Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio DOMENICA «DELL’AGNELLO DI DIO»
DOMENICA
«DELL’AGNELLO DI DIO»
III Dom. di Avvento B
Gv 1,6-8.19-28; Is 61,1-2a.10-11 (leggi 61,1-11); Cant. Lc 1; 1Ts 5,16-24 (leggi 5,16-28)
Se tutto l’avvento è tempo di gioia nell’attesa del Signore che viene, lo è particolarmente la terza
domenica, così prossima ormai alla manifestazione del Signore da farci esultare di gioia incontenibile perché sempre più si avvicina la nostra liberazione e, come dice l’evangelo, colui che deve venire è già in mezzo a noi.
Da secoli la profezia lo aveva annunziato come l’unto del Signore, mandato a portare salvezza e libertà e ad annunziare la misericordia di Dio. Realizzata ormai questa promessa, s. Paolo, proiettando la nostra attenzione verso la fine del tempo, ci vuole santi, integri e irreprensibili nell’attesa del ritorno del Signore Gesù nella gloria. Iddio stesso opererà in noi questa santificazione, che non può essere opera nostra, in virtù del sangue di Cristo che ci purifica e santifica, e custodirà tutto il nostro essere irreprensibile per il giorno di Cristo, perché possiamo aver parte con lui alla gloria che allora sarà manifestata.
Antifona d’Ingresso Fil 4,4.5
Rallegratevi sempre nel Signore:
ve lo ripeto, rallegratevi,
il Signore è vicino.
Questa Domenica (cfr. colletta) è tradizionalmente dedicata alla gioia nella maggior parte delle antiche liturgie; è la domenica di Gaudete. Rallegratevi!, caratteristica anche per i paramenti sacerdotali «rosacei» che possono sostituire il tradizionale colore viola.
L’Antifona d’ingresso che abbiamo letto è tratta dal capitolo finale dell’epistola ai Filippesi (4,4.5b). La comunità di Filippi fu sempre una delle comunità predilette dall’apostolo Paolo che proprio in 4,1 chiama questi «fratelli miei, diletti e tanto desiderati, gioia mia e corona mia».
Il vocabolario della gioia proviene dalla Resurrezione, al sepolcro infatti le donne fedeli sono esortate a gioire (Mt 28,8) e dal dono conseguente dello Spirito Santo (Gal 5,22: «il Frutto dello Spirito è carità, gioia, pace»). Attraverso e con Paolo la Chiesa esorta a gioire ma nel “Signore Risorto”, sempre. Invito poi ripetuto con il motivo unico e sufficiente: «Il Signore è (sta) vicino» ossia si è fatto presente per i suoi che lo attendono e che da Lui riceveranno lo Spirito Santo. Il testo è certamente finalizzato al Natale prossimo tuttavia la densità escatologica supera ed è indipendente da una festività.
Canto all’Evangelo Is 61,1
Alleluia, alleluia.
Lo Spirito del Signore è sopra di me,
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio.
Alleluia.
Questo celebre testo facente parte della I lett. di oggi, citato anche in Lc 4,18-19 appartiene al Terzo Isaia (cc. 56-66) e annuncia che lo Spirito del Signore riposerà sul Re messianico e lo “caratterizzerà” con l’unzione consacratoria per la sua divina missione: la redenzione universale che consiste anzitutto nell’annuncio di Grazia ai poveri, la remissione dei peccati, il Giubileo biblico, il Regno di Dio in mezzo agli uomini.
Antifona alla Comunione Is 35,4
Dite agli sfiduciati: «Coraggio non abbiate timore:
ecco, il nostro Dio viene a salvarci».
In un momento difficile come l’invasione nemica il Signore promette al popolo suo la sua Venuta in mezzo ad una creazione trasformata e fiorente come un nuovo Eden. Per questa venuta inattesa il popolo stesso sarà trasformato, da pusillanime sarà reso audace, i malformati saranno guariti. “Oggi qui” il Signore viene con il medesimo Spirito a noi. Anzitutto con la sua Parola guaritrice e resuscitante dalla morte del peccato e poi con la Mensa dei Misteri celebrati che donano lo Spirito Santo. Così fortificati e divinizzati possiamo degnamente andare incontro al Signore che viene.
Anche in questa domenica la figura del Battista è al centro della scena evangelica ma come colui che mostra e riporta tutto e tutti al “più forte”, il Messia, lo Sposo della sposa.
Il brano, tratto dal c. 1 dell’evangelo di Giovanni unisce due testi riguardanti il precursore di Gesù:
a) primi versetti di questa lettura sono presi dal prologo del quarto evangelo; la missione del Battista è definita come testimonianza resa alla luce; Giovanni rivela al mondo la presenza del Verbo, «luce vera che illumina ogni uomo» (v. 9);
b) la seconda parte del brano riferisce la testimonianza resa da Giovanni alle autorità religiose dei giudei, che erano venuti per conoscere meglio la sua posizione; Giovanni afferma di non essere nè Elia redivivo, nè il profeta predetto da Mose (Dt 18,18), nè il messia stesso; egli vuole essere solo una voce e aiutare gli uomini ben disposti a leggere nei segni dei tempi. La testimonianza storica del Battista viene divisa simbolicamente dall’evangelista in tre giorni1 (non hanno valore cronologico), che corrispondono a tre tappe:
1) alla delegazione dei sacerdoti e leviti dà sul suo conto una triplice testimonianza negativa (vv. 19-21), che orienta però già verso quella positiva (vv. 22-27; cfr 1,8);
2) al popolo d’Israele, giorno dopo, offre una testimonianza positiva su Gesù (vv. 29-34), che corrisponde a 1,15;
3) il terzo giorno, infine, ripete la stessa testimonianza, rivolta più specificatamente ai suoi discepoli, che oriente all’incontro con Gesù e quindi alla fede (vv. 35-37).
A tutto questo segue poi l’autorivelazione di Gesù ai primi discepoli, che entusiasti lo comunicano subito ad altri (vv. 35-51). Non possiamo non notare come la parola testimone e testimonianza emerge con insistenza e vigore nella pericope evangelica. In greco il verbo usato è marturein "testimoniare’’, dal quale deriva il nostro "martire". La testimonianza si manifesta soprattutto con la parola: non per nulla il Battista si definisce «voce di uno che grida».
Nell’antico Oriente, diversamente da quanto avviene nelle nostre culture (cfr. con oggi!), la parola era sacra ed efficace.
È per questo che il Decalogo mette tra i suoi comandamenti il «non pronunziare falsa testimonianza», soprattutto nei processi.
In caso di lapidazione, i testimoni dovevano essere i primi esecutori della sentenza di cui avevano piena responsabilità attraverso le parole della loro testimonianza (Dt 17,6-7).
È per questo che nei Salmi e nei Proverbi si protesta ripetutamente contro la falsa testimonianza, causa di vita e di morte. Gli stessi apostoli di Cristo si presentavano come testimoni della sua risurrezione: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e sino agli estremi confini della terra» (At 1,8).
Anche i cristiani saranno chiamati ad essere «testimoni fedeli» fino alla morte, come Stefano o Antipa, cittadino di Pergamo, ricordato nel libro dell’Apocalisse proprio col titolo di “testimone’’ (Ap 2,13). Anzi, in quest’opera Gesù stesso è chiamato «testimone fedele e verace» (Ap 3,14) perché egli rende testimonianza con le parole e la vita alla rivelazione che il Padre gli ha affidato.
I lettura: Is 61,1-11
Nella prima lettura, tolta ancora da Isaia, ci è presentato l’unto del Signore, investito del suo Spirito, inviato per annunciare la buona novella ai poveri, per curare i contriti di cuore, per portare a tutti libertà e consolazione; per proclamare che è giunto il momento tanto atteso e invocato in cui la salvezza di Dio sta per manifestarsi. Perciò i versetti 10 e 11 sono veramente un grido di esultanza e di letizia perché Gerusalemme può ormai, come la sposa, deporre la veste di dolore per adornarsi dei suoi gioielli: il Signore Iddio, lo sposo, l’ha rivestita infatti di salvezza, l’ha avvolta nel manto della giustizia e la farà rifiorire come un giardino, come la terra che schiude i nuovi germogli.
Il blocco chiamato Primo Isaia (Is 1,1 - 39,8) risale al sec. 8° a. C. Esso contiene la profezia sullo Spirito del Signore dai 7 Doni, promesso per i tempi ultimi sul Re, il Germoglio di David, e riposante su lui per conferirgli la potenza per stabilire il Regno divino di pace e la condizione paradisiaca di armonia del mondo (Is 11,1-10).
Nel Terzo Isaia (Is 56,1 - 66,24), raccolta profetica forse del sec. 6° a. C, l'antica profezia è ripresa ed esplicitata. Il medesimo Spirito del Signore viene sul Re, che è anche Profeta e Sacerdote dell'alleanza divina (Is 61,1-10). Dalla prima prospettiva adesso si insiste sulle opere del Re Profeta e Sacerdote, soprattutto all'interno del popolo di esiliati tornati in patria, ma scossi e demoralizzati sul piano religioso.
