Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio DOMENICA «DELLA PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA»
«DELLA PREDICAZIONE DI GIOVANNI BATTISTA»
II Dom. di Avvento B
Marco 1,1-8; Isaia 40,1-5.9-11; Salmo 84; 2 Pietro 3,8-14
Annuncio della buona novella. Dopo venti secoli di cristianesimo, l’evangelo rischia di apparirci
come una storia del passato. Marco però l'annuncia come una buona novella, che insieme provoca (Giovanni Battista) e consola (Isaia): essa è indirizzata a un popolo che attende, oggi come ieri, la realizzazione delle sue speranze.
Marco, solo tra i quattro evangelisti, presenta fin dall'«inizio» (v. 1) la figura di Giovanni Battista. Questo primo messaggero di Cristo annuncia il messia alla maniera dei profeti: nel deserto, dove il popolo di Dio si forma nella prova, la «voce» mette a nudo le coscienze e annunzia che la venuta di Dio esige penitenza e conversione dei cuori.
La liturgia dell'avvento, seguendo Marco, annunzia una buona novella che ci invita paradossalmente alla gioia e alla penitenza, alla speranza e alla conversione. La liturgia di questa domenica poi ci immerge ancora più intensamente nello spirito dell’avvento mettendo in luce, nel brano evangelico e nel tratto della lettera di Pietro, i due momenti essenziali della storia della salvezza: la prima venuta del Signore nel tempo e la sua seconda e definitiva venuta che porrà fine al tempo presente per dare inizio al regno eterno. Questo mistero, unico nella sostanza, pur realizzandosi per noi in momenti storici diversi, è presente nella celebrazione liturgica che, mentre rinnova e rende attuale il primo momento, già attuatosi nella storia, annuncia e prepara il secondo, invitandoci a vivere l’attesa di questi eventi «nella santità della condotta e nella pietà» (2 Pt 3,11), per essere trovati «immacolati e irreprensibili davanti a lui, nella pace» quando egli verrà improvviso, e i cieli e la terra saranno consumati dalla sua gloria.
L’attesa del compimento di questo mistero è illuminata dalla prima lettura presa da Isaia; in essa, con l’annuncio gioioso della fine della schiavitù di Babilonia, del ritorno degli esuli in patria attraverso il deserto, ci è data un’immagine viva ed efficace del cammino che anche noi dobbiamo percorrere, nel deserto, per andare incontro al Signore che viene.
I lettura: Is 40,1-5.9-11
In questa visione profetica, tolta dal capitolo 40 di Isaia, il profeta parla «al cuore» di Gerusalemme e a nome di Dio, vuole consolarla della lunga schiavitù sofferta, annunciandole la fine della sua dura e amara prigionia e il festoso ritorno in patria dei prigionieri condotti dal loro Dio. Dio stesso provvederà a preparare una strada attraverso il deserto perché il suo popolo, ormai purificato da tanta sofferenza e perdonato, possa rientrare con sicurezza nella sua terra. La gloria di Dio lo precederà e lo guiderà nell’uscire da Babilonia come già nell’uscita dall’Egitto la nube luminosa, segno della presenza di Dio, lo ha condotto attraverso il deserto fino alla terra promessa. Sulla strada che Dio stesso ha appianato, colmando le valli e abbattendo i monti, nel deserto trasformato in pianura irrigata (cf. Sal 106, 35), il popolo degli esuli in cammino verso la libertà e la patria non ha più nulla da temere. Il Dio vittorioso che li ha riscattati dall’oppressore è loro difesa; il pastore buono che stringe al seno gli agnelli e conduce con dolcezza le pecore madri è loro conforto e consolazione. La salvezza è ormai prossima, come ci dice il salmo responsoriale (Sal 84) e la gloria di Dio abiterà di nuovo, come un tempo, nel paese, illuminandolo col suo splendore.
Con Is 40 comincia il «libro delle consolazioni d'Israele», ossia Is 40,1 - 55,13. Esso è una vera e constatabile profezia storica. È come uno squillo improvviso che risuona verso il 560-550 a. C, e annuncia la vittoria che già sta accadendo: il Signore in modo repentino e irresistibile sta venendo in mezzo al suo popolo disperso nell'esilio di Babilonia, e annuncia il ritorno certo e felice degli esiliati nella loro patria, per un'era nuova e fausta di favore, di prosperità e di gloria. L'evento si verificò dal 538 a. C, con 1'«editto di Ciro».
Il testo greco è di certo l'originale di un'antica e autorevole tradizione ebraica tra le diverse allora in uso (è del sec. 3° a. C; il testo ebraico attuale, di una tradizione affine, ma non identica, si forma solo dopo il sec. 4°-5° d. C). La pericope di oggi, in modo significativo comincia così:
Consolate, consolate il popolo mio - parla il Signore!
Sacerdoti, parlate al cuore di Gerusalemme, consolatela!
Poiché si adempì la sua umiltà, si dissolse il suo peccato,
poiché ricevette dalla mano del Signore il doppio dei suoi peccati.
