MONASTERO DI RUVIANO, “al cuore non si comanda”

TRENTESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Es 22, 20-26; Sal 17; 1Ts 1,5c-10; Mt 22,34-40
Nella selva di 248 precetti e di 365 divieti è necessario orientarsi! Sì, sono 613 i comandi, tra positivi
e negativi, che ogni pio israelita riconosce nella Torah … e la ricerca di un principio era una legittima esigenza che tanti, ai tempi di Gesù, cercavano sinceramente. Si cercava il “kelal gadol”, il “precetto grande” in cui poter sommare tutte le esigenze della Torah.

In Matteo, nel passo che oggi la liturgia propone, c’è un dottore della Legge che, essendosi consultato con altri farisei, fa una domanda a Gesù … diversamente dal racconto di Marco in cui questa domanda è posta a Gesù da uno scriba suo “simpatizzante”, in Matteo c’è, invece, un tentativo di mettere alla prova, di tentare Gesù. Il dottore della Legge è in mala fede perché non fa una domanda onesta; una domanda onesta, infatti, suppone che chi la fa sia disposto ad ascoltare ed eventualmente anche a mutare parere … qui c’è invece uno che, ancora una volta, come per la domanda circa il tributo a Cesare, cerca di far inciampare Gesù, di tentarlo o per farlo cadere in fallo, o per tirarlo dalla propria parte.

Gesù non ha esitazioni nel dare la risposta e lo fa citando la Torah nel testo più amato e ripetuto da Israele, lo “Shemà” che è nel Libro del Deuteronomio (6,5) ma a quel celebre testo aggiunge il precetto che è al capitolo 19,8 del Libro del levitico circa l’amore per il prossimo. E’ l’accoppiata dei due testi la grande originalità di Gesù! Che un fondamento della Legge fosse l’amore per Dio era opinione diffusa, e Gesù la ribadisce, ma all’amore per Dio Gesù aggiunge l’amore per il prossimo dicendo che questo comando è “secondo” ma “simile” al primo … ha, cioè, la stessa natura, ha origine dal primo.

Comandare l’amore! E’ cosa ben strana … eppure la Scrittura lo fa … il nostro buon senso ha sempre ripetuto “al cuore non si comanda” e qui “cuore” sta per “amore” … la Scrittura, però, sa che l’uomo facilmente volta le spalle all’amore … volta le spalle all’amore per Dio perché spesso, nella sua alienazione “religiosa”, l’uomo ha soltanto nutrito paura per Dio, o vergogna davanti a Lui (cfr Gen 2,10) o, ancora, ha guardato a Lui come ad una “potenza” che potesse assicurargli il presente, il funzionamento del creato; dunque, un “Potente” da ammansire … l’amore è un’altra cosa!

La Scrittura sa anche che l’uomo ha voltato le spalle all’amore per l’altro uomo fin dal gesto omicida di Caino (cfr Gen 4, 3-9), per passare per il canto selvaggio di Lamech (“ho ucciso un uomo per una mia scalfittura, un ragazzo per un livido! Caino sarà vendicato sette volte, ma Lamech settanta volte! Cfr Gen 4,23-24) e per giungere a tutte le guerre aberranti che l’uomo ha saputo creare fino a quelle che ancora oggi lacerano al storia, la grande storia e le piccole storie …

Il Signore ribadisce che l’ amore è un comando perché esso è una necessità assoluta in quanto solo l’amore può rendere l’uomo uomo e rendere la terra abitabile.

Lo Shemà che Gesù cita chiede per Dio un amore che sia di tutto l’uomo e non solo di una parte di lui: Con tutto il cuore,con tutta l’anima e con tutta la mente. Tre termini che, lungi dallo “spezzettare” l’uomo, ci suggeriscono sempre la totalità dell’uomo stesso.

“Con tutto il cuore” cioè con tutto quello che ti abita nel profondo, con tutto quello che ti muove e con tutto che sai far scaturire dal tuo profondo, dal tuo intimo. E’ chiaro che qui “cuore” non è luogo dei sentimenti ma il “profondo” dell’uomo, è la fonte da cui tutto nell’uomo promana ed è il luogo ove, in ogni uomo, tutto giunge e riposa.

“Con tutta l’anima” (in greco “psyuché” che traduce l’ebraico “nefesh” cioè “alito di vita”) che significa con tutta la tua vita, con tutto ciò che fai, con tutto ciò che vivi; è un amore che va vissuto in ogni dimensione dell’esistenza e non relegato in atti di culto, in atti “religiosi” strettamete detti.

“Con tutta la tua mente”, cioè con tutti i tuoi pensieri, con tutta la tua intelligenza, con tutto ciò che conosci, che sai; amare Dio è mettere al servizio del suo amore tutto il sapere, tutte le conoscenze e da esse ripartire per amarlo di più.

Se l’amore per Dio deve essere così, e Gesù così l’ha vissuto, con tutto se stesso, fino al dono totale di sé, l’amore per altro va ricercato nella stessa totalità. Un amore da viversi senza possibilità di “barare”: “come te stesso” dice Gesù; e noi sappiamo bene come amiamo “noi stessi”,

sappiamo bene cosa desideriamo “per noi stessi”.

