P. Marko Ivan Rupnik, Commento Terza Domenica di Avvento

Terza Domenica di Avvento
Gv 1,6-8.19-28
Congregatio pro Clericis
Il brano di Isaia della prima lettura di oggi si colloca al tempo del ritorno dall’esilio di Babilonia,
quando il popolo ha ricostruito il tempio e c’è la consacrazione del primo profeta, il quale è consacrato come sacerdote - il famoso terzo Isaia che parla di sé stesso dicendo “Oggi io sono stato consacrato, unto, ecc.. Oggi gioisco, la mia gioia è piena” ecc.. (cfr. Is 61, 1.10-11).

Le prime parole che pronuncia come profeta sono l’annuncio dell’anno del giubileo, dove tutti si spossessano di tutto, tutti si devono perdonare tutto, tutto si rilascia, ognuno si ritira da ciò che in qualche modo possiede. È un anno di gioia, di giubileo, perché i poveri verranno di nuovo ad avere qualcosa.

Giovanni interpreta esattamente questa immagine, in una visione simbolica che si  dispiega nelle pagine del suo vangelo.

Il primo simbolo che appare è quello della giustizia, Giovanni è la giustizia di Dio. Con il Battista, con il battesimo per il perdono dei peccati appare Cristo come il compimento della giustizia di Dio.

Poi è lo sposo, in Giovanni Cristo appare come il nuovo Sposo, a Cana di Galilea.

Poi il sacerdote, Cristo sostituisce il Tempio già nel secondo capitolo di Giovanni, Lui è il nuovo Tempio, Lui è l’unico sommo sacerdote.

L’incontro con Nicodemo ci rimette nella questione essenziale: ci vorrà una vita nuova. Non serve solo questo che abbiamo adesso, bisogna rinascere dall’alto, c’è uno spirito che genera una vita nuova.

Il Prologo dice che in principio è Dio che parla, che c’è una conversazione, una comunicazione, e questa comunicazione è la vita e la vita è la luce degli uomini. E poi si inserisce la figura di Giovanni Battista che non è una semplice interruzione come vorrebbe parte dell’esegesi moderna: è molto chiaro che il Verbo, la Parola, ha bisogno di una voce. E Giovanni citerà Isaia, addirittura senza il verbo: “Io voce”. E Sant’Agostino si è sbizzarrito: ‘La parola è ciò che rimane, ma senza la voce non la si conosce”. La parola ha bisogno della voce. Ma quando viene pronunciata la voce sparisce, la parola rimane. In eterno.

Poi la luce, e Giovanni dice: “Fu mandato per testimoniare la luce” (Gv 1,7).

Giovanni Battista doveva mettere in evidenza qualcosa, richiamare l’attenzione a qualcosa, affinché potessero vedere ciò che forse non vedono ma c’è.

Giovanni ha visto un uomo la cui umanità era illuminata dal di dentro. E lui ha visto che questo è Dio, un uomo la cui umanità è mossa e portata da una vita che non è nostra, che non ci appartiene, è di Dio. Noi siamo tutti abituati a guardarci sempre illuminati dall’esterno, tutta la nostra cultura è illuminata dall’esterno, tutti i nostri sguardi sono educati così. E perciò Giovanni doveva rendere testimonianza, perché se no la gente non riusciva a vedere.

Giovanni sottolineerà, nei capitoli del congedo di Cristo, che ciò che era prima fuori, ora è dentro: ‘Io in voi e voi in me’. Lo Spirito che adesso è presso di voi sarà dentro di voi. Sarete illuminati dal di dentro (cfr. Gv 14,16-26; Ez 36, 26-27).

E nell’Apocalisse, ultima immagine che ci è rivelata e Giovanni ci consegna, non ci sarà più sole, unica luce sarà l’Agnello: Natale non è tanto la memoria di ciò che è avvenuto a Betlemme, quanto Epifania, manifestazione di Dio nell’umanità. E il tempo di preparazione al Natale è per aiutarci a passare da uno sguardo dall’esterno, da una luce esterna ad una luce dal di dentro perché le cose di prima sono passate, lo sguardo è cambiato.

La domanda vera è perciò di quale parola siamo carne e di quale luce siamo illuminati perché la luce vera è quella che fa diventare la nostra carne pneumatica, spirituale. E se vibriamo per una parola che è del Verbo questa rimarrà, anche quando solo l’Agnello splenderà.

P. Marko Ivan Rupnik

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