Gerolamo credette che fino ad allora tutta la Chiesa avesse errato nell’allontanarsi dalla «verità ebraica», e pensò di dare lui la versione dell'«originale ebraico». Per la sua scienza allora limitata non poteva comprendere che la versione greca dei Settanta non derivava affatto da uno dei testi ebraici correnti al suo tempo (un unico testo fu fissato solo secoli dopo), bensì era una "tradizione" diversa, antichissima, approvata da Gerusalemme. Essa non era da opporre all'ebraico, in quanto non era “l’originale”, come crede ancora la critica moderna. Un unico “originale” non è mai esistito, ma sono esistite solo diverse ”tradizioni”, reperibili tra gli Ebrei d'Alessandria, tra i Samaritani, a Qumran, nelle sinagoghe palestinesi, in quelle di Siria e di Mesopotamia. In conclusione, optando per l'ebraico, qui si è fatto il grave danno di privare la Chiesa occidentale della lezione antica di Is 40,1-2, che è proprio quella greca riportata qui sopra.
Infatti, i sacerdoti sono il soggetto necessario della consolazione, poiché il Signore stesso li indirizza alla sua Città, che è la sua Sposa. I messi sacerdotali a nome suo debbono rassicurare Gerusalemme della sua Misericordia. Il Signore ritiene che il tempo sia giunto, la punizione sia stata scontata a usura, e adesso giunge il tempo favorevole.
In realtà, si verifica il fatto nuovo, improvviso: «Ecco uno che grida: Nel deserto preparate la via al Signore!», in modo da spianargli ogni asperità (vv. 3-4). In genere si traduce qui «voce di uno che grida...». L'espressione, come insegna la grammatica ebraica, significa invece alla lettera: «ecco un gridante». L'”ecco”, seguito dall'enunciazione del fatto, indica sempre un prodigio del Signore in favore degli uomini (ma talvolta, anche contro). Così qui gli esiliati dal grido che ri suona prodigiosamente sono sollecitati ad accorrere nel deserto, a stringere le fila e a togliere ogni ostacolo al Signore che vuole venire.
Allora avverrà la manifestazione irresistibile della Gloria del Signore, tale che nell'universo ogni vivente, «l'intera carne», la vedrà. La manifestazione comincia a prodursi, poiché proviene dalla Potenza della divina Parola, che per realizzare quanto vuole il Signore ormai ha emesso dalla sua Bocca (v. 5), e non la proietta nel vuoto (Is 55,10-11), bensì la fa portare da una persona.
Questa è 1'«evangelizzatore di Sion», che in parallelismo è anche l'evangelizzatore di Gerusalemme. Per assolvere il divino mandato egli deve salire sull'alto monte, deve far risuonare la sua voce con potenza, e senza timore, e deve parlare fino alle città di Giuda annunciando il prodigio: «Ecco il Dio vostro!» Sta venendo (v. 9). La teofania della Venuta è sempre grandiosa. Il Signore esercita la sua onnipotenza, e dispiega la potenza del suo Braccio, operatore di prodigi. Come nell'esodo (Es 15,6), e poi come altre volte, sempre lungo la storia della redenzione. Il tratto risuona ancora nell'A. T., ad esempio con il Salmista ( Sal 117,15-16), come nel N. T., ad esempio nel Magnificat di Maria (Lc 1,51). Ma la teofania non è solo dimostrazione deterrente di potenza guerriera, quando il Braccio del Signore spazza via i nemici del suo popolo. Il fine è donare a questo popolo la ricompensa per le opere con cui si è preparato a riceverlo (v. 10).
Per chi Lo riceve il Signore manifesta il suo amore. Come il Pastore Buono, viene per condurre il suo gregge attraverso i pericoli del deserto fino pascolarlo nelle sospirate terre della patria beata. Non tratta il suo gregge come una massa amorfa, bensì identifica le sue pecore una per una, e qui solleva sulle sue Braccia gli agnelli appena partoriti, e lì condurrà con cura le pecore gravide, bisognose di attenzione (v. 11),
La pericope ha forte senso escatologico, e si adatta bene alla teologia dell'Avvento.
Il Salmo responsoriale: 84,9ab-10.1M2.13-14, SC
Il Sal 84, nei medesimi versetti e nel medesimo versetto responsorio è stato commentato alla Domenica XIX per l'Anno, Ciclo A, che riportiamo sotto. Torna anche alla Domenica XV per l'Anno, Ciclo B, e per il 19 marzo.
Il Versetto responsorio: «Mostraci, Signore, la tua misericordia » (v. 8), è una splendida epiclesi, ripetuta a ogni versetto, con cui i fedeli chiedono al loro Signore la sua teofania della grazia, che provoca bontà e salvezza.
Questo Salmo, una «Supplica comunitaria» (SC), è visibilmente composto di due sezioni:
i vv. 2-8, in cui prevale la supplica epicletica della comunità,
i vv. 10-14, in cui si prospetta la visione finale della salvezza.
Il v. 9 fa da necessaria cerniera. Qui di fatto la comunità sta raccolta a supplicare il suo Signore. E probabile che si stia svolgendo un sacrifìcio propiziatorio, seguito dal convito di comunione. I sacerdoti hanno proclamato la Legge del Signore e l'hanno anche dovutamente spiegata al loro popolo. Il Signore allora si degna di operare una teofania, manifestando così la sua Presenza e la sua Volontà.
Allora prende la parola uno a nome della comunità: «Adesso io ascolto quanto parlerà il Signore!» Questo tratto si chiama "oracolo", presente diverse volte nei Salmi, e che si esprime con formule come quella del Sal 19,6: «Adesso conosco!» Infatti durante la preghiera il Signore rivela qualche suo pensiero all'Orante. Questi percepisce ora, qui che il Signore ha solo parole di pace per il popolo della sua alleanza e per i santi, i fedeli dell'alleanza (v. 9; 121,8; Zacc 9,10; Ag 2,10). E in realtà, i santi sono i primi e i più docili all'ascolto (49,5; Dt 7,6).
