MONASTERO MARANGO, "Il regno di Dio è una festa per "tutti i popoli"

Il regno di Dio è una festa per "tutti i popoli"
Briciole dalla mensa - 28° Domenica T.O. (anno A) - 15 ottobre 2017
LETTURE Is 25,6-10   Sal 22   Fil 4,12-14.19-20   Mt 22,1-14


COMMENTO

Il testo della prima lettura è preso da una raccolta di oracoli chiamata “Apocalisse di Isaia”. Questi
capitoli, redatti forse dopo la conquista di Babilonia da parte di Ciro nel 539, pongono in parallelo la sorte di due capitali: da una parte Babilonia, simbolo della città del male, fortezza dei superbi caduta in rovina, e dall’altra Gerusalemme, la città santa, il cui tempio è stato ricostruito e le mura restaurate, dopo il ritorno degli esuli.
Della prima si dice che in essa «è cessata la gioia della cetra, non si beve più il vino tra i canti»; invece nella città riedificata «preparerà il Signore degli eserciti per tutti i popoli un banchetto di grasse vivande, un banchetto di vini eccellenti». Bisognerà leggere questo brano nella prospettiva del giudizio finale: i nemici del Signore saranno irrimediabilmente condannati in un fragore da fine del mondo, mentre a Gerusalemme, in un tripudio di gioia e di canti di lode, si apriranno le porte del regno dei cieli.

Eliminerà la morte per sempre. Asciugherà le lacrime su ogni volto. Farà scomparire l’ignominia del suo popolo.
A molti può sembrare una descrizione troppo bella per essere vera, una fantasiosa proiezione dei nostri desideri e delle nostre aspirazioni. A questa “ermeneutica del sospetto” si può rispondere facendo osservare che la nostra fede si basa su interventi reali di Dio nella storia, dall’uscita dall’Egitto fino alla risurrezione di Gesù dai morti: ciò che sembra impossibile all’uomo è possibile a Dio. Si può anche rispondere constatando che è proprio la speranza di un cambiamento radicale della società, a favore dell’uomo umiliato e oppresso, che spinge molti a impegnarsi sul fronte della lotta politica, della resistenza nonviolenta, del volontariato, della solidarietà quotidiana. Perché impegnarsi se questi sforzi fossero soltanto un’inutile perdita di tempo, una pia illusione, di fronte ad una realtà che mostra con prepotenza il suo volto violento e irreformabile?
Sottolineo qui due cose. Il Signore stesso preparerà il banchetto: non è in gioco soltanto l’operosità dell’uomo, ma l’azione potente di Dio. E’ lui che decide il cambiamento delle sorti. Nella sua lotta al nazismo, che lo ha condotto al martirio, Bonhoeffer diceva: «Dobbiamo osare la pace per fede».
La seconda sottolineatura: il banchetto sarà preparato «per tutti i popoli». Avete letto bene: per tutti, nessuno escluso. Questa visione etica e spirituale, umana e divina, sostiene lo sforzo di molti, al di là della dura esperienza di tutti i giorni, dove l’esclusione sociale, l’ostilità, l’odio, sembrano prevalere. «Per tutti»: se saremo sostenuti da questa prospettiva, che alla fine sarà certamente vincente, scopriremo la via, vinceremo le difficoltà, abbatteremo i muri del pregiudizio. Troveremo la strada per praticare anche una politica migliore. Certo, fa male vedere come anche molti cristiani abbiano inghiottito il veleno della propaganda che diffonde paure e pregiudizi, indifferenza e ostilità, seminati a piene mani dagli imbonitori di turno

Matteo colloca la parabola del banchetto nuziale nel contesto dei discorsi e delle controversie che occupano gli ultimi giorni di Gesù a Gerusalemme e che precedono i racconti della Passione.
Il regno dei cieli è simile ad un re, che fece una festa di nozze per suo figlio.
L’evangelista paragona Dio ad un re che inaugura l’era messianica preparando la festa di nozze di suo figlio. Questo figlio è Gesù, «lo sposo» (Mt 9,15). Comprendiamo subito che il regno di Dio è una festa con molti invitati. Sì, ciò che Gesù introduce nella storia degli uomini è una gioia e una festa che durano sempre. Il suo è proprio un “lieto annuncio”. Un vangelo.