Il testo di oggi si apre quindi con la dichiarazione programmatica del Re Profeta e Sacerdote: lo Spirito del Signore sta ormai su Lui. Nell’A. T. lo Spirito del Signore è una personificazione decisiva della Potenza del Signore e si può definire come il Signore in quanto nella sua azione tra gli uomini è percepito mentre si comunica a essi per lo spazio della loro missione. Il Personaggio prosegue descrivendo la missione di cui è incaricato. Lo Spirito del Signore dimora su lui, e anzitutto lo "unse" per la missione. L'unzione è conferita nell'A. T. ai sacerdoti e ai re. Essa consiste nella consacrazione o presa di possesso del «Messia, l'Unto», secondo l'ebraico mašiah, ungere, da cui Mašiah, in aramaico Mšihah e in greco chriô, ungere, da cui Christós. Così l'Unto del Signore è come "sigillato". Il "segno" autentifica la missione ricevuta, e rende legittimo e operante l'invio a compierla.
La missione regale profetica e sacerdotale è descritta di seguito. Si tratta delle principali opere messianiche, ossia regali profetiche e sacerdotali con cui è ricostituito il popolo del Signore. La prima opera è «evangelizzare i poveri». "Evangelo", "evangelizzatore", "evangelizzare" sono stati spiegati nel contesto dell'Evangelo della Domenica II d'Avvento, alla quale si rimanda. Qui invece si deve far risaltare che il Signore conferisce ai poveri il diritto di ricevere per primi l'Evangelo divino. L'Evangelo porta il Regno, che è la Pace, i Beni divini e la salvezza: doni che precisamente spettano per primi ai poveri.
In secondo luogo, il Re Profeta e Sacerdote Messia deve curare chi ha il cuore infranto dalle tribolazioni. Poi deve liberare i carcerati e i detenuti nella prigionia. Così dai poveri, tribolati, carcerati e prigionieri, le categorie infime dell'umanità, intorno all'Unto del Signore è riformato il popolo messianico del Signore (v. 1).
A questo popolo il Messia si mostra nell'azione propriamente sacerdotale: proclamare l'Anno accetto del Signore, ossia il Giubileo della grande remissione di ogni debito e di ogni peccato, il Giubileo del popolo liberato e libero (v. 2a). Spetta infatti ai sacerdoti, il Giorno dell'Espiazione, al 10 del mese di Tìšrî, di proclamare il Giubileo come l'anno della solenne purificazione nazionale (Lv 25,9), che investe l'intera proprietà del Signore, ossia gli uomini liberi con le loro famiglie, i servi, gli animali, la terra (Lv 25,8-22).
I successivi vv. 10-11 sono un vero Salmo, che, come si disse altre volte, si trova fuori del Salterio. Il popolo ricolmo di tanta grazia erompe in un inno gioioso di azione di grazie. Questo esordisce con il desiderio di gioire nel Signore, che è motivato dal dono nuziale ricevuto. Questo popolo è una vera persona, è adornato come un sposo pronto alle nozze, e le sue vesti sono la salvezza e la misericordia. Ed esso si trova nella situazione singolare per cui il Signore lo designa come sposo e lo ha preparato alle nozze con la corona, che è il lungo nastro prezioso che cinge la testa e ricade dietro e insieme lo designa come la sposa, che prepara adornandola con l'abbigliamento sfarzoso e i preziosi monili femminili (v. 10).
Nello sposo e nella sposa, ossia nel popolo messianico ormai creato, nell'immagine della terra che schiude i suoi germogli e dell'orto seminato che comincia a germinare, il Signore concederà la sua teofania prodigiosa, farà sorgere e germogliare la sua Misericordia e la Lode di Lui, e questo vedranno le nazioni della terra (v. 11).
Il Salmo responsoriale: Lc 1,46-48.49-50.53-54 col versetto responsorio: «La mia anima esulta nel mio Dio » che canta con esultanza il Dio dell'alleanza, in accordo con il Magnificat, è Is 61,10b, visto sopra.
Maria ha saputo dall'Angelo che la sua parente Elisabetta è gravida da 6 mesi (Lc 1,36) e con grande carità corre a visitarla e a salutarla (Lc 1,39-40). Appena la vede, come risposta Elisabetta ne fa l'elogio entusiasta (Lc 1,41-45) e Maria erompe nella preghiera spontanea che è il Magnificat (Lc 1,46-55), un vero Inno di lode e d'azione di grazie al Signore. Esso ha lo stile poetico ebraico, risente molto dei Salmi, ha diversi contatti con la «preghiera di Anna» (1 Sam 2,1-10). Come l'intera «narrazione dell'Infanzia» (Lc 1-2), si risente qui il greco dei LXX. È inutile entrare nella questione oziosa se abbia composto il "suo" canto Maria stessa, e contestare i negatori aprioristi. Mentre si deve riconoscere a priori che molte donne sono poetesse e nell'antichità alcune di livello mai raggiunto; a diverse Ebree nell'A. T. sono attribuiti canti poetici, e così a Deborah, ad Anna e a Giuditta. Solo criteri chiamati storici critici e letterari a tavolino, se sono un riflesso di mancanza di fede, negano che l'Ebrea più visitata dalla Grazia possa avere cantato a «Dio suo Salvatore».
Questa Domenica, contro la regola primordiale e formale per cui la Parola divina si accoglie con i Salmi, il Magnificat è scelto come Salmo responsorio (oltre tutto è anche amputato), e gli è annesso il Versetto responsorio tratto dalla Profezia letta prima.
Maria esordisce nella lode al Signore e nell'esultanza al Dio dell'alleanza (connotata dal possessivo "mio"), riconosciuto come il Salvatore. Maria si riconosce come la prima dei salvati, anche se in forma incomparabile (v. 46). E di questo dà la motivazione, che consiste nel contemplare il Disegno divino, che sempre sceglie l'umiltà per confondere la superbia umana. Infatti il Signore per adempiere i suoi propositi si è degnato di riguardare solo lei, quale sua umile e finora nascosta creatura, per fame lo strumento eletto, la «schiava di Lui» (v. 47a), come già si era professata davanti all'Angelo annunciante (v. 38). L'umiltà se è autentica resta sempre tale, anche nella lucida contemplazione del Signore operante, che porta a comprendere come una tale "scelta" ponga ormai Maria in una situazione singolare. L'Angelo del Signore l'aveva salutata anche con parole di annuncio rivelatorio:
Gioisci, Piena di grazia!
Il Signore con te.
Benedetta tu tra le donne! (Lc 1,28), mentre Elisabetta l'aveva salutata con un elogio straordinario, anch'esso rivelatorio nello Spirito Santo (Lc 1,41):
Benedetta tu tra le donne,
e benedetto il Frutto del tuo ventre.
E da dove a me questo, che venne la Madre del Signore fino a me?
Ecco, infatti, come vi fu la voce del tuo saluto alle mie orecchie,
balzò di gioia nell'esultanza il bambino nel mio ventre.
E beata colei che ebbe fede, poiché vi sarà il compimento
di quanto fu parlato a lei da parte del Signore! (Lc 1,42-45).
Piena di grazia, la prima credente, con la Presenza del Signore, il Figlio suo benedetto, diventata «la Madre del Signore», la comunicatrice dello Spirito Santo, la Benedetta a preferenza di ogni altra pur santa donna, la Beata: Maria è consapevole che per tutto questo tutte le generazioni dei fedeli, ossia lungo la storia fino alla fine del mondo, la "beatificheranno" (verbo makarízô), ossia la riconosceranno e l'acclameranno come la Beata, titolo ancora in uso, makária o mákaira in greco, tûba in aramaico, beata in latino (v. 48b).
Anche di questo è ripetuta la motivazione, che richiama il v. 48a. Il Signore è l'Onnipotente che opera sempre fatti grandiosi, tuttavia il maggiore lo operò proprio in Maria. Infatti Dio nasce dalla Vergine che diventa Madre e resta Semprevergine (v. 49). Egli mise in opera la sua Misericordia eterna, che passa e tocca le generazioni, da Abramo alla sua discendenza, e si ferma in specie sui suoi "tementi", gli umili e devoti che sperano in Lui e desiderano sempre anzitutto fare la sua Volontà divina e santa (v. 50).
In specie il Signore usa misericordia con i poveri di spirito e di beni e li sazia di beni, mentre alla fine spoglia i ricchi e stolti (v. 53). In questo finalmente ha cominciato l'ultima parte del suo Disegno verso Israele, il popolo del suo servizio, adesso facendogli giungere la divina Misericordia attraverso Maria la Madre Semprevergine (v. 54).
La I lettura e l’evangelo formano un’unica pericope letteraria con identico contenuto e riflettono l’identica situazione storica, è rivolto molto probabilmente dal profeta agli esiliati di Israele, che accolgono esultanti l’annuncio della loro prossima liberazione che la mano potente di Dio opererà.