Adesso anzitutto la Parola annuncia che la salvezza divina sta ormai prossima per i timorati di Dio, quelli che vogliono eseguire tutta la sua Volontà con totale dedizione (144,18; Is 46,13). Così la divina Gloria verrà a dimorare di nuovo e per sempre nella loro patria (v. 10; Zacc 2,5). Si ha qui l'anticipo di una più mirabile Presenza, quella che sarà rivelata con l'Incarnazione (Gv 1,14). Ecco allora profilarsi il divino corteo. Anzitutto vengono la Grazia della misericordia (88,13; 39,12) e la Fedeltà, che procedono unite e verso il Signore (v. 11a). E precisamente dal Verbo Incarnato «noi ricevemmo il suo Plèròma, la sua Pienezza, e grazia su grazia» (Gv 1,16), poiché «la Grazia e la Fedeltà avvennero mediante Gesù Cristo» (Gv 1,17b). La seconda coppia è parallela e in certo senso omonima: la giustizia e la pace divine, doni messianici per eccellenza (Is 32,15.17, dono dello Spirito del Signore; Sal 71,3, dono del Re messianico; Ef 2,13-17, dono finale di Cristo) (v. 11b). Ora, la terra stessa dal Signore è resa feconda, e farà germogliare la Fedeltà, mentre Egli invierà la sua Giustizia dal cielo della sua dimora (v. 12), come era stato promesso (Is 45,8; Sal 96,6).
Così il Signore mostra e dona la sua Bontà dal cielo, mentre farà scaturire dalla terra degli uomini il loro migliore frutto, il Re messianico, nel segno della terra pacificata, ridistribuita (Lev 25,19, il Giubileo) e resa feconda (Sal 66,7) (v. 13). Verrà il Signore stesso a visitare il suo popolo, preceduto dalla sua Giustizia Misericordia (88,15; Is 32,12; 58,8), che a Lui mostra i passi, eccellente divina staffetta che prepara il corteo regale al Sovrano del mondo (v. 14).
L’Evangelo di Marco inizia con una frase senza verbo, densissima: «Principio del vangelo di Gesù, Cristo, Figlio di Dio» (1,1). In queste parole v'è tutto il contenuto dell’evangelo ma è detto in modo così sintetico che non permette ancora di comprendere nulla di preciso. Il prologo (1,2-13) rappresenta l'espansione narrativa del titolo. Siamo immediatamente inseriti nella storia d'Israele e nelle sue attese. E come se l'evangelista dicesse: Dio ha deciso di intervenire, realizza le sue promesse inviando il Messia (Cristo). Questa è la buona notizia (l’evangelo) preparata da Dio stesso ed ora proclamata. Ma il Messia è un uomo e la sua prima apparizione in pubblico è in compagnia coi peccatori (1,9): l'annuncio del Battista (1,8) è frustrato. Gesù non battezza ma è battezzato. Il lettore, tuttavia, ha un vantaggio rispetto ai personaggi che si muovono sulla scena. Egli sa dalla voce che viene dal cielo che quell uomo è il Figlio di Dio (1,11), mentre per la gente è una persona comune. Marco dunque mette in guardia i suoi lettori: a loro infatti comunica l'identità di Gesù (Messia e Figlio di Dio), mentre la gente non sa nulla di lui ma, vedendo quello che fa e ascoltando quanto dice, si chiede: “Chi è costui?” Il percorso narrativo condurrà a riconoscere che Gesù è il Cristo (8,29) e il Figlio di Dio (15,39). E tuttavia: che cosa significa “Messia”? Che cosa significa “Figlio di Dio”? Sono domande aperte: è come se Marco, dopo aver detto “tutto”, volesse mostrare che l'identità di Gesù deve essere cercata e scoperta e la confessione di fede non è immediata.
La "predicazione ruggente" di Giovanni Battista che apre l’Evangelo di Marco assale e conquista subito gli ascoltatori di oggi come già quelli di allora. Marco si presenta subito come il predicatore di Cristo e non come un biografo; egli comincia il suo evangelo parlando di ciò che dimostra che Gesù è veramente il Messia. Ecco perché il primo personaggio che ci viene presentato è proprio il Battista, visto come il precursore di Gesù; Giovanni ha il compito di indicare colui che verrà dopo e che sarà «più forte di lui».
Il brano non ha quindi una funzione puramente introduttiva, non prepara soltanto al ministero pubblico di Gesù (1,13ss), ma segna l’inizio dell’evangelo e fa già parte di esso.
Tutto ciò che vi è scritto, le parole e i gesti di Gesù con la sua Passione, Morte e Risurrezione è «inizio dell’evangelo di Gesù Cristo». Nell’intenzione di Marco e nella considerazione odierna, la nostra comprensione, è e resta sempre quella di Gesù Cristo Signore Risorto, in quanto «dopo la Resurrezione» è oggetto da parte degli Apostoli di memorie, di approfondimenti, di narrazioni motivate.
Gesù Cristo, Figlio di Dio rimane il criterio essenziale e il punto di riferimento della nostra esistenza, sarà sempre una “buona notizia”, vivere di Lui e annunciarlo ancora come l’atteso di sempre.
Qualche nota al contesto liturgico della pericope evangelica:
Antifona d’Ingresso Cf Is 30,19.30
Popolo di Sion, il Signore verrà a salvare i popoli
e farà sentire la sua voce potente
per la gioia del vostro cuore.
