padre Gian Franco Scarpitta, "Correzione, amore e comunione"
Correzione, amore e comunione
padre Gian Franco Scarpitta
XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (10/09/2017)
Visualizza Mt 18,15-20
Un autore anonimo scrive: “Se non hai un amico che ti avvisi dei tuoi difetti, paga un nemico perché
lo faccia”. Effettivamente non ci si rende conto di quanto sia importante considerare con attenzione e obiettività le lacune, le carenze e le defezioni che normalmente ci caratterizzano, soprattutto perché esse possono costituire un pericolo anche per la nostra stessa vita, perché ogni mancanza o difetto può trasformarsi in occasione di rovina o di capitolazione. Nella misura in cui si riconosce una colpa, ammettendola si cerca di emendarsi da essa; quanto più consideriamo i nostri errori tanto più saremo capaci di porvi rimedio e di evitarli, con prosperose conseguenze di successo per noi stessi e per gli altri. Ai tempi del liceo ginnasio ricordo che il professore di matematica, che solitamente usava intervenire bruscamente e con pedanteria ad ogni minimo errore nelle interrogazioni, una volta commentò: “Io devo evitare che sbagliate in classe, perché voi possiate evitare di commettere errori nella vita... Devo rimproverarvi su ciò che in fondo è banale, perché nessuno un giorno possa rimproverarvi su ciò che è fondamentale. Non vi perdono un minuto di ritardo a scuola, perché non diventi imperdonabile il ritardo che potreste portare sul posto di lavoro.” A dire il vero, che si qualche volta si possa sbagliare è comprensibile e spesso anche produttivo, abituarsi a sbagliare diventa però dannoso soprattutto perché si inizia a credere nei propri errori. Avere dei difetti è caratteristico di ciascuno, ma legittimare i propri difetti induce ad accentuarne la portata, a renderli ancora più perniciosi.
Quindi è proprio vero che la correzione fraterna è sinonimo di amore e omettere di correggere gli altrui errori corrisponde a mancare di carità. Se siamo invitati tutti ad espletare il sommo Comandamento dell'amore universale verso Dio e verso il prossimo, non possiamo disattendere la correzione fraterna, la premura nel riprendere i fratelli che sbagliano, l'interessamento affinché gli altri non commettano più peccato. Il capitolo 33 del libro di Ezechiele, da cui è tratta la prima Lettura di oggi, è abbastanza istruttivo su questo aspetto della correzione come sinonimo di carità, perché sottolinea che essa non soltanto è doverosa, ma rientra fra i Comandamenti stessi di Dio. Non è l'unico passo biblico in cui ci si chiede espressamente di collaborare affinché gli altri non cadano in peccato, senza contentarsi dell'atteggiamento mediocre e distaccato per cui siamo attenti solo a non sbagliare noi stessi. Ciascuno è in realtà responsabile che gli altri emendino la propria condotta; a tutti deve interessare il ravvedimento di quanti si trovano nell'errore, tutti dovremmo sentirci in dovere di recuperare chi sbaglia e al momento del giudizio sarà quindi premura del Signore domandare conto anche a noi degli errori dei fratelli, se cioè ci saremo adoperati nella correzione e nell'emendazione di essi, perché limitarci a non peccare noi stessi può diventare sinonimo di egoismo e d'indifferenza e contrassegna un qualunquismo e un disinteresse che non è certamente cristiano.
La correzione va certamente esercitata con delicatezza e premurosa carità e non è un autodominio o un'imposizione nei confronti di chi sbaglia. Chi corregge non può non considerare di essere interessato a sua volta da limiti e da defezioni e di essere anch'egli suscettibile di errori, quindi occorre che eviti ogni sorta di prevaricazione e di sottomissione, che sarebbe solo umiliante e non otterrebbe che l'effetto contrario. Essa va tuttavia esercitata senza riserve e senza refrattarietà.