L’evangelista Luca ci racconta che Gesù, all’inizio della sua vita pubblica, applicò a se stesso queste parole del profeta; e con esse, Cristo inaugurò la nuova era messianica. La presenza dello Spirito sopra di lui nel battesimo fu come la consacrazione all’opera salvifica alla quale era destinato.
Però, nel secolo VI a. C. le prospettive immediate di questo oracolo erano molto lontane dal futuro Messia. Sebbene fossero rivolte a lui, avevano come obiettivo presente altre realtà tipo. Chi pronunziava queste parole era senza dubbio un discepolo di Isaia, un profeta carismatico, come testimonia la presenza dello spirito in lui. Questa presenza lo trasformava, parlando metaforicamente, in un unto come i re e i sacerdoti, inviato per una missione speciale che comincia immediatamente a specificare.
Tutte le sue frasi sembrano proverbi della teologia tradizionale. È un chiaro esempio del modo con cui le stesse immagini vanno acquistando contenuti diversi a misura che progrediva la rivelazione. La liberazione dei prigionieri e dei carcerati che, nel secondo Isaia, faceva pensare a quelli che erano prigionieri in Babilonia, acquista qui un ampio senso di liberazione dalle difficoltà e dalle ingiustizie della vita dopo l’esilio. Liberazione divina in netto contrasto con le varie schiavitù degli imprevisti della vita; libertà in Cristo dei figli di Dio.
Il giorno della vendetta e l’anno di misericordia — dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia — ricordano due date chiave nella storia del popolo giudaico: quella della prigionia nell’anno 586 e quella della liberazione nell’anno 538; ma il profeta non si ferma a queste. Non è giunta la felicità; ed egli, rivolgendo lo sguardo al futuro ideale, dà alle sue espressioni un carattere nettamente escatologico annunziando un tempo nel quale i segni di tristezza e di afflizione saranno trasformati in profumo e in corona di felicità e di gloria. Tutti torneranno a Gerusalemme. Chi poteva ignorarlo dopo aver ascoltato tutta la tradizione di Isaia? E tuttavia, il nostro profeta, per stabilire il contrasto fra i tempi passati e quelli futuri, fra quello che Giuda è stato e quello che sarà, cade in un nazionalismo trionfalistico al quale non siamo abituati. Sulle macerie delle invasioni assira e babilonese gli antichi vincitori torneranno come servi per ricostruire essi stessi quello che avevano distrutto. Quei popoli giganti diverranno ora in Giuda quello che i giudei erano stati durante l’esilio: contadini, pastori e garzoni.
Essi, i giudei, dovevano essere l’elite della società, i sacerdoti dell’Altissimo, i ministri del Dio unico. La fame che avevano sofferto doveva trasformarsi in cibi squisiti scelti fra tutte le nazioni. Sarebbero stati un popolo sacerdotale.
Sappiamo che tutto questo si è adempiuto nella nuova alleanza che era stata loro promessa quando fu rotta definitivamente quella sinaitica; ma si adempì in un modo del tutto diverso da quello che essi immaginavano. Le loro aspirazioni di rivincita furono ridotte a pallide ombre da questa grandiosa realtà dei tempi messianici; i loro sogni nazionalistici furono trasformati in universalismo cattolico.
Yahveh promise loro il doppio di quanto avevano sofferto. Era l’equivalente dell’eredità del primogenito: il doppio di quanto toccava ai suoi fratelli. Giuda era per Yahveh il primogenito. Gesù, il vero primogenito del Padre, andrà molto più avanti promettendo il cento per uno in questa vita, e poi la gioia del possesso eterno di Dio. Nessuno lo crederebbe, se Dio non l’avesse rivelato. A poco a poco, Dio li andava preparando alla grande rivelazione nel Figlio.
Come non riconoscere, in questa parola del profeta agli esuli di Israele, la voce stessa di Dio che parla a noi tutti, ormai riscattati da una schiavitù ben più dura e pesante dell’antica schiavitù d’Israele? Noi redenti dal sangue di Cristo dalla schiavitù del peccato e del demonio, già incamminati verso la nuova ed eterna Gerusalemme, ci riconosciamo facilmente in quegli esuli pieni di gioia per la libertà annunciata e per la misericordia loro concessa.
Ben a ragione possiamo allora cantare, come il salmo responsoriale ci invita, il canto della Vergine Madre che ha esultato di gioia in Dio, suo salvatore, il potente che aveva operato in lei cose grandi. Noi tutti, riconoscendo le grandi opere di salvezza operate da Dio per noi, possiamo con lei esaltare la misericordia del Signore che si estende su tutte le generazioni, fino alla fine dei tempi, per coloro che lo temono e si affidano alla sua azione salvifica.
Per questo anche s. Paolo, nella prima lettera ai tessalonicesi, rivolgendosi a noi che «abbiamo... la speranza della salvezza» (5,8), ci esorta a essere sempre lieti, a pregare senza interruzione e a rendere grazie sempre, in ogni cosa, «perché questa è la volontà di Dio per tutti voi in Cristo Gesù» (v. 18). In questo tempo così breve, che ancora ci separa da lui e dal suo glorioso e definitivo ritorno, non possiamo che vivere nella gioia, nella preghiera e nel rendimento di grazie, perché già siamo salvati nella speranza, rinnovando continuamente in noi il dono dello Spirito che nel Signore Gesù ci è dato «senza misura» (Gv 3,34). E allora «il Dio della pace», il «fedele», che non può venire meno alle sue promesse, sarà lui stesso a condurci alla salvezza, santificandoci «in modo perfetto», perché tutto il nostro essere sia custodito «irreprensibile per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo» (v. 23).
Mentre, animati da questa speranza, la nostra attesa si fa più vigile e attenta, sentiamo riecheggiare, nell’evangelo di Giovanni che oggi ci è proposto, la «voce» del Battista che agli uomini di tutti i tempi, sfiduciati e increduli, annuncia: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (v. 26). «Colui che toglie il peccato del mondo» (Gv. 1, 29), colui che redime e riscatta, il solo che libera da ogni schiavitù, il Salvatore annunziato è già in mezzo a noi: sconosciuto e non accolto, ma tuttavia in mezzo a noi; divenuto uno di noi, per condividere la nostra vita, per strapparci alla morte e farci partecipi della sua eternità. L’antico annuncio di salvezza sta per compiersi pienamente: il Signore Gesù si manifesterà presto nella sua gloria.
Esaminiamo il brano
vv. 6-8 Questi versetti si differenziano dagli altri che si susseguono misurati e ritmici e sembrano interrompere il tema tenebre-luce che si sta sviluppando: si potrebbero tralasciare e il pensiero scorrerebbe ugualmente. Per questo e per altri motivi è ragionevole supporre che si tratti di un inserimento posteriore.
Questo inserimento è compreso dagli esegeti come una pausa voluta, una spiegazione indispensabile a chiarire di quale rivelazione si stia parlando.
Giovanni vuol dirci subito che la manifestazione del Logos di cui sta parlando è avvenuta nello storico Gesù.
Il Battista è presentato come una persona nota ai lettori; a differenza dei sinottici, l’evangelo di Giovanni non contiene alcun elemento biografico su di lui: la sola cosa che lo interessa è la testimonianza resa a Gesù.
Infatti, mentre nei sinottici (cfr. Dom. scorsa) Giovanni è il precursore, qui la sua funzione si limita a quella di testimone e la sua testimonianza è possibile e convalidata dal fatto che è mandato da Dio.
«non era la luce»: il v. 8 precisa che Giovanni non era la luce, quasi a voler ribattere contro coloro che gli attribuivano tale posizione, che invece spetta al Cristo; ma è interessante osservare che, respingendo questa interpretazione della figura del Battista, l’evangelo non ne nega l’autenticità religiosa, la grandezza e l’importanza, lo considera anzi come mandato da Dio ma rivela la caratteristica fondamentale del Battista: la testimonianza non come qualità personale ma come il riferirsi a qualcun altro in tutto ciò che dice e fa.
«dare testimonianza»: pur essendo al tempo del 4° evangelo le persecuzioni, non è martire colui che muore, ma colui che fa della sua vita un continuo rimando ad un altro più grande, che deve crescere (cfr. Gv 3,30). Come si vedrà ai vv. 19ss la testimonianza non è assimilabile alla coerenza di una persona eticamente corretta né è la convalida di un fatto o di una parola ritenuta come vera e neanche riconducibile al solo mettere a rischio la vita per confessare la propria fede in Cristo. Rendere testimonianza è anzitutto non parlare di sé, ma di un altro che si è scoperto più grande e più importante. In altre parole significa accettare di essere al secondo posto perché si sa chi tiene il primo posto. Non è un concetto facile da comprendere e soprattutto da vivere oggi in una società caratterizzata dall’esibizionismo e dal mettere in mostra se stessi e le proprie qualità. Essere discepolo significa dunque imparare a vivere la propria umanità nella comunione di molti che si riconoscono come interlocutori affidabili e solidali, perché tutti “dopo” l’unico che è il primo.
La grandezza di Giovanni è consacrata da Gesù non per le sue opere o la sua ascesi, ma per la sua capacità di riconoscere il Cristo presente e di indicarlo come il più importante, perché è l’unico che toglie il peccato del mondo (cfr. Gv 1,29).