Gesù dice: Il secondo è simile al primo; potremmo dire “è della stessa natura” del primo, deriva dalla stessa radice che è l’amore per Dio, amore totale per Dio. E’ radice che rende buono l’albero dell’amore umano. Purifica, infatti, il mio amore per me stesso, facendomi scoprire che sono amato da Uno che mi cerca e mi ama per me stesso, il suo amore mi libera da ogni idolatria di me perché mi fa volgere lo sguardo verso Colui che mi ha amato per primo. L’amore per Dio, poi, purifica l’amore per il prossimo (in greco si tratta di un superlativo di “vicino”, il “vicinissimo”); il prossimo non è da possedere ma da guardare come fratelli ugualmente amati da quel Dio che mi ama e che amo.

I due comandamenti non vanno disgiunti, nè va tolto il primato al comandamento dell’amore per Dio: quando questo crolla, nulla può rimanere radicale nell’amore per l’uomo! Quanto appaiono stolte certe recenti posizioni “aggiornate” assunte da qualche ordine monastico di antica fondazione che – in nome dell’uomo (e, aggiungo, “per prurito di novità”, come direbbe l’Apostolo!) – ha recentemente affermato di non poter più ritenere vincolante il dettato della Regola di san Benedetto, che chiede ai suoi monaci di “nulla anteporre all’amore di Cristo” (cfr RB 4,21), e di doverlo mutare in “nulla anteporre all’amore per l’uomo”! Incredibile! Come è possibile una simile deriva? Come se l’amore di Cristo, in cima agli amori, non fosse garanzia di un vero amore per l’uomo; come se il primato che Cristo chiede per Dio e per sé non fosse la vera forza dell’Evangelo, e dunque la forza dell’amore per il prossimo; come se il mistero dell’Incarnazione non fosse sigillo di forza sull’amore per l’uomo; come se le salde radici nell’amore per Cristo non fossero liberanti da ogni idolatria ed ideologia; come se l’amore per Dio non fosse forza che tutto purifica!

Per Gesù il “kelal gadol”, il “grande comandamento”, è il primato di Dio che Egli genialmente unisce all’amore per il prossimo, ma in una gerarchia che non assolutizza il primo (sarebbe ipocrita “religione”!) e non assolutizza il secondo (sarebbe filantropia senza radici profonde e senza forza di durata, e con la tentazione di fare distinzioni tra prossimi e meno prossimi, se non tra amici e nemici!). Gesù non priva di importanza il primo, giudicandolo troppo “astratto”, e non svilisce il secondo perché troppo “politico”.

Per Gesù i due precetti sono l’uno di fronte all’altro, mostrano le esigenze l’uno dell’altro e, proprio come due cardini, reggono e fanno girare la porta della vita, che è la Rivelazione di Dio, la Legge e i Profeti. Solo su quei due cardini si può aprire la porta all’uomo nuovo, il quale trova nell’amore per Dio e per il prossimo la possibilità di trasformare la faccia della terra.

La rivelazione cristiana spalanca qui porte immense all’amore: scopriamo infatti che il Dio dello Shemà, nella carne di Gesù, si è fatto prossimo, vicinissimo e mi ama fino alla croce; Cristo, il Figlio, si è fatto mio fratello ed in Lui non posso non amare tutti i fratelli; allora amare Dio ed il prossimo è lo stesso amore perché Dio si è fatto uomo! Ormai le due realtà, dopo Cristo, non sono più scindibili: amare Dio, amare l’uomo! Ecco che il fatto che Gesù unisca i due comandamenti ha radici profonde nel più proprium della rivelazione cristiana: l’incarnazione di Dio. Unire Dio e l’uomo in questo comandamento dell’amore ha lì, nell’incarnazione, la sua straordinaria radice: Dio in Cristo Gesù si è fatto uomo e uomo per davvero. Così ci ha narrato l’amore e ci ha chiesto l’amore: in Lui Dio e uomo sono radicalmente e per sempre uno. Non si può più, dunque, amare Dio e non amare l’uomo!

L’Evangelo di oggi si conclude dicendoci che in questo duplice amore si compie la Scrittura, si compiono, cioè, le promesse dell’Alleanza. Chi vuole obbedire alle vie dell’Alleanza deve aprire le porte all’amore.

Questo è venuto a chiederci Gesù ma chiedendocelo ci ha donato se stesso perché avessimo la capacità di farlo diventare vita. Per consegnarci il comandamento dell’amore, Gesù si è consegnato tutto a noi e, in ogni Eucaristia, lo possiamo sperimentare e da lì possiamo ripartire a camminare nelle nostre storie con il solo bagaglio necessario: amare Dio sentendosene amati ed amare l’uomo che, per la carne di Cristo, è diventato il “vicinissimo” nel quale riconoscere Dio.

Fonte:www.monasterodiruviano.it/

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