Denunciare alle forze dell'ordine una persona sorpresa in flagranza di reato, come insegna il Diritto e il buon senso civico, è dovere fondamentale di tutti i cittadini; non già perché chi ha sbagliato venga sottoposto a critica, giudizio o condanna, ma perché possa questi essere messo in condizioni di potersi emendare e intanto la comunità possa essere al sicuro da chi nuoce. In un regime di democrazia, qualsiasi cittadino può esclamare “Sei in arresto” alla persona che sul momento infrange la legge perché tutti quanti rispondiamo della sicurezza e della serenità del vivere sociale. In un ambito di Chiesa, istituzione voluta da Dio per la nostra salvezza, tutto ciò diventa ancora più rilevante perché è volontà di Dio che si eserciti la correzione fraterna per l'edificazione dello stesso Corpo Ecclesiale. La stessa Chiesa è una comunità sempre in cammino, che si riscopre continuamente colpevole, che necessita di convertire gli altri non prima di aver emendato se stessa. La Chiesa Sante è anche peccatrice e nei suoi membri esercita sempre il ruolo indispensabile di conversione reciproca dei peccatori. In essa siamo tutti penitenti, cioè doverosi e desiderosi di conversione e mentre ci orientiamo verso il Signore non possiamo mancare di correggerci gli uni gli altri. Gesù nel suo discorso pedagogico prevede di fatto, sia pure per inciso, le cosiddette “pene medicinali”, orientate cioè al recupero e all'emendazione di chi ha sbagliato perché chi pecca vada punito in proporzione alla sua colpa e venga invitato a riflettere, a considerare se stesso e a mutare vita. L'esercizio della correzione è dato ai singoli fratelli, quindi all'intera comunità ecclesiale senza escludere tuttavia che il colpevole possa fare la sua scelta definitiva di errore. In tal caso non potremo far altro che considerarlo “pagano e pubblicano”, ossia ostile e refrattario alla misericordia del Signore che si espleta nei fratelli.
Non deve mancare in ogni caso la premura dell'intero Corpo di Cristo (la Chiesa) affinché chi è manchevole possa sperimentare l'amore di Dio, che è amore di riconciliazione e non di vendetta. E affinché noi tutti nell'esercizio della correzione fraterna possiamo ravvivare la gioia della comunione e della vita insieme.
Fonte:http://www.qumran2.net
padre Gian Franco Scarpitta
XXIII Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) (10/09/2017)
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Un autore anonimo scrive: “Se non hai un amico che ti avvisi dei tuoi difetti, paga un nemico perché
lo faccia”. Effettivamente non ci si rende conto di quanto sia importante considerare con attenzione e obiettività le lacune, le carenze e le defezioni che normalmente ci caratterizzano, soprattutto perché esse possono costituire un pericolo anche per la nostra stessa vita, perché ogni mancanza o difetto può trasformarsi in occasione di rovina o di capitolazione. Nella misura in cui si riconosce una colpa, ammettendola si cerca di emendarsi da essa; quanto più consideriamo i nostri errori tanto più saremo capaci di porvi rimedio e di evitarli, con prosperose conseguenze di successo per noi stessi e per gli altri. Ai tempi del liceo ginnasio ricordo che il professore di matematica, che solitamente usava intervenire bruscamente e con pedanteria ad ogni minimo errore nelle interrogazioni, una volta commentò: “Io devo evitare che sbagliate in classe, perché voi possiate evitare di commettere errori nella vita... Devo rimproverarvi su ciò che in fondo è banale, perché nessuno un giorno possa rimproverarvi su ciò che è fondamentale. Non vi perdono un minuto di ritardo a scuola, perché non diventi imperdonabile il ritardo che potreste portare sul posto di lavoro.” A dire il vero, che si qualche volta si possa sbagliare è comprensibile e spesso anche produttivo, abituarsi a sbagliare diventa però dannoso soprattutto perché si inizia a credere nei propri errori. Avere dei difetti è caratteristico di ciascuno, ma legittimare i propri difetti induce ad accentuarne la portata, a renderli ancora più perniciosi.