Nella I lett. il profeta è presentato non come colui che ha visioni e per questo nei primi versetti ci si accorge che non ha grandi cose da rivelare, ma come colui che ha il compito di rendere visibile la “Parola di Dio” attraverso le sue azioni di giustizia che egli è chiamato a compiere verso ogni uomo. Non misteri o codici cifrati ma si tratta di rendere attuale la Parola di Dio che esige la totalità della vita del profeta.
v. 19 Ha inizio il confronto drammatico e giuridico fra Giovanni e e i giudei, visti già qui negativamente.
«i giudei»: vanno identificati con i capi, siano essi farisei o sacerdoti e come avviene in tutto l’evangelo di Giovanni, sono i nemici di Gesù.
Nei sinottici non si fa alcuna menzione di una simile ambasciata al Battista ma è presente l’opposizione che esisteva tra Giovanni e i dirigenti giudaici (cfr. Mt 3,7).
Qui ci è presentato, a modo di esempio programmatico, quello che avverrà in tutta la vita di Gesù e in tutta la vita della Chiesa: la lotta incessante tra la fede cristiana e il mondo rappresentato, in questo caso dal giudaismo incredulo.
La delegazione inviata è composta di sacerdoti e leviti, indicazione rara nel NT, che si ritrova solo in Lc 10,32 e At 4,36; queste classi che rappresentano coloro che per legge potevano prendere decisioni di carattere religioso, sottolineano la natura ufficiale dell’ambasciata.
«Chi sei tu»: questa è la domanda che fu posta a Gesù in 8,25 e 21,12. Siccome «Io sono» in Giovanni ha una particolare rilevanza in relazione all’identificazione che Cristo fa di se stesso non è un caso che nei versetti seguenti il Battista usi per ben due volte «Io non sono».
vv. 20-22 Abbiamo qui tre risposte negative, sempre più decise e ferme.
«Confessò»: Confessare nel NT si riferisce di solito ad affermazioni concernenti il Cristo; la ripetizione insolita vuol sottolineare la solenne proclamazione ufficiale del Battista: «non sono il Cristo»: La domanda suppone che i giudei pensassero che egli fosse il Messia e riflette anche l’opinione dei battisti al tempo dell’evangelista.
«Elia»: era aspettato secondo la profezia di Ml 3,1.23, molto viva al tempo di Gesù. Mentre la tradizione cristiana, recepita in Mc 9,13 e Mt 17,12 identifica il Battista con Elia, Giovanni invece, con Luca, lo nega, forse perché riflette un ambiente polemico verso i battisti. Il Battista non era, ovviamente, Elia letteralmente ritornato in vita, per cui la risposta che Giovanni dà è giusta; tuttavia per alcuni autori vi è un significato più profondo: leggendo Mt 11,1-6 è possibile che lo stesso Battista non si fosse reso conto di tutta la grandiosità del carattere messianico di Cristo, di conseguenza egli era meno competente di Gesù nel valutare la sua propria posizione nei confronti di Cristo.
«sei il profeta?»: il profeta è quello di cui parla Dt 18,15.18 e che era aspettato anche nell’ambiente di Qumran, contemporaneo al NT e con cui Gesù viene identificato (cfr. 6,14; 7,40; At 3,22a). Alcuni lo immaginavano una specie di Mose redivivo. Con queste tre risposte Giovanni Battista nega di essere il salvatore escatologico aspettato.
v. 23 Giovanni definisce se stesso con un testo del Deuteroisaia (cfr. Dom. scorsa).
v. 24 Il testo fa un po’ di difficoltà: i farisei non avevano l’autorità di inviare una delegazione ufficiale. Qualche esegeta interpreta: «E gli inviati erano dei farisei» che tuttavia contrasta con il v. 19 dove leggiamo che la delegazione mandata è composta da sacerdoti e leviti, che ordinariamente appartenevano ai sadducei e non ai farisei. Sembra probabile che qui il redattore dell’evangelo abbia riunito vari interrogativi posti al Battista (cfr. Lc 3,7-18).
v. 25 II battesimo di Giovanni era considerato un atto escatologico, che dava inizio alla salvezza definitiva e quindi non avrebbe potuto essere compiuto che dal salvatore escatologico. Avendo il Battista negato di esserlo, la domanda diventa logica.
vv. 26-27 Ancora una volta emerge la radicale disposizione di Giovanni a svuotare se stesso e la propria attività affinchè il Messia abbia più spazio possibile nella sua esistenza ed attività. Nella risposta il Battista declassa il suo battesimo ad un rito di purificazione; non lo confronta però col battesimo «nello Spirito» (cfr. v. 33), come ci aspetteremmo, ma con la persona di uno più degno di lui, che è già in mezzo al popolo ma che non è stato ancora rivelato.
Per indicare la sua inferiorità nei confronti di Cristo (che è lo Sposo) il Battista usa la stessa espressione che ricorre in Mc 1,7 e parall. «non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (cfr. Dom. scorsa).
v. 28 «Betania»: non si tratta della Betania di Lazzaro (11,1-8), ma un’altra al di là del Giordano, la cui localizzazione rimane archeologicamente ancora incerta.
La voce del Battista che per prima ha indicato al mondo «l’agnello di Dio» (Gv 1,29) che appariva agli uomini, resa potente da Dio stesso, ha risonato e non cesserà di risonare, fino alla fine dei secoli, nei deserti e nelle solitudini che l’egoismo e l’incredulità dell’uomo continuamente creano, per ripetere a tutti i popoli l’annuncio della salvezza definitiva che è venuta nel mondo. Questo annuncio ha potuto percorrere i secoli perché fondato sull’umiltà e sulla verità. Il Battista infatti non ha voluto usurpare una dignità che non gli spettava, ma ha voluto farsi piccolo agli occhi degli uomini perché il Cristo potesse essere manifestato (cf. Gv 3,30). Perciò a coloro che lo interrogavano per sapere chi fosse, egli rispose definendosi solo come una «voce», cioè colui la cui vita non aveva altro valore né altro significato se non quello di annunziare e preparare la via del Signore. Tutto il mistero della sua vita è nella missione a cui Dio l’ha inviato, è nell’umiltà estrema con cui egli è scomparso di fronte a colui che era il più grande, al quale non si sentiva «degno di sciogliere il legaccio dei calzari» (v. 27). Per questo Dio gli ha concesso il dono del martirio, perché potesse essere fino in fondo il testimone della luce, il precursore che prepara così fedelmente la via al Signore, da anticiparne anche la morte ingloriosa. Egli darà così la suprema testimonianza alla verità, soffrendo la prigionia e la morte. Tra i due abissi di oscurità che coprono tutta la sua vita, quello del deserto e quello della prigione, rimane questo breve spazio di tempo in cui ha compiuto la sua eccezionale missione: essere la «voce» che annunzia Gesù e che lo mostra al mondo.
Questa missione egli la compie anche oggi per noi. «Io penso — scrive Origene — che il mistero di Giovanni si attua tuttora nel mondo. Per chiunque sia prossimo alla fede in Cristo Gesù, occorre che prima nell’anima sua giungano lo spirito e la virtù di Giovanni, e preparino al Signore un popolo perfetto, appianino le vie tra le asperità del cuore e raddrizzino i sentieri. Lo spirito e la virtù di Giovanni precedono tuttora l’avvento di Dio salvatore».
Possa dunque l’intercessione del Battista aprire il nostro cuore e il cuore degli uomini di tutti i tempi ad accogliere il Signore che viene, perché nel giorno della sua manifestazione gloriosa possiamo davvero essere trovati «irreprensibili» e possiamo fin d’ora ripetere, come le prime generazioni cristiane, l’invocazione della fede piena di amore: «Amen, vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).
Una piccola nota sulle preghiere di colletta:
Colletta
Guarda, o Padre, il tuo popolo
che attende con fede il Natale del Signore,
e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza
il grande mistero della salvezza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
La colletta antica è purtroppo molto generica, chiedendo che l’attesa fedele della Venuta imminente del Signore sia gratificata dalla celebrazione festiva che sta in prospettiva, alludendo al Natale e non “all’oggi celebrativo” che comporta sempre la “Venuta”.
Colletta B:
O Dio, Padre degli umili e dei poveri,
che chiami tutti gli uomini
a condividere la pace e la gloria del tuo regno,
mostraci la tua benevolenza
e donaci un cuore puro e generoso,
per preparare la via al Salvatore che viene.
Egli è Dio...
La colletta B è invece più aperta ad esprimere la ricchezza delle Letture poiché “oggi” non ieri, che non esiste più, non domani, che non si sa se vi sarà, si celebra Cristo Risorto con il suo Mistero e propriamente i fedeli non attendono nessuna festa per celebrarlo, per così dire, più intensamente di questa Domenica.
