioè ad adoperarsi per edificare il suo Regno nello specifico della vocazione alla quale siamo chiamati. E la chiamata può avvenire a qualsiasi ora, anche sul tarsi e perfino al “calar della sera”; i tempi di Dio non sono i nostri, come pure i criteri con cui Egli ci chiama sono del tutto differenti da ciò che noi immaginiamo. A noi è chiesto semplicemente di rispondere con solerzia e immediatezza, senza reticenze e animati da buona volontà e anche quando si corrisponde all'ultimo momento è possibile ottenere lo stesso metro di riconoscenza da parte del Signore. Anzi, tante volte chi risponde alla chiamata solo in un secondo momento mostra più impegno e decisione rispetto a chi presume di aver corrisposto da sempre. Diceva Moliere ne “Il malato immaginario”: “Il frutto tardivo è sempre il migliore”.
Adesso, con un'altra parabola molto più breve ma non per questo meno allusiva, Gesù torma a parlarci dei lavoratori nella vigna del Signore, innanzitutto facendo in modo che tutti comprendiamo che siamo invitati ad operare in essa come “figli di Dio”. Il padrone, a differenza che nel racconto parabolico della scorsa settimana, si rivolge questa volta ai suoi figli, cioè a coloro con i quali ha intessuto relazioni intime di mutua confidenza e ai quali rivolge amore e attenzione anche a prescindere da incarichi e impegni lavorativi. Tutti siamo chiamati perché siamo figli di Dio e per ciò stesso resi oggetto di amore e di attenzione. A noi suoi figli Dio affida un ruolo singolare, precipuo e particolare che si distingue da quello di tutti gli altri ma tutti quanti siamo invitati ad operare nella stessa vigna, vale a dire ad adoperarci per la costruzione del suo Regno e per l'edificazione della società terrena secondo l'impronta della patria dei Cieli.
In linea con il discorso parabolico della scorsa settimana anche se distintamente da esso, Gesù ci illustra che l'opera che noi siamo chiamati a svolgere va eseguita con prontezza, sincerità, convinzione e che non bastano parole e argomentazioni significanti per distinguerci da tutti gli altri. Quello che conta è infatti impegnarsi, lavorare, costruire e progettare secondo la volontà di Dio, fare ogni cosa secondo lo spirito della nostra chiamata. Pertanto è più giustificato e degno di stima il figlio ritardatario, quello che in un primo momento si nega al servizio ma immediatamente dopo si ravvede e corre a mettere mano alle viti. Riprovevole e degno di biasimo è invece chi inizialmente si mostra zelante e obbediente, ma dopo si smentisce all'atto pratico.
Che differenza c'è fra il primo dei due figli e il secondo? Che cosa li distingue? Nell'ultimo dei due figli vi è ostentazione di vanagloria e di presunzione, forse malcelato interesse esclusivamente personale, velleità e leggerezza nell'agire. In definitiva vi sono motivazioni fondamentalmente esibizionistiche ed effimere, che solo in apparenza mostrano sincerità nei rapporti con il Padre. Il primo invece mostra di maturare un serio processo di trasformazione interiore che lo conduce in un secondo momento a mettere mano agli attrezzi anche indipendentemente dall'invito del Padre: la conversione. Il figlio meritevole infatti, se prima istintivamente respinge il comando, successivamente trova in se stesso le motivazioni per eseguirlo, o meglio considerando se stesso in rapporto con la persona del Padre: prende coscienza di essere davvero “figlio”, quindi corresponsabile del buon andamento e della produttività del campo di famiglia, partecipe dei rapporti di proprietà con il Padre e soprattutto concepisce che l'amore nei suoi confronti è l'unica ragione per cui il Padre lo invita a lavorare nella vigna: per amore nei suoi riguardi lo invita a svolgere il lavoro predetto. Certamente anche nell'interesse della vigna stessa, per il suo progresso e per la copiosità dei suoi frutti, ma anche e soprattutto per amore del figlio. Questi allora si “converte”, cambia idea perché si sente oggetto d'amore da parte del padre e sollecitato ad estendere questo amore nel servizio della vigna. Per dirla con il profeta Ezechiele, possiamo dire che si configura con l'ingiusto peccatore che ha riflettuto, ha rivisto la propria condotta abbandonando il male e per questo merita di vivere per sempre. Contrariamente al giusto che complice il suo falso orgoglio e la sua saccenteria si illude di non aver mai bisogno di convertirsi e proprio questo lo allontana da Dio.
Va da sé che è indispensabile per l'appunto la conversione e che essa è all'origine di qualsiasi corrispondenza alla chiamata di Dio, in qualunque momento questa si manifesti. La conversione non ammette reticenze o ritardi e non ama procrastinare; se così si facesse essa non sarebbe più conversione. Essa è apertura immediata e convinta all'amore di Dio, consapevolezza della nostra insufficienza e limitatezza e del nostro connaturale bisogno di mutua relazione con Chi sta al di sopra di noi eppure di noi si interessa. Di conseguenza è convinta adesione al progetto che lui ha su ciascuno di noi, e si avvale della nostra presa di coscienza, della nostra razionalità che si guardi però dall'autoesaltazione. Si avvale soprattutto dell'umiltà.
Quando si presume di aver osservato la volontà di Dio semplicemente nell'esteriorità o nel formalismo vivendo da saltimbanchi una fede soltanto presunta e non radicata, allora avverrà che perfino pagani e prostitute prenderanno il nostro posto nel regno dei Cieli. Cioè le persone che solitamente (sempre in forza della nostra stessa alterigia e presunzione) consideriamo peccatrici per antonomasia.
E a tal proposito l'ultima parte del discorso di Gesù è purtroppo abbastanza allusiva anche alla nostra condizione cristiana odierna, che tante volte non si distingue da quella di scribi e farisei. Vi sono infatti parecchi “peccatori” o “lontani” che nella prassi dimostrano una conversione molto più eloquente ed esemplare di quella di coloro che da sempre bazzicano chiese e sacrestie. Tanta gente lontana dalla vita ecclesiale, distaccata e perfino avversa dimostra spiccata sensibilità e apertura di cuore quanta non siamo in grado di dimostrare noi presunti uomini perbenisti di chiesa.
E'proprio certo che abbiamo maturato quel processo indispensabile di conversione?

Fonte:http://www.qumran2.net

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