Don Marco Ceccarelli, Commento XXXI Domenica Tempo Ordinario “A
XXXI Domenica Tempo Ordinario “A” – 5 Novembre 2017
I lettura: Mal 1,14-2,2.8-10
II lettura: 1Ts 2,7-9.13
Vangelo: Mt 23,1-12
- Testi di riferimento: Nm 15,38; Dt 6,8; 17,10-11; 22,12; 1Sam 2,8; Esd 7,6.10.25; Ne 8,4-8; Sal
18,28; Pr 29,23; Is 58,3; Mal 2,7; Mt 5,16.20; 6,1.5.16; 11,28-30; 15,3-9; 16,11-12; 23,23-24.28-30;
Lc 11,43; 16,15; Gv 5,44; 8,29.50.54; 12,42-43; 13,13-14; At 15,10; Rm 15,3; 2Cor 4,5; Gal 5,13;
6,13; Ef 6,6-8; Fil 2,3-8; 1Ts 2,5-6; Gc 3,1; 4,6.10; 1Pt 5,5-6; 3Gv 9
1. Prima lettura: il “monito” ai sacerdoti. La tematica della liturgia di questa domenica potremmo
definirla come “rimprovero alle guide spirituali del popolo”. Così nella prima lettura – che come
sappiamo è abbinata tematicamente al brano di Vangelo – il discorso è rivolto ai sacerdoti, i quali
avevano il compito di far conoscere e di interpretare rettamente la Parola di Dio al popolo, e quindi
di aiutarlo a mettere in pratica la Sua volontà. Nei versetti precedenti al nostro brano abbiamo una
serie di rimproveri diretti ad Israele riguardo il cattivo adempimento delle leggi di Dio; comportamento
che provoca l’avverarsi di una maledizione. Ma poi si annuncia che tale maledizione viene
diretta ai sacerdoti, perché loro era il compito di dirigere rettamente il popolo. Il profeta rivela anche,
e per ben due volte (vv. 8.9), che ciò è avvenuto perché i sacerdoti stessi si sono allontanati
dalla via di Dio, hanno assunto cioè un comportamento estraneo ai comandamenti. È quell’atteggiamento
per cui non soltanto si assume un comportamento peccaminoso, ma lo si vuole anche giustificare
falsificando la parola del Signore. Ma di questa falsificazione ne subisce le conseguenze
anche l’intero popolo. Se i sacerdoti stessi, “le labbra dei quali devono custodire la scienza e dalla
cui bocca si ricerca l’istruzione” (Mal 2,7), distorcono la Torah (v. 9), da chi mai si potrà conoscere
la volontà di Dio?
2. Il Vangelo.
- La prospettiva del discorso di Gesù presente nel brano di Vangelo odierno sembra in ogni modo
leggermente diversa. A quel tempo gli “esperti” della Torah e quindi coloro da cui ci si aspettava la
sua diffusione e interpretazione erano in primo luogo gli scribi. Ma anche i farisei in genere; loro
che si presentavano come dei “separati” dalla massa proprio per la loro pratica della legge, erano
considerati come dei maestri in tal campo. Dicendo che gli scribi e i farisei sono seduti sulla cattedra
di Mosè Gesù non sta esprimendo una critica, ma manifesta una realtà; la loro autorità è dunque
legittima. Ciò è confermato dall’affermazione del v. 3: «Dunque tutto quanto vi dicono fatelo e osservatelo».
Essi non hanno usurpato tale autorità (“si sono seduti” va inteso quindi come un dato di
fatto e non come un abuso). Allora il rimprovero di Gesù riguardo queste due categorie di persone si
riferisce non tanto al fatto che essi predicano male ma, come diremmo noi, predicano bene e razzolano
male. Ma non è solo questo. “Quanto vi dicono” probabilmente allude alla Torah in sé piuttosto
che al modo di interpretarla e di adattarla alle situazioni contingenti (cfr. Mt 15,3-9; 16,11-12).
Essi conoscono la verità (e questa va osservata), “ma non la praticano”, cioè non la interpretano secondo
una giusta attualizzazione. E in ogni modo, come vedevamo la domenica scorsa, non bisogna
fare come essi fanno perché la loro osservanza non dipende dall’amore a Dio e al prossimo, ma
dall’amore a se stessi. Infatti, «tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini». Questo
è il punto. Anche se ci fosse un adempimento formale della Torah, resta il fatto che quello che
cercano è la propria gloria e non quella di Dio. Come si dice anche nella prima lettura, quello che
conta nell’interpretazione e nella pratica della legge è cercare la gloria di Dio (Mal 2,2), e non un
proprio interesse. Anche nelle cose di Dio, nella vita di fede, nella pratica religiosa, si può cercare
soltanto un proprio tornaconto, dei propri privilegi, i “primi posti” (v. 6) nella comunità. Questa è
una tentazione costante anche all’interno della Chiesa. Per questo: «fate come dicono (cioè secondo
quanto prescrive la Torah) ma non come fanno».