Martedì 11 dicembre 2017
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.catechistaduepuntozero.it
«DELL’AGNELLO DI DIO»
III Dom. di Avvento B
Gv 1,6-8.19-28; Is 61,1-2a.10-11 (leggi 61,1-11); Cant. Lc 1; 1Ts 5,16-24 (leggi 5,16-28)
Se tutto l’avvento è tempo di gioia nell’attesa del Signore che viene, lo è particolarmente la terza
domenica, così prossima ormai alla manifestazione del Signore da farci esultare di gioia incontenibile perché sempre più si avvicina la nostra liberazione e, come dice l’evangelo, colui che deve venire è già in mezzo a noi.
Da secoli la profezia lo aveva annunziato come l’unto del Signore, mandato a portare salvezza e libertà e ad annunziare la misericordia di Dio. Realizzata ormai questa promessa, s. Paolo, proiettando la nostra attenzione verso la fine del tempo, ci vuole santi, integri e irreprensibili nell’attesa del ritorno del Signore Gesù nella gloria. Iddio stesso opererà in noi questa santificazione, che non può essere opera nostra, in virtù del sangue di Cristo che ci purifica e santifica, e custodirà tutto il nostro essere irreprensibile per il giorno di Cristo, perché possiamo aver parte con lui alla gloria che allora sarà manifestata.
Antifona d’Ingresso Fil 4,4.5
Rallegratevi sempre nel Signore:
ve lo ripeto, rallegratevi,
il Signore è vicino.
Questa Domenica (cfr. colletta) è tradizionalmente dedicata alla gioia nella maggior parte delle antiche liturgie; è la domenica di Gaudete. Rallegratevi!, caratteristica anche per i paramenti sacerdotali «rosacei» che possono sostituire il tradizionale colore viola.
L’Antifona d’ingresso che abbiamo letto è tratta dal capitolo finale dell’epistola ai Filippesi (4,4.5b). La comunità di Filippi fu sempre una delle comunità predilette dall’apostolo Paolo che proprio in 4,1 chiama questi «fratelli miei, diletti e tanto desiderati, gioia mia e corona mia».
Il vocabolario della gioia proviene dalla Resurrezione, al sepolcro infatti le donne fedeli sono esortate a gioire (Mt 28,8) e dal dono conseguente dello Spirito Santo (Gal 5,22: «il Frutto dello Spirito è carità, gioia, pace»). Attraverso e con Paolo la Chiesa esorta a gioire ma nel “Signore Risorto”, sempre. Invito poi ripetuto con il motivo unico e sufficiente: «Il Signore è (sta) vicino» ossia si è fatto presente per i suoi che lo attendono e che da Lui riceveranno lo Spirito Santo. Il testo è certamente finalizzato al Natale prossimo tuttavia la densità escatologica supera ed è indipendente da una festività.
Canto all’Evangelo Is 61,1
Alleluia, alleluia.
Lo Spirito del Signore è sopra di me,
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annunzio.
Alleluia.
Questo celebre testo facente parte della I lett. di oggi, citato anche in Lc 4,18-19 appartiene al Terzo Isaia (cc. 56-66) e annuncia che lo Spirito del Signore riposerà sul Re messianico e lo “caratterizzerà” con l’unzione consacratoria per la sua divina missione: la redenzione universale che consiste anzitutto nell’annuncio di Grazia ai poveri, la remissione dei peccati, il Giubileo biblico, il Regno di Dio in mezzo agli uomini.
Antifona alla Comunione Is 35,4
Dite agli sfiduciati: «Coraggio non abbiate timore:
ecco, il nostro Dio viene a salvarci».
In un momento difficile come l’invasione nemica il Signore promette al popolo suo la sua Venuta in mezzo ad una creazione trasformata e fiorente come un nuovo Eden. Per questa venuta inattesa il popolo stesso sarà trasformato, da pusillanime sarà reso audace, i malformati saranno guariti. “Oggi qui” il Signore viene con il medesimo Spirito a noi. Anzitutto con la sua Parola guaritrice e resuscitante dalla morte del peccato e poi con la Mensa dei Misteri celebrati che donano lo Spirito Santo. Così fortificati e divinizzati possiamo degnamente andare incontro al Signore che viene.
Anche in questa domenica la figura del Battista è al centro della scena evangelica ma come colui che mostra e riporta tutto e tutti al “più forte”, il Messia, lo Sposo della sposa.
Il brano, tratto dal c. 1 dell’evangelo di Giovanni unisce due testi riguardanti il precursore di Gesù:
a) primi versetti di questa lettura sono presi dal prologo del quarto evangelo; la missione del Battista è definita come testimonianza resa alla luce; Giovanni rivela al mondo la presenza del Verbo, «luce vera che illumina ogni uomo» (v. 9);
b) la seconda parte del brano riferisce la testimonianza resa da Giovanni alle autorità religiose dei giudei, che erano venuti per conoscere meglio la sua posizione; Giovanni afferma di non essere nè Elia redivivo, nè il profeta predetto da Mose (Dt 18,18), nè il messia stesso; egli vuole essere solo una voce e aiutare gli uomini ben disposti a leggere nei segni dei tempi. La testimonianza storica del Battista viene divisa simbolicamente dall’evangelista in tre giorni1 (non hanno valore cronologico), che corrispondono a tre tappe:
1) alla delegazione dei sacerdoti e leviti dà sul suo conto una triplice testimonianza negativa (vv. 19-21), che orienta però già verso quella positiva (vv. 22-27; cfr 1,8);
2) al popolo d’Israele, giorno dopo, offre una testimonianza positiva su Gesù (vv. 29-34), che corrisponde a 1,15;
3) il terzo giorno, infine, ripete la stessa testimonianza, rivolta più specificatamente ai suoi discepoli, che oriente all’incontro con Gesù e quindi alla fede (vv. 35-37).
A tutto questo segue poi l’autorivelazione di Gesù ai primi discepoli, che entusiasti lo comunicano subito ad altri (vv. 35-51). Non possiamo non notare come la parola testimone e testimonianza emerge con insistenza e vigore nella pericope evangelica. In greco il verbo usato è marturein "testimoniare’’, dal quale deriva il nostro "martire". La testimonianza si manifesta soprattutto con la parola: non per nulla il Battista si definisce «voce di uno che grida».
Nell’antico Oriente, diversamente da quanto avviene nelle nostre culture (cfr. con oggi!), la parola era sacra ed efficace.
È per questo che il Decalogo mette tra i suoi comandamenti il «non pronunziare falsa testimonianza», soprattutto nei processi.
In caso di lapidazione, i testimoni dovevano essere i primi esecutori della sentenza di cui avevano piena responsabilità attraverso le parole della loro testimonianza (Dt 17,6-7).
È per questo che nei Salmi e nei Proverbi si protesta ripetutamente contro la falsa testimonianza, causa di vita e di morte. Gli stessi apostoli di Cristo si presentavano come testimoni della sua risurrezione: «Mi sarete testimoni a Gerusalemme, in tutta la Giudea e la Samaria e sino agli estremi confini della terra» (At 1,8).
Anche i cristiani saranno chiamati ad essere «testimoni fedeli» fino alla morte, come Stefano o Antipa, cittadino di Pergamo, ricordato nel libro dell’Apocalisse proprio col titolo di “testimone’’ (Ap 2,13). Anzi, in quest’opera Gesù stesso è chiamato «testimone fedele e verace» (Ap 3,14) perché egli rende testimonianza con le parole e la vita alla rivelazione che il Padre gli ha affidato.
I lettura: Is 61,1-11
Nella prima lettura, tolta ancora da Isaia, ci è presentato l’unto del Signore, investito del suo Spirito, inviato per annunciare la buona novella ai poveri, per curare i contriti di cuore, per portare a tutti libertà e consolazione; per proclamare che è giunto il momento tanto atteso e invocato in cui la salvezza di Dio sta per manifestarsi. Perciò i versetti 10 e 11 sono veramente un grido di esultanza e di letizia perché Gerusalemme può ormai, come la sposa, deporre la veste di dolore per adornarsi dei suoi gioielli: il Signore Iddio, lo sposo, l’ha rivestita infatti di salvezza, l’ha avvolta nel manto della giustizia e la farà rifiorire come un giardino, come la terra che schiude i nuovi germogli.
Il blocco chiamato Primo Isaia (Is 1,1 - 39,8) risale al sec. 8° a. C. Esso contiene la profezia sullo Spirito del Signore dai 7 Doni, promesso per i tempi ultimi sul Re, il Germoglio di David, e riposante su lui per conferirgli la potenza per stabilire il Regno divino di pace e la condizione paradisiaca di armonia del mondo (Is 11,1-10).
Nel Terzo Isaia (Is 56,1 - 66,24), raccolta profetica forse del sec. 6° a. C, l'antica profezia è ripresa ed esplicitata. Il medesimo Spirito del Signore viene sul Re, che è anche Profeta e Sacerdote dell'alleanza divina (Is 61,1-10). Dalla prima prospettiva adesso si insiste sulle opere del Re Profeta e Sacerdote, soprattutto all'interno del popolo di esiliati tornati in patria, ma scossi e demoralizzati sul piano religioso.