Il Profeta dopo aver annunciato la punizione del popolo ribelle (30,8-18), interpella il “popolo di Sion”, la Sposa diletta del Signore che ha il diritto all’annuncio favorevole e sfavorevole. La benevolenza del Signore muta il suo destino: Egli stesso viene per salvare con il popolo amato anche le nazioni pagane, tutti gli uomini che lo vogliano. Il Signore che viene in questo modo sovrano non vuole provocare il terrore ma la Gioia divina nel profondo del cuore dei fedeli.
Canto all’Evangelo Lc 3,4.6
Alleluia, alleluia.
Preparate la via del Signore, raddrizzate i suoi sentieri!
Ogni uomo vedrà la salvezza di Dio!
Alleluia…
Questa citazione orienta e colora la proclamazione dell’Evangelo di oggi.
Giovanni è la voce che porta la Parola antica contenuta nel libretto delle consolazioni d’Israele”. Isaia (40,3-4) mentre annuncia con forza l’inevitabile ritorno del popolo dall’esilio, umanamente imprevedibile, ripropone la divina Presenza. La condizione di questa Venuta-Presenza è prepararsi in tutto , affinchè il Signore possa venire, simbolo di questa condizione è la via del Signore nel deserto, da percorrere insieme con Lui verso la Patria celeste.
Esaminiamo il brano
v. 1 – «Inizio»: In greco arché può significare «punto di partenza, fondamento, origine» e perfino «regola» o «principio dominante». Il significato che ha in Marco 1,1 dipende dalla punteggiatura che si fa seguire a «Figlio di Dio», se un punto o una virgola. Nel primo caso il v. 1 è una specie di titolo o incipit di tutta l’opera, mentre nel secondo caso l’inizio consiste nell’adempimento della profezia citata nei vv. 2-3 («L’inizio... come sta scritto...»). La traduzione della CEI interpreta il v. 1 come il titolo dell’intera opera, di modo che la fede e la proclamazione della comunità di Marco hanno sia un «inizio» sia una «norma» per l’interpretazione della storia di Gesù che sta per cominciare.
Il versetto non può considerarsi come un vero titolo, almeno nel senso moderno della parola, ma piuttosto come l’enunciazione di una tesi che sarà svolta in tutto il corso del libro.
Anche se nessun nesso grammaticale lo lega al versetto successivo, i concetti centrali che sono espressi lo caratterizzano come di alto contenuto dottrinale.
«Inizio»: la parola pur dettata dallo stile scritturistico ricava una particolare solennità da Gen 1,1 (In principio), ma anche da Mt 1,1 (Genealogia) che ricorre ad una formula introduttiva frequente nella scrittura sacerdotale.
Questa prima parola chiarisce il valore che la scrittura si riconosce: parla di un inizio nuovo, voluto da Dio con un intervento creativo irripetibile, nel tempo finito sì, ma di importanza definitiva. Questo inizio nuovo diventa, per il lettore che legge con gli occhi della fede, l’inizio nuovo della propria vita.
«dell’evangelo (lieto annunzio)»: Il sostantivo singolare euangelion non è mai usato nei LXX; il sostantivo al plurale euangelia e il verbo euangelizesthai («annunciare buone notizie») traducono la radice ebraica bsr (besòràh), che viene usata per un messaggio lieto o importante annunciato da un messaggero a ciò incaricato (es.: 1 Sam 31,9; Na 1,15; Ger 20,14-15). È un termine molto importante invece nel Deuteroisaia e nel NT; vedi Is 52,7 (e At 10,36; Rm 10,15; 2 Cor 5,20; Ef 2,17; 6,15); e Is 61,1-2 (e Lc 4,18-19; 7,22; anche At 10,38; Mt 5,3).
Il termine non ha, in questo caso, il significato di «libro», o scritto intorno alla vita e all’insegnamento di Cristo (significato che assumerà soltanto più tardi, quando si sarà formato il canone del NT), bensì quello etimologico del termine greco euaggelion (eu-aggélion da eu = bene e aggéllô = annunciare) «buona novella», con in più tutto quel contenuto teologico di cui la predicazione apostolica l’aveva già arricchito. Il termine originariamente era ciò che portava un messaggero di gioia, cioè la notizia di una vittoria, di un trattato di pace, ecc.; poi il termine era stato usato nel culto dell’imperatore, cominciato a partire da Augusto, e qui era diventato termine tecnico per ogni notizia del e sull’imperatore: le sue leggi, i suoi discorsi, soprattutto la notizia della sua nascita e ascesa al trono.
Il termine (eb. besòràh) aveva assunto un significato religioso già nel IV/V secolo a.C a partire dal Deutero-Isaia (cfr. 40,9,1 lett; e 52,7).
Questa speranza che rinnova la storia è esplosa ora in Gesù Cristo; Marco precisa subito che l’evangelo è Gesù Cristo, il Figlio di Dio.
«Gesù Cristo»: Gesù (= Jahweh salva) è il nome proprio con cui sarà sempre ricordato e indicato il protagonista della narrazione; Cristo è la traduzione greca (cristos) del termine ebraico mashiah (Messia) che significa «unto». I due termini ricorrono accoppiati qui per l’unica volta. Praticamente si vuol dire che quel Gesù di Nazaret è il Messia o unto per eccellenza, atteso dagli Ebrei come salvatore.
«Figlio di Dio»: Non è da intendersi in modo generico, come per tutti i membri del popolo fedele, ma in senso vero, come era inteso dalla prima comunità cristiana (cfr. 3,11; 5,7; 9,7, ecc.).