- La vanagloria. Usare la Torah, la parola di Dio, che è finalizzata all’amore, cioè all’altro, per il
proprio tornaconto, è una perversione, una vanagloria. Il vanaglorioso ruba il posto e la gloria a Dio.
Invece che per amore (a Dio e agli altri) egli fa il bene per amor proprio. La vanagloria rivela la
mancanza di amore con cui adempiamo la legge, e quindi il fatto che in realtà non la adempiamo
per nulla. Se uno non è appagato dal bene che fa, cerca in qualche modo un altro appagamento; questo
è il segno che non si fa il bene per se stesso, e quindi per amore. Il fariseo di cui parla Gesù è il
tipo del religioso praticante, che cerca nella religione un proprio vantaggio. In questo atteggiamento
Dio è al servizio della mia gloria, del mio tornaconto. Si dà a Dio il minimo indispensabile. Si dà a
Dio lo scarto delle nostre cose, lo scarto della nostra vita. Non si curano le cose di Dio come si curano
le proprie. Non si cerca la ricompensa che viene da Dio e che è riservata magari all’aldilà. Il
Vangelo odierno invita quindi a guardare all’intenzione profonda con cui si fanno le cose, se per
piacere agli uomini o a Dio. Da cosa si vede se si fanno le cose per Dio? Se si è disposti a continuare
a farle anche quando non c’è ricompensa umana (Mt 6,1ss.; Is 58,3), quando non si ricevano gratificazioni,
o quando addirittura si riceve ostilità. In definitiva se si accetta la croce. Questo è ciò
che ha fatto Cristo, il quale non ha cercato la gloria degli uomini, ma quella del Padre (Rm 15,3).
Cristo ha rinunciato alla gloria-vuota svuotandosi della propria gloria (Fil 2,3.7). Così le opere buone
del cristiano sono fatte perché gli uomini diano gloria al loro Padre celeste (Mt 5,16).
- La salvezza viene dall’amore. Non va sorvolato che Gesù si sta rivolgendo alle folle e ai discepoli
(v. 1), facendo loro un discorso sul “fariseismo”, sul modo di concepire la salvezza da parte dei farisei
e dei loro esperti della Torah, gli scribi (il fariseismo, tra l’altro, rimarrà l’unica dottrina dopo
l’anno 70). Essi dunque «legano carichi (fortia) pesanti sulle spalle degli uomini». Il fortion è un carico
che viene trasportato (cfr. At 27,10). In questo contesto indica il carico dei comandamenti, della
legge, del proprio dovere di fronte a Dio. È quindi sinonimo di “giogo” (cfr. At 15,10.28), come
viene inteso anche in Mt 11,30 e con cui è in collegamento. In Mt 11,28 Gesù chiama a sé i “sovraccaricati”
per dare loro un alleggerimento. I farisei non possono muovere un dito per aiutare a
portare il carico della legge (v. 4), vale a dire non sono in grado di alleggerire il carico. La soluzione
non sta nell’addolcire i comandamenti, nel ridurre la loro difficoltà, come a volte anche essi facevano;
Gesù ha criticato questo atteggiamento (Mt 23,16-24). Non è una questione di dare regole facili
al posto di regole difficili. Il discorso della montagna, specialmente Mt 5,20, spazza via questa idea.
L’alleggerimento si ottiene prendendo sopra di sé il giogo di Cristo. Il punto sta nell’amore; tutta la
Torah è appesa all’amore, come da Vangelo della domenica precedente. È l’amore che rende leggera
l’osservanza dei comandamenti, come un soffitto rende leggero qualsiasi lampadario vi sia appeso.
Una osservanza fine a se stessa non può che essere pesante. Il fariseismo indica come via della
salvezza l’adempimento della Torah. Ma anche Cristo ha detto lo stesso (Mt 19,16-17). Il problema
dei farisei è che pongono tutto “sulle spalle della gente” (v. 4), cioè sulle forze umane, mentre tutto
deve essere appeso all’amore; e l’amore di Dio che rende leggero il giogo ci può essere solo concesso
da Lui. L’amore di Dio è la persona di Cristo che ci viene data per lo Spirito Santo. È lo Spirito
Santo che ha versato nei nostri cuori l’amore di Dio (Rm 5,5). Senza Spirito Santo non ci può essere
una vera osservanza della legge. Senza lo Spirito di Cristo non si ottiene la vita eterna. Cristo
risorto però è sempre presente in mezzo ai suoi con il suo potere (Mt 28,20). La salvezza, la possibilità
di adempiere la Torah per amore, ci viene data solo per mezzo di Cristo.
Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it
I lettura: Mal 1,14-2,2.8-10
II lettura: 1Ts 2,7-9.13
Vangelo: Mt 23,1-12
- Testi di riferimento: Nm 15,38; Dt 6,8; 17,10-11; 22,12; 1Sam 2,8; Esd 7,6.10.25; Ne 8,4-8; Sal
18,28; Pr 29,23; Is 58,3; Mal 2,7; Mt 5,16.20; 6,1.5.16; 11,28-30; 15,3-9; 16,11-12; 23,23-24.28-30;
Lc 11,43; 16,15; Gv 5,44; 8,29.50.54; 12,42-43; 13,13-14; At 15,10; Rm 15,3; 2Cor 4,5; Gal 5,13;
6,13; Ef 6,6-8; Fil 2,3-8; 1Ts 2,5-6; Gc 3,1; 4,6.10; 1Pt 5,5-6; 3Gv 9
1. Prima lettura: il “monito” ai sacerdoti. La tematica della liturgia di questa domenica potremmo
definirla come “rimprovero alle guide spirituali del popolo”. Così nella prima lettura – che come
sappiamo è abbinata tematicamente al brano di Vangelo – il discorso è rivolto ai sacerdoti, i quali
avevano il compito di far conoscere e di interpretare rettamente la Parola di Dio al popolo, e quindi
di aiutarlo a mettere in pratica la Sua volontà. Nei versetti precedenti al nostro brano abbiamo una
serie di rimproveri diretti ad Israele riguardo il cattivo adempimento delle leggi di Dio; comportamento
che provoca l’avverarsi di una maledizione. Ma poi si annuncia che tale maledizione viene
diretta ai sacerdoti, perché loro era il compito di dirigere rettamente il popolo. Il profeta rivela anche,
e per ben due volte (vv. 8.9), che ciò è avvenuto perché i sacerdoti stessi si sono allontanati
dalla via di Dio, hanno assunto cioè un comportamento estraneo ai comandamenti. È quell’atteggiamento
per cui non soltanto si assume un comportamento peccaminoso, ma lo si vuole anche giustificare
falsificando la parola del Signore. Ma di questa falsificazione ne subisce le conseguenze
anche l’intero popolo. Se i sacerdoti stessi, “le labbra dei quali devono custodire la scienza e dalla
cui bocca si ricerca l’istruzione” (Mal 2,7), distorcono la Torah (v. 9), da chi mai si potrà conoscere
la volontà di Dio?
2. Il Vangelo.
- La prospettiva del discorso di Gesù presente nel brano di Vangelo odierno sembra in ogni modo
leggermente diversa. A quel tempo gli “esperti” della Torah e quindi coloro da cui ci si aspettava la
sua diffusione e interpretazione erano in primo luogo gli scribi. Ma anche i farisei in genere; loro
che si presentavano come dei “separati” dalla massa proprio per la loro pratica della legge, erano
considerati come dei maestri in tal campo. Dicendo che gli scribi e i farisei sono seduti sulla cattedra
di Mosè Gesù non sta esprimendo una critica, ma manifesta una realtà; la loro autorità è dunque
legittima. Ciò è confermato dall’affermazione del v. 3: «Dunque tutto quanto vi dicono fatelo e osservatelo».
Essi non hanno usurpato tale autorità (“si sono seduti” va inteso quindi come un dato di
fatto e non come un abuso). Allora il rimprovero di Gesù riguardo queste due categorie di persone si
riferisce non tanto al fatto che essi predicano male ma, come diremmo noi, predicano bene e razzolano
male. Ma non è solo questo. “Quanto vi dicono” probabilmente allude alla Torah in sé piuttosto
che al modo di interpretarla e di adattarla alle situazioni contingenti (cfr. Mt 15,3-9; 16,11-12).
Essi conoscono la verità (e questa va osservata), “ma non la praticano”, cioè non la interpretano secondo
una giusta attualizzazione. E in ogni modo, come vedevamo la domenica scorsa, non bisogna
fare come essi fanno perché la loro osservanza non dipende dall’amore a Dio e al prossimo, ma
dall’amore a se stessi. Infatti, «tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini». Questo
è il punto. Anche se ci fosse un adempimento formale della Torah, resta il fatto che quello che
cercano è la propria gloria e non quella di Dio. Come si dice anche nella prima lettura, quello che
conta nell’interpretazione e nella pratica della legge è cercare la gloria di Dio (Mal 2,2), e non un
proprio interesse. Anche nelle cose di Dio, nella vita di fede, nella pratica religiosa, si può cercare
soltanto un proprio tornaconto, dei propri privilegi, i “primi posti” (v. 6) nella comunità. Questa è
una tentazione costante anche all’interno della Chiesa. Per questo: «fate come dicono (cioè secondo
quanto prescrive la Torah) ma non come fanno».