Il testo di oggi si apre quindi con la dichiarazione programmatica del Re Profeta e Sacerdote: lo Spirito del Signore sta ormai su Lui. Nell’A. T. lo Spirito del Signore è una personificazione decisiva della Potenza del Signore e si può definire come il Signore in quanto nella sua azione tra gli uomini è percepito mentre si comunica a essi per lo spazio della loro missione. Il Personaggio prosegue descrivendo la missione di cui è incaricato. Lo Spirito del Signore dimora su lui, e anzitutto lo "unse" per la missione. L'unzione è conferita nell'A. T. ai sacerdoti e ai re. Essa consiste nella consacrazione o presa di possesso del «Messia, l'Unto», secondo l'ebraico mašiah, ungere, da cui Mašiah, in aramaico Mšihah e in greco chriô, ungere, da cui Christós. Così l'Unto del Signore è come "sigillato". Il "segno" autentifica la missione ricevuta, e rende legittimo e operante l'invio a compierla.
La missione regale profetica e sacerdotale è descritta di seguito. Si tratta delle principali opere messianiche, ossia regali profetiche e sacerdotali con cui è ricostituito il popolo del Signore. La prima opera è «evangelizzare i poveri». "Evangelo", "evangelizzatore", "evangelizzare" sono stati spiegati nel contesto dell'Evangelo della Domenica II d'Avvento, alla quale si rimanda. Qui invece si deve far risaltare che il Signore conferisce ai poveri il diritto di ricevere per primi l'Evangelo divino. L'Evangelo porta il Regno, che è la Pace, i Beni divini e la salvezza: doni che precisamente spettano per primi ai poveri.
In secondo luogo, il Re Profeta e Sacerdote Messia deve curare chi ha il cuore infranto dalle tribolazioni. Poi deve liberare i carcerati e i detenuti nella prigionia. Così dai poveri, tribolati, carcerati e prigionieri, le categorie infime dell'umanità, intorno all'Unto del Signore è riformato il popolo messianico del Signore (v. 1).
A questo popolo il Messia si mostra nell'azione propriamente sacerdotale: proclamare l'Anno accetto del Signore, ossia il Giubileo della grande remissione di ogni debito e di ogni peccato, il Giubileo del popolo liberato e libero (v. 2a). Spetta infatti ai sacerdoti, il Giorno dell'Espiazione, al 10 del mese di Tìšrî, di proclamare il Giubileo come l'anno della solenne purificazione nazionale (Lv 25,9), che investe l'intera proprietà del Signore, ossia gli uomini liberi con le loro famiglie, i servi, gli animali, la terra (Lv 25,8-22).
I successivi vv. 10-11 sono un vero Salmo, che, come si disse altre volte, si trova fuori del Salterio. Il popolo ricolmo di tanta grazia erompe in un inno gioioso di azione di grazie. Questo esordisce con il desiderio di gioire nel Signore, che è motivato dal dono nuziale ricevuto. Questo popolo è una vera persona, è adornato come un sposo pronto alle nozze, e le sue vesti sono la salvezza e la misericordia. Ed esso si trova nella situazione singolare per cui il Signore lo designa come sposo e lo ha preparato alle nozze con la corona, che è il lungo nastro prezioso che cinge la testa e ricade dietro e insieme lo designa come la sposa, che prepara adornandola con l'abbigliamento sfarzoso e i preziosi monili femminili (v. 10).
Nello sposo e nella sposa, ossia nel popolo messianico ormai creato, nell'immagine della terra che schiude i suoi germogli e dell'orto seminato che comincia a germinare, il Signore concederà la sua teofania prodigiosa, farà sorgere e germogliare la sua Misericordia e la Lode di Lui, e questo vedranno le nazioni della terra (v. 11).
Il Salmo responsoriale: Lc 1,46-48.49-50.53-54 col versetto responsorio: «La mia anima esulta nel mio Dio » che canta con esultanza il Dio dell'alleanza, in accordo con il Magnificat, è Is 61,10b, visto sopra.
Maria ha saputo dall'Angelo che la sua parente Elisabetta è gravida da 6 mesi (Lc 1,36) e con grande carità corre a visitarla e a salutarla (Lc 1,39-40). Appena la vede, come risposta Elisabetta ne fa l'elogio entusiasta (Lc 1,41-45) e Maria erompe nella preghiera spontanea che è il Magnificat (Lc 1,46-55), un vero Inno di lode e d'azione di grazie al Signore. Esso ha lo stile poetico ebraico, risente molto dei Salmi, ha diversi contatti con la «preghiera di Anna» (1 Sam 2,1-10). Come l'intera «narrazione dell'Infanzia» (Lc 1-2), si risente qui il greco dei LXX. È inutile entrare nella questione oziosa se abbia composto il "suo" canto Maria stessa, e contestare i negatori aprioristi. Mentre si deve riconoscere a priori che molte donne sono poetesse e nell'antichità alcune di livello mai raggiunto; a diverse Ebree nell'A. T. sono attribuiti canti poetici, e così a Deborah, ad Anna e a Giuditta. Solo criteri chiamati storici critici e letterari a tavolino, se sono un riflesso di mancanza di fede, negano che l'Ebrea più visitata dalla Grazia possa avere cantato a «Dio suo Salvatore».
Questa Domenica, contro la regola primordiale e formale per cui la Parola divina si accoglie con i Salmi, il Magnificat è scelto come Salmo responsorio (oltre tutto è anche amputato), e gli è annesso il Versetto responsorio tratto dalla Profezia letta prima.
Maria esordisce nella lode al Signore e nell'esultanza al Dio dell'alleanza (connotata dal possessivo "mio"), riconosciuto come il Salvatore. Maria si riconosce come la prima dei salvati, anche se in forma incomparabile (v. 46). E di questo dà la motivazione, che consiste nel contemplare il Disegno divino, che sempre sceglie l'umiltà per confondere la superbia umana. Infatti il Signore per adempiere i suoi propositi si è degnato di riguardare solo lei, quale sua umile e finora nascosta creatura, per fame lo strumento eletto, la «schiava di Lui» (v. 47a), come già si era professata davanti all'Angelo annunciante (v. 38). L'umiltà se è autentica resta sempre tale, anche nella lucida contemplazione del Signore operante, che porta a comprendere come una tale "scelta" ponga ormai Maria in una situazione singolare. L'Angelo del Signore l'aveva salutata anche con parole di annuncio rivelatorio:
Gioisci, Piena di grazia!
Il Signore con te.
Benedetta tu tra le donne! (Lc 1,28), mentre Elisabetta l'aveva salutata con un elogio straordinario, anch'esso rivelatorio nello Spirito Santo (Lc 1,41):
Benedetta tu tra le donne,
e benedetto il Frutto del tuo ventre.
E da dove a me questo, che venne la Madre del Signore fino a me?
Ecco, infatti, come vi fu la voce del tuo saluto alle mie orecchie,
balzò di gioia nell'esultanza il bambino nel mio ventre.
E beata colei che ebbe fede, poiché vi sarà il compimento
di quanto fu parlato a lei da parte del Signore! (Lc 1,42-45).
Piena di grazia, la prima credente, con la Presenza del Signore, il Figlio suo benedetto, diventata «la Madre del Signore», la comunicatrice dello Spirito Santo, la Benedetta a preferenza di ogni altra pur santa donna, la Beata: Maria è consapevole che per tutto questo tutte le generazioni dei fedeli, ossia lungo la storia fino alla fine del mondo, la "beatificheranno" (verbo makarízô), ossia la riconosceranno e l'acclameranno come la Beata, titolo ancora in uso, makária o mákaira in greco, tûba in aramaico, beata in latino (v. 48b).
Anche di questo è ripetuta la motivazione, che richiama il v. 48a. Il Signore è l'Onnipotente che opera sempre fatti grandiosi, tuttavia il maggiore lo operò proprio in Maria. Infatti Dio nasce dalla Vergine che diventa Madre e resta Semprevergine (v. 49). Egli mise in opera la sua Misericordia eterna, che passa e tocca le generazioni, da Abramo alla sua discendenza, e si ferma in specie sui suoi "tementi", gli umili e devoti che sperano in Lui e desiderano sempre anzitutto fare la sua Volontà divina e santa (v. 50).
In specie il Signore usa misericordia con i poveri di spirito e di beni e li sazia di beni, mentre alla fine spoglia i ricchi e stolti (v. 53). In questo finalmente ha cominciato l'ultima parte del suo Disegno verso Israele, il popolo del suo servizio, adesso facendogli giungere la divina Misericordia attraverso Maria la Madre Semprevergine (v. 54).
La I lettura e l’evangelo formano un’unica pericope letteraria con identico contenuto e riflettono l’identica situazione storica, è rivolto molto probabilmente dal profeta agli esiliati di Israele, che accolgono esultanti l’annuncio della loro prossima liberazione che la mano potente di Dio opererà.
L’evangelista Luca ci racconta che Gesù, all’inizio della sua vita pubblica, applicò a se stesso queste parole del profeta; e con esse, Cristo inaugurò la nuova era messianica. La presenza dello Spirito sopra di lui nel battesimo fu come la consacrazione all’opera salvifica alla quale era destinato.