Il titolo «Figlio di Dio» in alcuni manoscritti non compare (è omesso, ad es., dal correttore del Sinaitico), ma è attestato nel codice Vaticano e nella tradizione occidentale. Considerazioni redazionali e teologiche depongono a favore della sua inclusione. Marco sottolinea questo titolo, o una sua variante, come descrizione di Gesù; le varianti sono ad es.: «prediletto [o unico] figlio» (1,11; 9,7; 12,6), il Figlio (13,32), Figlio di Dio (3,11), Figlio del Dio altissimo (5,7), figlio del Dio benedetto (14,61) e «un (o "il") Figlio di Dio» (15,39).
L’abbondanza di termini chiave in 1,1 prepara il lettore al drammatico svolgimento dell’intera opera, che è imperniata appunto attorno a una appropriata descrizione di Gesù come Messia e Figlio di Dio (vedi in particolare 14,61; 15,32.39). L’uso testualmente indiscusso dell’espressione «Figlio di Dio» nella confessione del centurione al momento della morte di Gesù (15,39) depone a favore della sua inclusione anche in questo versetto, vista la propensione di Marco per i collegamenti di adombramento e di richiamo a distanza.
Questo appellativo è dunque l’anticipazione del leit motiv di tutto l’annuncio marciano; a questa affermazione fa eco la proclamazione dell’ufficiale pagano ai piedi della croce di 15,39b. Tra queste due proclamazioni corre tutta la vicenda di Gesù, manifestazione progressiva, nei gesti e nelle parole, della sua realtà profonda, la quale riceve conferma divina nelle due solenni teofanie del battesimo e della trasfigurazione (1,11 e 9,7).
vv. 2-3 «Come sta scritto»: Questa formula è usata da Marco per citare o fare allusioni ai testi dell’AT; vedi anche 9,13 e 14,21. La formula è molto frequente anche in Paolo (quattordici volte in Romani, es.: Rm 1,17; 2,24; 3,10; 4,17; 8,36; 9,33; anche 1 Cor 1,31; 2,9; 2 Cor 8,15; 9,9). Questo uso e i testi citati indicano che i lettori di Marco erano a conoscenza sia del contenuto sia del modo di citare l’AT. È anche indice di un elevato livello di scolarità tra i Giudei e i cristiano-giudei del primo secolo. Lo storico Giuseppe (Contro Apione 2,204) scrive: «La Legge ordina che ad essi [i bambini] venga insegnato a leggere e che imparino sia le leggi che le gesta dei loro antenati».
Dei due testi citati solo il secondo si trova nel libro del profeta Isaia, l’altro è infatti di Malachia (3,1); si pensa che Marco li abbia attribuiti al solo Isaia, perché il più noto dei profeti antichi.
«Ecco, dinanzi a te io mando il mio messaggero: egli preparerà la tua via»: Malachia (il cui nome significa «il mio messaggero») si riferisce propriamente al periodo della restaurazione successiva all’esilio e a coloro che lamentavano la pochezza delle strutture del nuovo tempio rispetto a quello salomonico. Egli prospettava un avvenire assai più glorioso, quando il Signore stesso, preceduto da un suo messaggero, avrebbe dovuto manifestarsi nel nuovo tempio con tutta la sua gloria. I rabbini, fondandosi su Ml 3,23, interpretavano questo testo in riferimento a Elia, che sarebbe dovuto tornare sulla terra quale precursore del Messia (Mc 9,11). Allo stesso modo l’intese pure l’antica tradizione cristiana, ravvisando nella persona di Giovanni il vero precursore, che «cammina davanti a lui (Gesù, il Messia) con lo spirito e l’energia di Elia» (Lc 1,16-17; Mc 9,11-13).
«Preparate la via del Signore»: La citazione del Deutero-Isaia (il profeta della consolazione) immaginava invece il ritorno degli esuli da Babilonia dopo l’editto di Ciro (538 a.C.) come un nuovo esodo, con Jahweh a capo del corteo e un araldo che lo precede per invitare gli abitanti dei villaggi a rendere più agevole il sentiero su cui i rimpatriati dovranno passare, così come si faceva per l’arrivo di qualche ospite illustre. Sia i rabbini che i primi cristiani lo riferivano all’epoca messianica.
La «via del Signore» è una figura molto usata nel Deuteroisaia (40,3; 42,16.19; 48,17; 49,11; 51,10) per indicare la strada per la quale Dio farà tornare il suo popolo dall’esilio ed è un elemento centrale anche per Marco che ne coglie il doppio significato di via o strada per un viaggio (2,23; 4,4.15; 6,8; 8,3; 10,17; 10,46) e di cammino per diventare discepoli (8,27; 9,33-34; 10,32; 10,52; 11,8; 12,14). In At 9,2 i primi cristiani sono chiamati «quelli che seguono la via», ossia i seguaci della dottrina di Cristo.
Segnaliamo ancora che il termine «via» (hodós) ritorna due volte nella citazione ed è ripreso una terza volta con il sinonimo «sentieri» (1,2-3). L’appello essenziale della grande citazione è quello di mettersi in cammino per prendere «la strada» di un altro, «la tua via», la strada «del SIGNORE», i suoi «sentieri». Essendo le prime parole del testo rivolte ai lettori/uditori, non si può non esserne colpiti, soprattutto se si pensa che poi uno dei temi essenziali dell’evangelo di Marco sarà quello del «cammmare al seguito» di Gesù, «sulla sua via» (cf. l’inclusione- «in cammino»- che unisce le pagine che vanno da 8,27 a 10,52).