Il re mandò i suoi servi a chiamare gli invitati alle nozze, ma questi non volevano venire.
C’è subito un primo rifiuto, molto deciso: «Questi non volevano venire». Il re non si perde d’animo e rinnova il suo invito: «Ho preparato il mio pranzo; venite alle nozze!». Ma anche a questo secondo invito corrisponde un rifiuto. Gli invitati hanno altre preoccupazioni, ritenute più urgenti e importanti: la campagna, gli affari. Probabilmente, al racconto originale, lo scrittore a questo punto aggiunge del suo: «Presero i servi, li insultarono e li uccisero». E’ la sorte dei messaggeri inviati da Dio in tutti i tempi al suo popolo: il loro messaggio non è stato accolto; in più, spesso sono stati rifiutati e perseguitati. Forse Matteo vede in quelli che oppongono un netto rifiuto ai ripetuti inviti proprio i capi ebrei e gli esponenti più in vista della religione
Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli uomini e diede alle fiamme la loro città.
Attenzione: qui non viene narrata la vendetta di Dio, ma ci viene offerta una lettura sapienziale della storia umana e del popolo eletto in particolare. La città data alle fiamme, molto probabilmente, è Gerusalemme, distrutta dai romani nel 70 d.C., dopo un lungo assedio. Questo doloroso evento, che ha cambiato per sempre la storia millenaria di Israele, non viene letto solo con categorie politiche, come la vittoria del più grande impero del mondo su una piccola nazione, ma con il linguaggio della “teologia della storia”: il male e la morte non sono provocate da Dio, ma sono la conseguenza inevitabile di stili di vita ingiusti e idolatri.
Nonostante tutto questo il re manda ancora altri servi «ai crocicchi delle strade» a radunare tutti quelli che trovavano, «cattivi e buoni», finché la sala del banchetto, finalmente, si riempie di commensali. E’ una bellissima e realistica immagine della comunità cristiana: nessuno degli invitati, a questo punto, può accampare dei diritti, ognuno è presente per una scelta gratuita e misericordiosa del suo Signore. E non sono tutti «buoni». Sono invitati anche i «cattivi», quelli che noi disprezziamo e allontaniamo. Quelli che vorremmo aiutare da lontano, “a casa loro”.
Nella sala del banchetto nessuno è più degli altri, e nessuno da meno. Tutti siamo stati presi «ai crocicchi delle strade», che è come dire mentre stavamo davanti ai semafori, a mendicare qualcosa per sopravvivere.

Il re entrò per vedere i commensali e lì scorse un uomo che non indossava l’abito nuziale.
Come si può immaginare che degli invitati raccolti dalla strada e condotti al banchetto abbiano potuto procurarsi anche l’abito adatto alla festa? Non è possibile attendersi una risposta plausibile, e dunque il significato va cercato in un’altra direzione.
Qualcuno ha parlato – impropriamente – della veste battesimale. Altri della “giustizia” richiesta a coloro che vogliono appartenere alla comunità dei salvati.
Io vedo invece un’altra cosa. Non si partecipa ad una festa di nozze solo per mangiare, ma per vivere assieme a tutti gli altri invitati la gioia dell’incontro con gli sposi, con gli amici, con i vicini di tavola, con tutti.
L’abito delle nozze, allora, è un relazione segnata fortemente dall’amore. L’abito è il desiderio di comunione. Se ti escludi dagli altri, nascondendo la testa nel tuo piatto, se escludi anche solo qualcuno dall’orizzonte del tuo amore, non sei adatto, occupi un posto che non è più tuo. Sperimenti il buio della notte e l’amarezza di una vita solitaria. L’ho notato sovente: quelli che escludono gli altri, che non accettano le persone diverse da loro, spesso vivono in una triste solitudine. E qualche volta abbaiano alla luna.

Perché molti sono chiamati, ma pochi eletti.
La chiamata a partecipare al banchetto, assolutamente universale, non garantisce automaticamente la risposta dell’uomo e l’ingresso nel Regno: il banchetto non è preparato per spettatori ignavi e non disponibili ad amare e ad accogliere.


Giorgio Scatto 

Fonte:Monastero di Marango

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