Però, nel secolo VI a. C. le prospettive immediate di questo oracolo erano molto lontane dal futuro Messia. Sebbene fossero rivolte a lui, avevano come obiettivo presente altre realtà tipo. Chi pronunziava queste parole era senza dubbio un discepolo di Isaia, un profeta carismatico, come testimonia la presenza dello spirito in lui. Questa presenza lo trasformava, parlando metaforicamente, in un unto come i re e i sacerdoti, inviato per una missione speciale che comincia immediatamente a specificare.
Tutte le sue frasi sembrano proverbi della teologia tradizionale. È un chiaro esempio del modo con cui le stesse immagini vanno acquistando contenuti diversi a misura che progrediva la rivelazione. La liberazione dei prigionieri e dei carcerati che, nel secondo Isaia, faceva pensare a quelli che erano prigionieri in Babilonia, acquista qui un ampio senso di liberazione dalle difficoltà e dalle ingiustizie della vita dopo l’esilio. Liberazione divina in netto contrasto con le varie schiavitù degli imprevisti della vita; libertà in Cristo dei figli di Dio.
Il giorno della vendetta e l’anno di misericordia — dove abbondò il peccato, sovrabbondò la grazia — ricordano due date chiave nella storia del popolo giudaico: quella della prigionia nell’anno 586 e quella della liberazione nell’anno 538; ma il profeta non si ferma a queste. Non è giunta la felicità; ed egli, rivolgendo lo sguardo al futuro ideale, dà alle sue espressioni un carattere nettamente escatologico annunziando un tempo nel quale i segni di tristezza e di afflizione saranno trasformati in profumo e in corona di felicità e di gloria. Tutti torneranno a Gerusalemme. Chi poteva ignorarlo dopo aver ascoltato tutta la tradizione di Isaia? E tuttavia, il nostro profeta, per stabilire il contrasto fra i tempi passati e quelli futuri, fra quello che Giuda è stato e quello che sarà, cade in un nazionalismo trionfalistico al quale non siamo abituati. Sulle macerie delle invasioni assira e babilonese gli antichi vincitori torneranno come servi per ricostruire essi stessi quello che avevano distrutto. Quei popoli giganti diverranno ora in Giuda quello che i giudei erano stati durante l’esilio: contadini, pastori e garzoni.
Essi, i giudei, dovevano essere l’elite della società, i sacerdoti dell’Altissimo, i ministri del Dio unico. La fame che avevano sofferto doveva trasformarsi in cibi squisiti scelti fra tutte le nazioni. Sarebbero stati un popolo sacerdotale.
Sappiamo che tutto questo si è adempiuto nella nuova alleanza che era stata loro promessa quando fu rotta definitivamente quella sinaitica; ma si adempì in un modo del tutto diverso da quello che essi immaginavano. Le loro aspirazioni di rivincita furono ridotte a pallide ombre da questa grandiosa realtà dei tempi messianici; i loro sogni nazionalistici furono trasformati in universalismo cattolico.
Yahveh promise loro il doppio di quanto avevano sofferto. Era l’equivalente dell’eredità del primogenito: il doppio di quanto toccava ai suoi fratelli. Giuda era per Yahveh il primogenito. Gesù, il vero primogenito del Padre, andrà molto più avanti promettendo il cento per uno in questa vita, e poi la gioia del possesso eterno di Dio. Nessuno lo crederebbe, se Dio non l’avesse rivelato. A poco a poco, Dio li andava preparando alla grande rivelazione nel Figlio.
Come non riconoscere, in questa parola del profeta agli esuli di Israele, la voce stessa di Dio che parla a noi tutti, ormai riscattati da una schiavitù ben più dura e pesante dell’antica schiavitù d’Israele? Noi redenti dal sangue di Cristo dalla schiavitù del peccato e del demonio, già incamminati verso la nuova ed eterna Gerusalemme, ci riconosciamo facilmente in quegli esuli pieni di gioia per la libertà annunciata e per la misericordia loro concessa.
Ben a ragione possiamo allora cantare, come il salmo responsoriale ci invita, il canto della Vergine Madre che ha esultato di gioia in Dio, suo salvatore, il potente che aveva operato in lei cose grandi. Noi tutti, riconoscendo le grandi opere di salvezza operate da Dio per noi, possiamo con lei esaltare la misericordia del Signore che si estende su tutte le generazioni, fino alla fine dei tempi, per coloro che lo temono e si affidano alla sua azione salvifica.
Per questo anche s. Paolo, nella prima lettera ai tessalonicesi, rivolgendosi a noi che «abbiamo... la speranza della salvezza» (5,8), ci esorta a essere sempre lieti, a pregare senza interruzione e a rendere grazie sempre, in ogni cosa, «perché questa è la volontà di Dio per tutti voi in Cristo Gesù» (v. 18). In questo tempo così breve, che ancora ci separa da lui e dal suo glorioso e definitivo ritorno, non possiamo che vivere nella gioia, nella preghiera e nel rendimento di grazie, perché già siamo salvati nella speranza, rinnovando continuamente in noi il dono dello Spirito che nel Signore Gesù ci è dato «senza misura» (Gv 3,34). E allora «il Dio della pace», il «fedele», che non può venire meno alle sue promesse, sarà lui stesso a condurci alla salvezza, santificandoci «in modo perfetto», perché tutto il nostro essere sia custodito «irreprensibile per la parusia del Signore nostro Gesù Cristo» (v. 23).
Mentre, animati da questa speranza, la nostra attesa si fa più vigile e attenta, sentiamo riecheggiare, nell’evangelo di Giovanni che oggi ci è proposto, la «voce» del Battista che agli uomini di tutti i tempi, sfiduciati e increduli, annuncia: «In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete» (v. 26). «Colui che toglie il peccato del mondo» (Gv. 1, 29), colui che redime e riscatta, il solo che libera da ogni schiavitù, il Salvatore annunziato è già in mezzo a noi: sconosciuto e non accolto, ma tuttavia in mezzo a noi; divenuto uno di noi, per condividere la nostra vita, per strapparci alla morte e farci partecipi della sua eternità. L’antico annuncio di salvezza sta per compiersi pienamente: il Signore Gesù si manifesterà presto nella sua gloria.
Esaminiamo il brano
vv. 6-8 Questi versetti si differenziano dagli altri che si susseguono misurati e ritmici e sembrano interrompere il tema tenebre-luce che si sta sviluppando: si potrebbero tralasciare e il pensiero scorrerebbe ugualmente. Per questo e per altri motivi è ragionevole supporre che si tratti di un inserimento posteriore.
Questo inserimento è compreso dagli esegeti come una pausa voluta, una spiegazione indispensabile a chiarire di quale rivelazione si stia parlando.
Giovanni vuol dirci subito che la manifestazione del Logos di cui sta parlando è avvenuta nello storico Gesù.
Il Battista è presentato come una persona nota ai lettori; a differenza dei sinottici, l’evangelo di Giovanni non contiene alcun elemento biografico su di lui: la sola cosa che lo interessa è la testimonianza resa a Gesù.
Infatti, mentre nei sinottici (cfr. Dom. scorsa) Giovanni è il precursore, qui la sua funzione si limita a quella di testimone e la sua testimonianza è possibile e convalidata dal fatto che è mandato da Dio.
«non era la luce»: il v. 8 precisa che Giovanni non era la luce, quasi a voler ribattere contro coloro che gli attribuivano tale posizione, che invece spetta al Cristo; ma è interessante osservare che, respingendo questa interpretazione della figura del Battista, l’evangelo non ne nega l’autenticità religiosa, la grandezza e l’importanza, lo considera anzi come mandato da Dio ma rivela la caratteristica fondamentale del Battista: la testimonianza non come qualità personale ma come il riferirsi a qualcun altro in tutto ciò che dice e fa.
«dare testimonianza»: pur essendo al tempo del 4° evangelo le persecuzioni, non è martire colui che muore, ma colui che fa della sua vita un continuo rimando ad un altro più grande, che deve crescere (cfr. Gv 3,30). Come si vedrà ai vv. 19ss la testimonianza non è assimilabile alla coerenza di una persona eticamente corretta né è la convalida di un fatto o di una parola ritenuta come vera e neanche riconducibile al solo mettere a rischio la vita per confessare la propria fede in Cristo. Rendere testimonianza è anzitutto non parlare di sé, ma di un altro che si è scoperto più grande e più importante. In altre parole significa accettare di essere al secondo posto perché si sa chi tiene il primo posto. Non è un concetto facile da comprendere e soprattutto da vivere oggi in una società caratterizzata dall’esibizionismo e dal mettere in mostra se stessi e le proprie qualità. Essere discepolo significa dunque imparare a vivere la propria umanità nella comunione di molti che si riconoscono come interlocutori affidabili e solidali, perché tutti “dopo” l’unico che è il primo.
La grandezza di Giovanni è consacrata da Gesù non per le sue opere o la sua ascesi, ma per la sua capacità di riconoscere il Cristo presente e di indicarlo come il più importante, perché è l’unico che toglie il peccato del mondo (cfr. Gv 1,29).
