CIPRIANI SETTIMIO SDB, "Andiamocene altrove... perché... predichi anche là"

04 febbraio 2018   - 5a Domenica / Tempo Ordinario B |  Letture - Omelie
"Andiamocene altrove... perché... predichi anche là"
Se non vado errato, nel brano di Vangelo odierno Marco tende ad illustrare la precedente
affermazione della folla che, piena di stupore davanti al primo annuncio di Cristo e al suo potere su Satana, aveva commentato: "Che è mai questo? Una dottrina nuova insegnata con autorità. Comanda persino agli spiriti immondi e gli obbediscono!" (v. 27). Infatti, anche qui abbiamo delle guarigioni, specie di indemoniati, e l'esaltazione della missione "evangelizzatrice" di Cristo, che non si lascia per niente imbrigliare dallo stesso entusiasmo delle folle: "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!" (v. 38).

"Guai a me se non predicassi il Vangelo!"
In questo senso vedrei un facile raccordo soprattutto con la seconda lettura, in cui san Paolo ci svela il segreto della sua fremente, quasi furiosa, attività missionaria: a un certo momento egli si è sentito come "afferrare" da Cristo sulla via di Damasco. Da quel momento non poteva non gridare al mondo l'amore di Dio in Cristo, come gesto di gratitudine per l'immensa luce che lo aveva avvolto, per la salvezza che gli era stata offerta: "Fratelli, non è infatti per me un vanto predicare il Vangelo; è per me un dovere: guai a me se non predicassi il Vangelo!" (1 Cor 9,16). E poi continua descrivendoci il suo "stile" di annuncio evangelico, che ricalca molto da vicino l'esempio di Cristo: "Mi sono fatto debole con i deboli, per guadagnare i deboli; mi sono fatto tutto a tutti, per salvare ad ogni costo qualcuno" (v. 22).
Un annuncio del Vangelo, dunque, fatto con l'offerta della propria vita, più che con il suono, anche melodioso ed affascinante, di grandiose parole!
La prima lettura, che ci descrive il senso amaro della vita, sperimentato nelle proprie carni doloranti dal grande paziente Giobbe (7,1-4.6-7), ci può aiutare a capire meglio quel mondo di dolore e di sofferenza a cui Gesù si avvicina con amore e vibrante partecipazione, "guarendone" più che può: "Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni" (Mc 1,34).

"La suocera di Simone era a letto con la febbre"
Ma cerchiamo adesso di penetrare più a fondo nella fresca ed agile pagina di Marco, che si articola in tre quadretti narrativi molto vivaci, in cui più di un esegeta ha creduto di poter riconoscere le tracce di un testimone oculare, e precisamente di Pietro, che sta un po' al centro di tutto il racconto.
Il primo quadretto ci descrive la guarigione della suocera di Pietro (vv. 29-31).
È la prima guarigione di malati descrittaci da Marco e fa un po' come da ponte per le numerose altre guarigioni descritteci immediatamente dopo.

La scena è piena di umanità e di semplicità nello stesso tempo: Gesù viene informato che la donna è ammalata, le si accosta, la "prende per mano" e la "solleva", liberandola dalla febbre. È tutto così spontaneo e naturale che si ha l'impressione che Gesù dispensi vita e salute, non mediandole da forze segrete od occulte, imprigionate magari nel più intimo di se stesso, oppure impetrate dalla divinità, ma come attingendole dalla trasparenza e dalla profondità della sua persona. Più che opere di taumaturgo, i miracoli di Gesù sono come la "partecipazione", direi quasi spontanea, della ricchezza di vita che c'è in lui; più che segno di potenza, perciò, sono segno di "salvezza" e di amore, attestazione che Dio si è fatto presente in mezzo agli uomini per toglierli dalla loro infelicità e far loro sentire che le "forze" del regno stanno già operando nel mondo, anche sul piano meramente fisico.