Quindi è proprio vero che la correzione fraterna è sinonimo di amore e omettere di correggere gli altrui errori corrisponde a mancare di carità. Se siamo invitati tutti ad espletare il sommo Comandamento dell'amore universale verso Dio e verso il prossimo, non possiamo disattendere la correzione fraterna, la premura nel riprendere i fratelli che sbagliano, l'interessamento affinché gli altri non commettano più peccato. Il capitolo 33 del libro di Ezechiele, da cui è tratta la prima Lettura di oggi, è abbastanza istruttivo su questo aspetto della correzione come sinonimo di carità, perché sottolinea che essa non soltanto è doverosa, ma rientra fra i Comandamenti stessi di Dio. Non è l'unico passo biblico in cui ci si chiede espressamente di collaborare affinché gli altri non cadano in peccato, senza contentarsi dell'atteggiamento mediocre e distaccato per cui siamo attenti solo a non sbagliare noi stessi. Ciascuno è in realtà responsabile che gli altri emendino la propria condotta; a tutti deve interessare il ravvedimento di quanti si trovano nell'errore, tutti dovremmo sentirci in dovere di recuperare chi sbaglia e al momento del giudizio sarà quindi premura del Signore domandare conto anche a noi degli errori dei fratelli, se cioè ci saremo adoperati nella correzione e nell'emendazione di essi, perché limitarci a non peccare noi stessi può diventare sinonimo di egoismo e d'indifferenza e contrassegna un qualunquismo e un disinteresse che non è certamente cristiano.
La correzione va certamente esercitata con delicatezza e premurosa carità e non è un autodominio o un'imposizione nei confronti di chi sbaglia. Chi corregge non può non considerare di essere interessato a sua volta da limiti e da defezioni e di essere anch'egli suscettibile di errori, quindi occorre che eviti ogni sorta di prevaricazione e di sottomissione, che sarebbe solo umiliante e non otterrebbe che l'effetto contrario. Essa va tuttavia esercitata senza riserve e senza refrattarietà.
Denunciare alle forze dell'ordine una persona sorpresa in flagranza di reato, come insegna il Diritto e il buon senso civico, è dovere fondamentale di tutti i cittadini; non già perché chi ha sbagliato venga sottoposto a critica, giudizio o condanna, ma perché possa questi essere messo in condizioni di potersi emendare e intanto la comunità possa essere al sicuro da chi nuoce. In un regime di democrazia, qualsiasi cittadino può esclamare “Sei in arresto” alla persona che sul momento infrange la legge perché tutti quanti rispondiamo della sicurezza e della serenità del vivere sociale. In un ambito di Chiesa, istituzione voluta da Dio per la nostra salvezza, tutto ciò diventa ancora più rilevante perché è volontà di Dio che si eserciti la correzione fraterna per l'edificazione dello stesso Corpo Ecclesiale. La stessa Chiesa è una comunità sempre in cammino, che si riscopre continuamente colpevole, che necessita di convertire gli altri non prima di aver emendato se stessa. La Chiesa Sante è anche peccatrice e nei suoi membri esercita sempre il ruolo indispensabile di conversione reciproca dei peccatori. In essa siamo tutti penitenti, cioè doverosi e desiderosi di conversione e mentre ci orientiamo verso il Signore non possiamo mancare di correggerci gli uni gli altri. Gesù nel suo discorso pedagogico prevede di fatto, sia pure per inciso, le cosiddette “pene medicinali”, orientate cioè al recupero e all'emendazione di chi ha sbagliato perché chi pecca vada punito in proporzione alla sua colpa e venga invitato a riflettere, a considerare se stesso e a mutare vita. L'esercizio della correzione è dato ai singoli fratelli, quindi all'intera comunità ecclesiale senza escludere tuttavia che il colpevole possa fare la sua scelta definitiva di errore. In tal caso non potremo far altro che considerarlo “pagano e pubblicano”, ossia ostile e refrattario alla misericordia del Signore che si espleta nei fratelli.
Non deve mancare in ogni caso la premura dell'intero Corpo di Cristo (la Chiesa) affinché chi è manchevole possa sperimentare l'amore di Dio, che è amore di riconciliazione e non di vendetta. E affinché noi tutti nell'esercizio della correzione fraterna possiamo ravvivare la gioia della comunione e della vita insieme.
Fonte:http://www.qumran2.net
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