P. Marko Ivan Rupnik,"Il tragico rifiuto del dono"

XXVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Congregatio pro Clericis
XXVII Domenica del Tempo Ordinario - Anno A

Anche il vangelo di oggi è una parabola del rifiuto. Descrive il tragico rifiuto del dono del Padre cioè
della missione del Figlio come salvatore del mondo.

È collocata nella vigna, come già abbiamo visto in diverse domeniche, ora si tratta del padrone che manda i suoi servi a ritirare il raccolto che i contadini dovevano consegnargli. Siccome è rivolta ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo è ovvio che quelli che lavorano nella vigna di Israele sono proprio loro. Ci sono due gruppi dei servi, i  primi arrivano, vengono presi a bastonate e uccisi, qualcuno lapidato. Allora il padrone manda il secondo gruppo e viene trattato allo stesso modo. Questi due gruppi fanno riferimento alla classica divisione, i cosiddetti libri anteriori - alcuni  libri storici, e quelli posteriori ossia i libri dei profeti.

Come a dire che dopo il peccato Dio chiama l’uomo a ritornare, a scoprire il senso e il privilegio di lavorare nella vigna, ma il peccato è così tanto inciso sulla struttura stessa dell’uomo che non è in grado di cogliere il valore, la portata e il senso salvifico di essere nell’ambito del regno e di lavorare nell’ambito della vicinanza e della realtà del Signore stesso, cioè di stare nell’alleanza .

Questo contiene un significato spirituale incisivo anche per il nostro tempo. Il grande teologo greco Zizioulas dice che certamente la fine della modernità ha lasciato nella nostra cultura  un danno sulla visione antropologica, su ciò che uomo è e ciò che si intende per uomo, su quale è la sua verità e il suo senso di esistere. Perciò non è più possibile un richiamo solo etico morale, non basta proporre un insegnamento, dargli una visione intellettuale, culturale del bene perché dandogli idee buone non diventa buono. Non è sufficiente insegnare, ci vuole un intervento radicale sulla struttura dell’uomo stesso che non è possibile fare dall’esterno con un intervento pedagogico, didattico o dottrinale, di leggi etiche. Ci vuole un sacramento in cui l’uomo rigenerato nel Figlio scopra il proprio modo di essere, cioè una umanità secondo Dio.

Anche nella parabola alla fine il padrone decide di mandare il proprio figlio e quando questo arriva la reazione di questi contadini è uguale. Dicono che costui è l’erede, e uccidendolo avranno loro la sua eredità. Il cap 3 e 4 della Genesi sono fondamentali per capire la situazione antropologica dell’uomo. Come dice Paolo in Rm 3 tutti gli uomini sono sotto il peccato, tutta l’umanità giace in una ferita, in uno stato che la fa peccare e che non è lo stato dei singoli peccati che uno può fare ma quello stato che fa sì che l’uomo sia peccatore, che pecchi. Proprio lo stato in cui l’uomo ha perduto  - privi di gloria di Dio – quel modo di esistere e di intendere se stesso in relazione a Dio, di capire la sua identità come simile a Dio, come quel modo di essere di Dio che è relazionale e si è perduto e perciò l’uomo non può più rivelare questa realtà divina, non può più rivelare con i suoi gesti la sua stessa verità che si richiama a Dio.

Questo si vede nella parabola: un uomo che ormai vuole prendere, vuole conquistare ciò che ha perduto e non capisce il vangelo, ad es Mc 10 quando il ricco giovane si mette in ginocchio e chiede cosa deve fare per ereditare la vita eterna, perchè l’eredità non si prende, non si ruba e non si conquista, per essere eredi bisogna essere figli. Lui è il figlio e non comprendono che perciò se lo accolgono avranno accesso all’eredità, perché per questo bisogna essere figli (Gv1,12). Ecco ciò che Gesù dice al giovane ricco, lascia tutto e vieni con me, prendi con me la figliolanza. “E se siamo figli, siamo anche eredi; eredi di Dio, coeredi di Cristo” (Rm 8,17). Accogliendolo si diventa coeredi.

Invece con questo atteggiamento di conquista perdono tutto. Distruggono se stessi e uccidono il figlio. Questo ci rimanda a Eb 13,12 dove si dice che il Figlio salva gli uomini con la sua passione, con la sua morte fuori dalla città. Qui l’hanno portato fuori dalla vigna come escluso, come oggetto di tutta l’aggressività e tutto il male, e questo lui l’assume totalmente su di sé.  E al tempo stesso questa scena richiama Gn 36,18 quando i figli di Giacobbe vedono arrivare Giuseppe e decidono di ucciderlo semplicemente perché amato dal padre, gli ha dato la tunica. Si compie ciò che viene detto in Gv 15,25 “mi hanno odiato senza ragione”. Solo perché Figlio del Padre.

Ciò che l’uomo peccatore, rinchiuso nella schiavitù della natura ferita non può capire è la figliolanza. È l’amore libero tra Padre e Figlio. E la dignità dell’amore libero tra i figli. Questo non solo che non si capisce ma dà fastidio. Si prende la violenza come mezzo contro ciò che è bello, buono, ciò che è l’amore. E la conclusione della parabola è potente. La gente risponde che certamente il padrone farà morire miseramente quei malvagi, ma Gesù per tutta risposta cita le Scritture dicendo che la pietra scartata dai costruttori è diventata la pietra d’angolo. Non dice cosa farà il padrone, come sistemerà quelli, il Figlio proprio per quelli chiederà perdono in modo che nessuna violenza rimarrà non perdonata, non accolta. Tutto ciò che fu scartato e buttato fuori diventa la pietra angolare, sulla quale tutto quello che è dell’umanità si può costruire.

P. Marko Ivan Rupnik

Fonte:http://www.clerus.va

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