Nella I lett. il profeta è presentato non come colui che ha visioni e per questo nei primi versetti ci si accorge che non ha grandi cose da rivelare, ma come colui che ha il compito di rendere visibile la “Parola di Dio” attraverso le sue azioni di giustizia che egli è chiamato a compiere verso ogni uomo. Non misteri o codici cifrati ma si tratta di rendere attuale la Parola di Dio che esige la totalità della vita del profeta.
v. 19 Ha inizio il confronto drammatico e giuridico fra Giovanni e e i giudei, visti già qui negativamente.
«i giudei»: vanno identificati con i capi, siano essi farisei o sacerdoti e come avviene in tutto l’evangelo di Giovanni, sono i nemici di Gesù.
Nei sinottici non si fa alcuna menzione di una simile ambasciata al Battista ma è presente l’opposizione che esisteva tra Giovanni e i dirigenti giudaici (cfr. Mt 3,7).
Qui ci è presentato, a modo di esempio programmatico, quello che avverrà in tutta la vita di Gesù e in tutta la vita della Chiesa: la lotta incessante tra la fede cristiana e il mondo rappresentato, in questo caso dal giudaismo incredulo.
La delegazione inviata è composta di sacerdoti e leviti, indicazione rara nel NT, che si ritrova solo in Lc 10,32 e At 4,36; queste classi che rappresentano coloro che per legge potevano prendere decisioni di carattere religioso, sottolineano la natura ufficiale dell’ambasciata.
«Chi sei tu»: questa è la domanda che fu posta a Gesù in 8,25 e 21,12. Siccome «Io sono» in Giovanni ha una particolare rilevanza in relazione all’identificazione che Cristo fa di se stesso non è un caso che nei versetti seguenti il Battista usi per ben due volte «Io non sono».
vv. 20-22 Abbiamo qui tre risposte negative, sempre più decise e ferme.
«Confessò»: Confessare nel NT si riferisce di solito ad affermazioni concernenti il Cristo; la ripetizione insolita vuol sottolineare la solenne proclamazione ufficiale del Battista: «non sono il Cristo»: La domanda suppone che i giudei pensassero che egli fosse il Messia e riflette anche l’opinione dei battisti al tempo dell’evangelista.
«Elia»: era aspettato secondo la profezia di Ml 3,1.23, molto viva al tempo di Gesù. Mentre la tradizione cristiana, recepita in Mc 9,13 e Mt 17,12 identifica il Battista con Elia, Giovanni invece, con Luca, lo nega, forse perché riflette un ambiente polemico verso i battisti. Il Battista non era, ovviamente, Elia letteralmente ritornato in vita, per cui la risposta che Giovanni dà è giusta; tuttavia per alcuni autori vi è un significato più profondo: leggendo Mt 11,1-6 è possibile che lo stesso Battista non si fosse reso conto di tutta la grandiosità del carattere messianico di Cristo, di conseguenza egli era meno competente di Gesù nel valutare la sua propria posizione nei confronti di Cristo.
«sei il profeta?»: il profeta è quello di cui parla Dt 18,15.18 e che era aspettato anche nell’ambiente di Qumran, contemporaneo al NT e con cui Gesù viene identificato (cfr. 6,14; 7,40; At 3,22a). Alcuni lo immaginavano una specie di Mose redivivo. Con queste tre risposte Giovanni Battista nega di essere il salvatore escatologico aspettato.
v. 23 Giovanni definisce se stesso con un testo del Deuteroisaia (cfr. Dom. scorsa).
v. 24 Il testo fa un po’ di difficoltà: i farisei non avevano l’autorità di inviare una delegazione ufficiale. Qualche esegeta interpreta: «E gli inviati erano dei farisei» che tuttavia contrasta con il v. 19 dove leggiamo che la delegazione mandata è composta da sacerdoti e leviti, che ordinariamente appartenevano ai sadducei e non ai farisei. Sembra probabile che qui il redattore dell’evangelo abbia riunito vari interrogativi posti al Battista (cfr. Lc 3,7-18).
v. 25 II battesimo di Giovanni era considerato un atto escatologico, che dava inizio alla salvezza definitiva e quindi non avrebbe potuto essere compiuto che dal salvatore escatologico. Avendo il Battista negato di esserlo, la domanda diventa logica.
vv. 26-27 Ancora una volta emerge la radicale disposizione di Giovanni a svuotare se stesso e la propria attività affinchè il Messia abbia più spazio possibile nella sua esistenza ed attività. Nella risposta il Battista declassa il suo battesimo ad un rito di purificazione; non lo confronta però col battesimo «nello Spirito» (cfr. v. 33), come ci aspetteremmo, ma con la persona di uno più degno di lui, che è già in mezzo al popolo ma che non è stato ancora rivelato.
Per indicare la sua inferiorità nei confronti di Cristo (che è lo Sposo) il Battista usa la stessa espressione che ricorre in Mc 1,7 e parall. «non sono degno di slegare il laccio del sandalo» (cfr. Dom. scorsa).
v. 28 «Betania»: non si tratta della Betania di Lazzaro (11,1-8), ma un’altra al di là del Giordano, la cui localizzazione rimane archeologicamente ancora incerta.
La voce del Battista che per prima ha indicato al mondo «l’agnello di Dio» (Gv 1,29) che appariva agli uomini, resa potente da Dio stesso, ha risonato e non cesserà di risonare, fino alla fine dei secoli, nei deserti e nelle solitudini che l’egoismo e l’incredulità dell’uomo continuamente creano, per ripetere a tutti i popoli l’annuncio della salvezza definitiva che è venuta nel mondo. Questo annuncio ha potuto percorrere i secoli perché fondato sull’umiltà e sulla verità. Il Battista infatti non ha voluto usurpare una dignità che non gli spettava, ma ha voluto farsi piccolo agli occhi degli uomini perché il Cristo potesse essere manifestato (cf. Gv 3,30). Perciò a coloro che lo interrogavano per sapere chi fosse, egli rispose definendosi solo come una «voce», cioè colui la cui vita non aveva altro valore né altro significato se non quello di annunziare e preparare la via del Signore. Tutto il mistero della sua vita è nella missione a cui Dio l’ha inviato, è nell’umiltà estrema con cui egli è scomparso di fronte a colui che era il più grande, al quale non si sentiva «degno di sciogliere il legaccio dei calzari» (v. 27). Per questo Dio gli ha concesso il dono del martirio, perché potesse essere fino in fondo il testimone della luce, il precursore che prepara così fedelmente la via al Signore, da anticiparne anche la morte ingloriosa. Egli darà così la suprema testimonianza alla verità, soffrendo la prigionia e la morte. Tra i due abissi di oscurità che coprono tutta la sua vita, quello del deserto e quello della prigione, rimane questo breve spazio di tempo in cui ha compiuto la sua eccezionale missione: essere la «voce» che annunzia Gesù e che lo mostra al mondo.
Questa missione egli la compie anche oggi per noi. «Io penso — scrive Origene — che il mistero di Giovanni si attua tuttora nel mondo. Per chiunque sia prossimo alla fede in Cristo Gesù, occorre che prima nell’anima sua giungano lo spirito e la virtù di Giovanni, e preparino al Signore un popolo perfetto, appianino le vie tra le asperità del cuore e raddrizzino i sentieri. Lo spirito e la virtù di Giovanni precedono tuttora l’avvento di Dio salvatore».
Possa dunque l’intercessione del Battista aprire il nostro cuore e il cuore degli uomini di tutti i tempi ad accogliere il Signore che viene, perché nel giorno della sua manifestazione gloriosa possiamo davvero essere trovati «irreprensibili» e possiamo fin d’ora ripetere, come le prime generazioni cristiane, l’invocazione della fede piena di amore: «Amen, vieni, Signore Gesù!» (Ap 22,20).
Una piccola nota sulle preghiere di colletta:
Colletta
Guarda, o Padre, il tuo popolo
che attende con fede il Natale del Signore,
e fa’ che giunga a celebrare con rinnovata esultanza
il grande mistero della salvezza.
Per il nostro Signore Gesù Cristo...
La colletta antica è purtroppo molto generica, chiedendo che l’attesa fedele della Venuta imminente del Signore sia gratificata dalla celebrazione festiva che sta in prospettiva, alludendo al Natale e non “all’oggi celebrativo” che comporta sempre la “Venuta”.
Colletta B:
O Dio, Padre degli umili e dei poveri,
che chiami tutti gli uomini
a condividere la pace e la gloria del tuo regno,
mostraci la tua benevolenza
e donaci un cuore puro e generoso,
per preparare la via al Salvatore che viene.
Egli è Dio...
La colletta B è invece più aperta ad esprimere la ricchezza delle Letture poiché “oggi” non ieri, che non esiste più, non domani, che non si sa se vi sarà, si celebra Cristo Risorto con il suo Mistero e propriamente i fedeli non attendono nessuna festa per celebrarlo, per così dire, più intensamente di questa Domenica.
Martedì 11 dicembre 2017
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.catechistaduepuntozero.it
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