L'ultima annotazione dell'evangelista: "... ed essa si mise a servirli", non vuol dire soltanto che la donna, quasi in ricambio del beneficio ottenuto, si dette a compiere i normali obblighi dell'ospitalità. Sarebbe stato qualcosa di interessato, sia da parte di Gesù che da parte della donna! Si allude piuttosto al fatto che ogni incontro con Gesù, per essere autentico, si deve trasmutare in una sequela di "servizio". Il verbo qui adoperato (diakonéin = servire), infatti, è il verbo con cui sia in Marco (15,41) che in Luca (8,3) si esprime la "sequela" di Gesù da parte di non poche donne che mettevano a disposizione di Gesù persino le loro "sostanze".

Perciò il gesto della suocera di Pietro è un gesto di amore e di generosità, offerto a Gesù e ai suoi discepoli come segno della disponibilità del suo spirito. In questo senso il miracolo acquista tutta la sua dimensione di messaggio del divino che afferra tutto l'uomo nella sua forza di trasformazione, ed è sottratto al gioco della pura emozionalità e della ricerca del "sensazionale".

"Guarì molti che erano afflitti da varie malattie..."
Il che sembra verificarsi proprio nel secondo quadretto narrativo, che segue immediatamente: "Venuta la sera, dopo il tramonto del sole, gli portavano tutti i malati e gli indemoniati. Tutta la città era riunita davanti alla porta. Guarì molti che erano afflitti da varie malattie e scacciò molti demoni; ma non permetteva ai demoni di parlare, perché lo conoscevano" (vv. 32-34).
Qui effettivamente è il "mito" di Gesù che incomincia a crearsi, ed è la ricerca del "sensazionale", oltre che dell'utile immediato, che prevale su tutto! Si noti quel particolare caratteristico, che è come un colpo di obiettivo che riprende al vivo la scena: "Tutta la città era riunita davanti alla porta", che dovrebbe essere quella dell'abitazione di Pietro. Forse proprio per non far nascere il mito del "guaritore" facile, Gesù non li guarisce "tutti", come dice Matteo (8,16), ma solo "molti", quasi a dire che il miracolo non è un fatto meccanico, ma è legato anche a certe disposizioni d'animo.

Del resto, su questa linea sembra muoversi anche il divieto di "parlare" fatto ai demoni, "perché lo conoscevano" (v. 34). Anche nella precedente guarigione di un ossesso Gesù aveva ordinato a Satana di "tacere" (1,25).
Perché questo strano atteggiamento di Gesù che, pur facendo miracoli e venendo confessato come Messia dai demoni e dagli stessi apostoli, esige che si faccia silenzio attorno a lui? È il problema del cosiddetto "segreto messianico", che è particolarmente accentuato in Marco.

Senza entrare nei dettagli di questo difficile argomento, ritengo che la cosa si debba spiegare proprio come una precisa volontà di Gesù non tanto di rimanere nascosto (il che non era possibile e non era certamente nelle sue intenzioni!), quanto di non affidarsi ai troppo facili entusiasmi delle folle e persino dei discepoli, pronti a lasciarsi suggestionare da certi fatti sensazionali, ma "chiusi" al mistero della sofferenza, della rinuncia a se stessi, della croce. La gente, che adesso lo ricerca freneticamente, sarebbe stata disposta a seguirlo fino alla croce e sulla croce?

"Il mistero di Gesù diverrà veramente palese soltanto sulla croce e solo chi lo segue sulla via della croce può veramente comprenderlo. Perciò anche la più corretta delle proclamazioni fatte dai demoni, dai miracolati, dai discepoli, può solo produrre sventura finché il cammino di Gesù verso la croce non rende possibile la sequela, anzi la esige in maniera incondizionata...".

"Al mattino si alzò quando ancora era buio... e là pregava"
La terza parte del brano ci trasferisce (però solo apparentemente!) in un altro clima: in realtà, ci dà come la chiave per afferrare il segreto di tutta l'attività di Gesù, ivi inclusi i suoi miracoli! Egli è "aperto" agli altri perché è soprattutto "aperto" a Dio, di cui nella preghiera cerca di interpellare la volontà e di respirarne come la presenza: "Al mattino si alzò quando ancora era buio e, uscito di casa, si ritirò in un luogo deserto e là pregava" (v. 35).
Si direbbe quasi che Gesù voglia sfuggire all'entusiasmo della folla: allo stesso modo si ritirerà sulla montagna dopo la moltiplicazione dei pani, proprio per bloccare sul nascere un tentativo di acclamazione popolare a "re" d'Israele (Gv 6,15). Tutto questo è importante, perché niente ci sarebbe stato di più pericoloso per la missione di Gesù che essere intesa in chiave politica, o anche semplicemente umanitaria e sociale: è stata la continua "tentazione", che ha accompagnato il Signore dall'inizio della sua vita pubblica fino alla morte di croce!