- La vanagloria. Usare la Torah, la parola di Dio, che è finalizzata all’amore, cioè all’altro, per il
proprio tornaconto, è una perversione, una vanagloria. Il vanaglorioso ruba il posto e la gloria a Dio.
Invece che per amore (a Dio e agli altri) egli fa il bene per amor proprio. La vanagloria rivela la
mancanza di amore con cui adempiamo la legge, e quindi il fatto che in realtà non la adempiamo
per nulla. Se uno non è appagato dal bene che fa, cerca in qualche modo un altro appagamento; questo
è il segno che non si fa il bene per se stesso, e quindi per amore. Il fariseo di cui parla Gesù è il
tipo del religioso praticante, che cerca nella religione un proprio vantaggio. In questo atteggiamento
Dio è al servizio della mia gloria, del mio tornaconto. Si dà a Dio il minimo indispensabile. Si dà a
Dio lo scarto delle nostre cose, lo scarto della nostra vita. Non si curano le cose di Dio come si curano
le proprie. Non si cerca la ricompensa che viene da Dio e che è riservata magari all’aldilà. Il
Vangelo odierno invita quindi a guardare all’intenzione profonda con cui si fanno le cose, se per
piacere agli uomini o a Dio. Da cosa si vede se si fanno le cose per Dio? Se si è disposti a continuare
a farle anche quando non c’è ricompensa umana (Mt 6,1ss.; Is 58,3), quando non si ricevano gratificazioni,
o quando addirittura si riceve ostilità. In definitiva se si accetta la croce. Questo è ciò
che ha fatto Cristo, il quale non ha cercato la gloria degli uomini, ma quella del Padre (Rm 15,3).
Cristo ha rinunciato alla gloria-vuota svuotandosi della propria gloria (Fil 2,3.7). Così le opere buone
del cristiano sono fatte perché gli uomini diano gloria al loro Padre celeste (Mt 5,16).
- La salvezza viene dall’amore. Non va sorvolato che Gesù si sta rivolgendo alle folle e ai discepoli
(v. 1), facendo loro un discorso sul “fariseismo”, sul modo di concepire la salvezza da parte dei farisei
e dei loro esperti della Torah, gli scribi (il fariseismo, tra l’altro, rimarrà l’unica dottrina dopo
l’anno 70). Essi dunque «legano carichi (fortia) pesanti sulle spalle degli uomini». Il fortion è un carico
che viene trasportato (cfr. At 27,10). In questo contesto indica il carico dei comandamenti, della
legge, del proprio dovere di fronte a Dio. È quindi sinonimo di “giogo” (cfr. At 15,10.28), come
viene inteso anche in Mt 11,30 e con cui è in collegamento. In Mt 11,28 Gesù chiama a sé i “sovraccaricati”
per dare loro un alleggerimento. I farisei non possono muovere un dito per aiutare a
portare il carico della legge (v. 4), vale a dire non sono in grado di alleggerire il carico. La soluzione
non sta nell’addolcire i comandamenti, nel ridurre la loro difficoltà, come a volte anche essi facevano;
Gesù ha criticato questo atteggiamento (Mt 23,16-24). Non è una questione di dare regole facili
al posto di regole difficili. Il discorso della montagna, specialmente Mt 5,20, spazza via questa idea.
L’alleggerimento si ottiene prendendo sopra di sé il giogo di Cristo. Il punto sta nell’amore; tutta la
Torah è appesa all’amore, come da Vangelo della domenica precedente. È l’amore che rende leggera
l’osservanza dei comandamenti, come un soffitto rende leggero qualsiasi lampadario vi sia appeso.
Una osservanza fine a se stessa non può che essere pesante. Il fariseismo indica come via della
salvezza l’adempimento della Torah. Ma anche Cristo ha detto lo stesso (Mt 19,16-17). Il problema
dei farisei è che pongono tutto “sulle spalle della gente” (v. 4), cioè sulle forze umane, mentre tutto
deve essere appeso all’amore; e l’amore di Dio che rende leggero il giogo ci può essere solo concesso
da Lui. L’amore di Dio è la persona di Cristo che ci viene data per lo Spirito Santo. È lo Spirito
Santo che ha versato nei nostri cuori l’amore di Dio (Rm 5,5). Senza Spirito Santo non ci può essere
una vera osservanza della legge. Senza lo Spirito di Cristo non si ottiene la vita eterna. Cristo
risorto però è sempre presente in mezzo ai suoi con il suo potere (Mt 28,20). La salvezza, la possibilità
di adempiere la Torah per amore, ci viene data solo per mezzo di Cristo.
Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it
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