«nel deserto»: nel testo isaiano il deserto è il luogo in cui bisogna preparare un sentiero per il Signore, per Marco è solo il luogo in cui compare e opera Giovanni. Geograficamente Giovanni operava nella depressione del Giordano, il cosiddetto ghor; probabilmente nella zona compresa tra Gerico e la foce del Giordano nel Mar Morto. Nella Bibbia, tuttavia, spesso il deserto ha un significato religioso, non tanto come luogo di penitenza e di fuga dal mondo, quanto come luogo che favorisce l’incontro e il colloquio con Dio (cfr. ad esempio 1,12-13.35; 6,31).
vv. 4-6 «Giovanni»: l’evangelista ne parla come di una persona già nota, introducendolo nella narrazione con il semplice nome proprio. Nel vestito Giovanni è in tutto simile al profeta Elia (2 Re 1,8), di cui rispecchia e quasi incarna lo spirito.
«un vestito di peli di cammello»: il famoso «cilicio», usato anche da altri profeti (Zc 13,4) era una specie di tunica, rozza e ruvida, molto adatta a simboleggiare la penitenza interiore (cfr. Mt 11,8; Lc 7,25).
«locuste e miele selvatico»: sono i prodotti tipici del deserto di Giuda; ancora oggi i beduini mangiano le cavallette, private soltanto del capo, delle ali e della coda. In Lv 11,20-23 le cavallette sono incluse tra gli insetti alati che si possono mangiare; anche la comunità di Qumran mangiava locuste.
Il «miele selvatico» (meli agrion) è il miele raccolto tra le rocce (Dt 32,13), sugli alberi (1 Sam 14,25-26) e perfino nella carcassa di un animale morto (Gdc 14,8-9).
Giovanni non coltiva né campi né orti, ma ricava il suo nutrimento dalla steppa: come Israele, che nei tempi eroici (esodo) viveva soltanto di quel che gli offriva il deserto. L’aspetto esteriore, il modo di vivere non sono strani o addirittura negativi per noi soltanto; lo erano anche in quel tempo. Giovanni lo faceva intenzionalmente: egli era un segno vivente, un simbolo; non è un asceta per amor d’ascesi, ma impersonifica il vero Israele, che vive nel «deserto» e attende colui che dovrà venire.
L’abbigliamento e lo stile di vita caratterizzano dunque Giovanni come un profeta e, cosa ancora più importante, come un nuovo Elia, perché in 2Re 1,8 il re Acazia, interrogando i messaggeri sulla persona che ha parlato loro, sente la descrizione del suo aspetto («un uomo coperto di peli e una cintura di cuoio attorno alle reni») e riconosce subito la sua identità: «Quello è Elia, il Tisbita!». Più il racconto procede, più conferma ciò che i primi due versetti, attraverso l’elaborata citazione delle Scritture, ci avevano detto: Giovanni è l’Elia annunciato da Ml 3,1.23. La sua alimentazione è decisamente rudimentale: si nutre indubbiamente di ciò che è permesso (cf. Lv 11,21s), ma vive di ciò che offre la natura, senza coltivare. Vivere in questo modo nel deserto è regredire culturalmente e, indirettamente, volgere le spalle a tutto ciò che la cultura sedentaria e urbana può offrire.
La conversione/metànoia: alla quale invita il profeta implica questo atteggiamento critico riguardo allo stile di vita che si conduce. Egli è il primo a testimoniarlo e il suo modo di vivere lo rende altamente credibile. L’araldo della novità che viene dimostra di essere già morto a tutto il vecchio.
I primi monaci dell’Egitto ripetono continuamente che è stato l’evangelista Marco a portare loro quello stile di vita apostolica. Finora non esistono prove al riguardo, ma colpisce constatare che quanto diventerà caratteristico dello stile di vita monastico (la vita nel deserto, un abbigliamento e un’alimentazione estremamente rudimentali) si ritrova tale e quale nel comportamento del primo personaggio che entra in scena nel racconto di Marco: Giovanni, il nuovo Elia. Nel corso dei secoli i monaci avranno sempre una grande venerazione per il Battista così come per Elia (cf. il nuovo ordine dei carmelitani, sorto nel XIII secolo sul monte Carmelo). S. Benedetto, arrivando a Montecassino, dedicherà una delle due cappelle a s. Giovanni Battista.
«battesimo di conversione»: Giovanni proclamava la necessità di un «battesimo» (bagno, lavacro), che fosse simbolo esteriore di una conversione interiore. Il termine conversione in greco metanoia (metà = cambiamento e nus = mentalità) significa appunto cambiamento di mente o di giudizio (cfr. Eb 12,17).
«per il perdono dei peccati»: «Perdono», «remissione» o «condono» (in greco aphesis, dal verbo aphiemi, «dimettere o mandar via», usato anche per la cancellazione di un debito) può significare perdono, liberazione dalla schiavitù o cancellazione di una punizione. L’«immersione» o l’«intingere», la gente nel Giordano fatta da Giovanni è l’attuazione delle disposizioni interne del battezzando e il simbolo del perdono che questi spera di ricevere. Come mostrerà chiaramente il v. 5, la «confessione» dei peccati è il presupposto per ottenerne il perdono.
v. 5 «Accorreva a lui tutta la regione della Giudea e tutti gli abitanti di Gerusalemme»: Il greco presenta una struttura chiastica, letteralmente: «tutta (paso) la regione della Giudea e da Gerusalemme tutti (pantes)», sottolineando in tal modo la Giudea e Gerusalemme dove il racconto raggiunge il culmine (cc. 11-16). Gerusalemme è la capitale della Giudea, che nel primo secolo faceva parte di una provincia romana. Una caratteristica dello stile di Marco, che viene normalmente alterata da Matteo e Luca, è l’«universalizzazione» delle scene con l’uso di «tutto - tutti». L’artificio normalmente serve a dar risalto alla figura di Gesù (es.: 1,32.37; 2,12.13; 6,33; 9,15; 11,17), a questo punto anticipata dalla descrizione dell’attività di Giovanni quale precursore di Gesù. Marco potrà forse esagerare, ma la grande popolarità goduta da Giovanni il Battista è attestata anche da Giuseppe (vedi Ant. 18,118).