Ma qui il ritirarsi di Gesù "in un luogo deserto", "di buon mattino", all'insaputa di tutti, per "pregare", ha un significato più profondo ancora. È il bisogno di ritirarsi solo con il Padre per attingere forza e chiedere luce per la sua missione, che è da poco iniziata e che si presenta già con sbocchi e potenzialità diverse: è come un rivedere e un programmare, alla luce di Dio, i piani della sua attività a servizio degli uomini, per non defraudare nessuno della ricchezza di amore che egli porta con sé. È una preghiera, perciò, ordinata a dar senso alla sua vita e alla sua azione: non una preghiera-fuga, ma una preghiera-impegno!
È quanto risulta dalla risposta che egli dà a Simone e agli altri che lo invitano a rimanere a Cafarnao, perché "tutti lo cercano": "Andiamocene altrove per i villaggi vicini, perché io predichi anche là; per questo infatti sono venuto!" (v. 38). Lo spazio della sua missione va ben oltre Cafarnao, dove non può fermarlo neppure la corrente di simpatia che già lo circonda: anche ad altri egli deve "annunciare" il Vangelo della salvezza, anche se questo comporterà per lui maggiori sacrifici e distacchi continui da persone, da luoghi, da cose.
È la missione affidatagli dal Padre, che esige questo: "Per questo infatti sono venuto!". Il verbo qui adoperato (eksélthon), più che esprimere la sua uscita da Cafarnao ("sono venuto via"), come alcuni intendono, significa la sua "venuta" da parte di Dio per salvare gli uomini. È un'espressione tipicamente giovannea: "Sono uscito dal Padre e sono venuto nel mondo; ora lascio di nuovo il mondo e vado al Padre" (Gv 16,28), dirà Gesù nel discorso di addio ai suoi discepoli.
Nella sua preghiera "solitaria" Gesù ha dunque come ritrovato se stesso, ha riletto il senso della sua missione nel misterioso ed esclusivo rapporto che lo lega al Padre, ed è pronto per portarla avanti nonostante il parere contrario dei discepoli: è la prima volta che si profila l'incomprensione dei suoi nei riguardi del Maestro.

"E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe"
E la sua missione è soprattutto una missione di annuncio: la salvezza incomincia dall'accettare per fede che in Gesù di Nazaret "il regno di Dio si è avvicinato" (Mc 1,15) agli uomini. I miracoli valgono solo come "segno" che il regno di Dio ha ormai fatto irruzione nel mondo; altrimenti, essi stessi potrebbero diventare un impedimento a credere rettamente! È quanto sembra volerci dire ancora san Marco che, concludendo con un rapido sommario il racconto degli inizi dell'attività di Gesù, di nuovo mette al primo posto l'"evangelizzazione": "E andò per tutta la Galilea, predicando nelle loro sinagoghe e scacciando i demoni" (v. 39).

È perciò provvidenziale che anche la Chiesa oggi riscopra la "priorità" dell'evangelizzazione su qualsiasi altra attività, come afferma autorevolmente Paolo VI: "Proclamare di città in città, soprattutto ai più poveri, spesso più disposti, il gioioso annuncio del compimento delle promesse e dell'alleanza proposta da Dio: tale è la missione per la quale Gesù si dichiara inviato dal Padre. E tutti gli aspetti del suo ministero - la stessa incarnazione, i miracoli, l'insegnamento, la chiamata dei discepoli, l'invio dei dodici, la croce e la risurrezione, la permanenza della sua presenza in mezzo ai suoi - sono componenti della sua attività evangelizzatrice" (n. 6).


Da: CIPRIANI S
Fonte:http://www.donbosco-torino.it

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