L’evangelista vuole evocare dunque un grande uditorio nel quale tutti si sentono interpellati, tutti gli abitanti della capitale e tutta la regione - da comprendere qui come la grande Giudea, il paese dei giudei, che comprende anche la Galilea. Secondo il dizionario di W. Bauer, “la Giudea” può indicare sia la regione attorno a Gerusalemme, distinta dalla Samaria o dalla Galilea, sia «il territorio abitato dalla nazione giudaica», che comprende anche la Samaria e la Galilea. Il secondo caso è meno frequente nel NT. Il dizionario segnala questi casi: Lc 1,5; 4,44; 7,17; 23,5; At 10,37; 11,1.29; 26,20; l Ts 2,14; Mt 19,1. Soprattutto i casi di Lc 23,4 («tutta la Giudea a partire dalla Galilea») e At 26,20 sono interessanti in comparazione con Mc 1,5.
Da Roma, dove si suppone sia stato redatto l’evangelo, l’espressione vuole indicare la totalità non di una parte ma dell’intero paese.
vv. 7-8 Le parole di Giovanni non sono che la risposta che egli dava a quanti lo interrogavano sul significato della sua opera credendolo fosse il Messia (cfr. Lc 3,15; Gv 1,19).
«Dopo di me»: L’espressione opisó mou («dopo di me») è usata da Gesù quando chiama i discepoli a seguirlo (vedi 1,17).
«colui che è più forte»: «Colui che è» traduce l’articolo definitivo ho. L’aggettivo «più forte» riecheggia l’inizio del Deuteroisaia dove Dio verrà «con potenza» (40,10 LXX, meta ischyos). Secondo alcuni il «più forte» è Dio, ma l’immagine di Giovanni che slega i lacci dei sandali di Dio è quanto mai improbabile. Inoltre, la descrizione di Gesù come il «più forte» lo preannuncia come una figura di grande potenza (1,22.27) e come colui che è in grado di saccheggiare la casa dell’uomo forte, Satana (3,20-27).
«di chinarmi per slegare i lacci dei suoi sandali»: L’immagine evoca un rapporto tra padrone e schiavo; vedi il detto di Rabbi Joshua ben Levi nel Talmud Babilonese: «Tutti i servizi che uno schiavo fa per il suo padrone l’allievo deve farli per il suo maestro, ad eccezione di slegargli i sandali» (b. Ket. 96a).
È una confessione di un’umiltà incomparabile che mostra il vero centro della sua missione di araldo e precursore ed esalta soprattutto l’altezza morale del Cristo e della sua missione. La sua espressività risalta maggiormente se si tiene conto che tra gli Ebrei nessuno schiavo ebreo poteva essere costretto a sciogliere i legacci dei sandali del proprio padrone. È interessante notare che questa espressione è riferita concordemente da tutti gli evangelisti ed anche in At 13,25; evidentemente doveva essere un elemento ordinario nella comune catechesi dei primi tempi.
Questi rimandi e le citazioni ci invitano ad approfondire sempre più il significato di queste espressioni, perché gli evangelisti, che si muovono in una cultura biblica e sono pieni di richiami biblici. La nostra ignoranza della bibbia è spaventosa -forse perché sono pochi decenni che finalmente la Chiesa ci invita a leggere la Bibbia, mentre prima lo proibiva -, quindi ci vorrà del tempo prima che tutti quanti si approprino della scrittura. La nostra ignoranza dell’Antico Testamento fa sì che certe espressioni del Nuovo non le comprendiamo, perché le espressioni del Nuovo, sono comprese soltanto nella cultura dell’Antico.
Rileggiamo l’affermazione che dà di sé Giovanni il Battista: dice che tra poco arriva il Messia del quale ‘io non son degno di sciogliere il legaccio dei sandali’. Abbiamo parlato come comunemente si fà dell’umiltà del Battista ma forse non è solo questo il senso della frase.
Quando leggo questo versetto, a lato del versetto troverò: Deuteronomio, capitolo e versetto, Genesi, capitolo e versetto, Rut, libro di Rut, capitolo e versetto. Devo interrompere e andarmi a leggere Deuteronomio, Genesi e Rut, e alloro scopro una tradizione, che naturalmente non è la nostra, della cultura matrimoniale dell’epoca. A proposito, i testi di riferimento per quanto stiamo per dire sono: Dt 25,5-10; Gen 38; Rut 4; Sal 60,10; 108,10; Mt 22,23-33. In quell’epoca, quando una donna rimaneva vedova del marito senza aver avuto figli, il cognato aveva l’obbligo di "dare una discendenza al morto". Il figlio nato da questa unione avrebbe portato il nome del marito defunto. Questo per salvaguardare la donna che così non veniva rimandata alla famiglia di origine che non la rivoleva, ed era una salvaguardia del patrimonio del clan famigliare.
Se il cognato rifiutava di unirsi a questa donna, colui che nelle scala giuridica veniva dopo di lui, procedeva alla cerimonia chiamata dello scalzamento. Era una cerimonia disonorevole. La persona arrivava, scioglieva il legaccio dei sandali del cognato che rifiutava l’unione, prendeva il sandalo, lo alzava e ci sputava. Ed era un’immagine simbolica per dire: il tuo diritto di mettere incinta questa vedova passa a me.
Allora comprendiamo che quando Giovanni Battista sta dicendo: ‘io non son degno di sciogliere i legacci del sandalo a colui che viene’, forse non sta facendo soltanto una lezione pelosa di umiltà, ma sta dando una profonda indicazione teologica.
Sapete che dai profeti, in particolare da Osea in poi, il rapporto tra Dio e il suo popolo, era visto come un rapporto matrimoniale: Dio era lo sposo, e il popolo la sposa. Ma per i peccati commessi da questa sposa, questa unione si era interrotta, per cui il popolo era come “vedova” di Dio.
Allora Giovanni Battista, che da molti viene scambiato per l’atteso messia, dice che colui che deve fecondare questa vedova, cioè il popolo di Israele, non è lui ma colui che deve venire.
Ecco perché Giovanni dirà di Gesù: lui deve crescere ed io devo diminuire. Cioè la comunità nuova di Israele, la comunità cristiana verrà fecondata non da Giovanni Battista, ma dallo sposo della comunità, da Gesù Cristo. Questo ci aiuta a capire meglio anche il senso della frase seguente.
«vi battezzerà con Spirito Santo»: come l’acqua opera sul corpo lo Spirito esercita la sua azione purificatrice sulle anime.
L’aspettativa di «uno più forte» e l’immagine dello schiavo preparano il lettore ad un accentuato contrasto tra Giovanni e Gesù. Dato che Gesù, in Marco, non battezza nello Spirito Santo, queste parole rinviano il lettore a guardare oltre la narrativa (vedi 13,11). Nell’Evangelo di Marco lo «Spirito Santo» è nominato solo qui, in 3,29 e in 13,11. Lo «Spirito» suggerisce l’idea di Dio presente nella potenza e nell’azione. Lo Spirito Santo non è tanto una persona, come nella successiva teologia trinitaria, quanto piuttosto la potenza e lo spirito di Dio che porta la santità. Mt 3,11 e Lc 3,16 hanno: «vi battezzerà in Spirito Santo e fuoco». Questo può essere un caso secondario di concordanza tra Matteo e Luca contro Marco, oppure (più probabilmente) il detto rappresenta una versione Q (forse intesa come «con vento e fuoco». Il parallelo anticotestamentario più vicino a Mc 1,8 è Ez 36,25-26, dove Dio rinnoverà il popolo purificandolo con l’acqua e infondendo in esso uno spirito nuovo (vedi anche Gl 2,28; Is 44,3; Ez 39,29). Il battesimo di Giovanni era in preparazione ad un rinnovamento del popolo più profondo che si realizzerà per l’intervento di «colui che è più forte».
Il dono dello Spirito, come già avevano annunciato i profeti (Is 44,3; Gl 3,1; Zc 12,10; 13,1; Ez 11,19; 18,31; 35,25-29), era una delle caratteristiche del tempo messianico. All’acqua si sostituisce il vino nuovo, quello buono, per il banchetto di nozze. Per sempre.
Antifona alla Comunione Bar 5,5; 4,36
Gerusalemme, sorgi e stà in alto:
e contempla la gioia che a te viene dal tuo Dio.
Il contesto della citazione vede il profeta fare l’anamnesi della situazione di abbandono del popolo a causa del suo peccato di infedeltà al Signore ma proclama anche la speranza imminente scandita dalla forte sequenza di imperativi: coraggio! (4,5.21.27.30); venite! (4,14); andate! (4,19); guarda ad Oriente! Da dove sorge la radiosa divina Speranza e scorgi la gioia che viene a te da Dio! (4,36). Poi in 5,1-9 è cantata la gioia della Sposa che con un nome nuovo è rivestita dal Signore per andare incontro a Lui che viene (5,1-3). La liturgia ci ricorda e ci fa vivere nella Parola e nei Misteri di oggi la sua Venuta realizzando la comunione nuziale al Corpo ed al Sangue prezioso di Lui.
Tutti i fedeli che celebrano sono posti in totale unione di vita con Lui dallo Spirito Santo che come fuoco rigenerante fa vivere tutte le realtà consegnate nell’Iniziazione per la Gioia divina infinita.
Le preghiere di Colletta:
Dio grande e misericordioso,
fa’ che il nostro impegno nel mondo
non ci ostacoli nel cammino verso il tuo Figlio,
ma la sapienza che viene dal cielo
ci guidi alla comunione con Cristo, nostro Salvatore.
Egli è Dio...
Colletta B:
O Dio, Padre di ogni consolazione,
che agli uomini pellegrini nel tempo
hai promesso terra e cieli nuovi,
parla oggi al cuore del tuo popolo,
perché in purezza di fede
e santità di vita possa camminare
verso il giorno in cui manifesterai pienamente
la gloria del tuo nome.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
Le due collette con supplica epicletica chiedono al Padre che le opere dei fedeli e il loro cuore capace di ascolto facilitino e affrettino la Venuta del Figlio suo per conseguire la “medesima sorte” beata del Signore. È il tema della divinizzazione.
lunedì 4 dicembre 2017
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.catechistaduepuntozero.it/
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