FIGLIE DELLA CHIESA,Lectio II Domenica di Quaresima

II Domenica di Quaresima
 Dom, 18 Feb 18  Lectio Divina - Anno B

Ambientazione della pericope evangelica
Nella seconda domenica di Quaresima la Chiesa ci fa contemplare, ogni anno, la scena della
Trasfigurazione secondo la versione di uno dei tre Sinottici. In questo modo, veniamo proiettati, fin dall’inizio del cammino quaresimale, verso la Risurrezione, meta finale di tale itinerario, di cui la Trasfigurazione è prefigurazione.
La Trasfigurazione segna il punto centrale e culminante del Vangelo di Marco e si abbina all’episodio della confessione di fede da parte di Pietro (8,27-30), di cui sembra essere la conferma più autorevole, giunta dal cielo a dissipare ogni incertezza che poteva essersi incuneata nel cuore dei dodici quando, quasi per contrasto alle parole di Pietro, Gesù aveva iniziato a parlare per la prima volta della necessità della sua passione (8,31-33). Da ora in avanti, infatti, il racconto, intercalato da altre due predizioni della passione seguite da altrettante incomprensioni da parte degli apostoli, non presenta più soste come questa, ma procede, senza interruzioni dritto verso il tragico epilogo a Gerusalemme, per risollevarsi soltanto alla fine con gli accenni alla Risurrezione. Il fatto in sé rimane misterioso; il suo significato non è difficile da decifrare. Esso rappresenta un motivo di consolazione e incoraggiamento per i discepoli smarriti, ma soprattutto è un’anticipazione della gloria in cui Cristo dovrà entrare con la sua risurrezione. Si tratta di una “cristofania”, ossia una manifestazione o rivelazione di chi sia veramente Gesù Cristo. Il termine è una variazione per analogia di “teofania”, ossia una scena in cui Dio rivela se stesso agli uomini (vedi ad es. l’incontro tra Dio e Mosè in Es 3). Nella Trasfigurazione Gesù rivela se stesso quale personaggio glorioso, qualcuno del livello, ed anche superiore, di Mosè ed Elia, che una voce dall’alto chiama “Figlio di Dio”. Nel contesto marciano del racconto circa il viaggio verso Gerusalemme, la Trasfigurazione offre un barlume della vera identità di Gesù e del glorioso traguardo al quale il viaggio condurrà. Nel frattempo i discepoli sono comprensibilmente frastornati e reagiscono con un misto di timore e stoltezza.

Se si vuole parlare di un modello dell’Antico Testamento per l’episodio della Trasfigurazione ciò che più gli assomiglia sono le descrizioni nei confronti di Mosè sul monte Sinai in Es 24.34. Ci sono numerosi elementi in comune: l’alto monte (Mc 9,2; Es 24,12.15-18; 34,3), la presenza di un gruppo particolare (Mc 9,2; Es 24,1-2.16), lo splendore del personaggio centrale (Mc 9,6; Es 34,29-30.35), il timore degli astanti (Mc 9,6; Es 34,29-30), la nube (Mc 9,7; Es 24,15-18; 34,5) e infine la voce dalla nube (Mc 9,7; Es 24,16). Gli elementi in comune sono talmente numerosi che è difficile non pensare che il racconto presenti Gesù non solo come “Figlio di Dio”, ma anche come il nuovo Mosè.

La discussione tra Gesù e i discepoli (9,9-13) mette l’identità di Gesù in relazione al mistero della croce e con Elia/Giovanni Battista. Quando Gesù richiama in 9,9 la predizione della passione di 8,31 i discepoli si chiedono come il Figlio dell’uomo, del quale hanno appena constatato la gloria, possa essere messo a morte per poi risorgere dai morti. Essi sono inoltre perplessi riguardo alla sequenza degli eventi escatologici. Per loro la risurrezione è un avvenimento della fine dei tempi, e prima che questo avvenga deve ritornare Elia. Ma anziché contestare questo scenario, Gesù lo utilizza per fare il collegamento tra Giovanni Battista e il profeta Elia. Ed è proprio attorno alla perplessità degli apostoli, dei quali Pietro è il portavoce che si struttura il racconto della Trasfigurazione.

Struttura della pericope evangelica
a) Gesù sale sul monte insieme ai tre discepoli e rimane solo con loro (2a)
b) La Cristofania (2b-4)
c) Incomprensione da parte di Pietro (5-6)
b’) La Logofania accredita la Cristofania (7)
a’) Gesù rimane solo con i tre discepoli ed insieme a loro scende dal monte (8-10)

Spiegazione della pericope evangelica
v.2 - Sei giorni dopo: fuorché del racconto della passione, questa è l’unica indicazione cronologica fornita da Marco. Ciò sta indubbiamente a indicare che si tratta di un’indicazione di notevole importanza. A cosa si riferisce? Vengono date diverse spiegazioni: è un allusione alla teofania che Mosè ebbe “sei giorni dopo” sul monte Sinai secondo Es 24,15-17; è un riferimento al punto di partenza che, benché non precisato, si presume ragionevolmente riferirsi all’episodio della confessione di Pietro e ai successivi insegnamenti (8,27-9,1), oppure è un’anticipazione della settimana di passione di Gesù a Gerusalemme che culmina il settimo giorno, sei giorni dopo, con la Risurrezione.
Prese con sé Pietro, Giacomo e Giovanni: tra i primi discepoli ad essere chiamati (1,16-20), questi tre costituiscono un circolo di intimi qui come pure in 5,37 e in 14,33.
Li condusse su: Marco non specifica perché Gesù ve li abbia condotti. La spiegazione di Luca: “a pregare” (Lc 9,28) fa parte del tema a lui molto caro secondo cui Gesù prega nei momenti più decisivi della sua vita.
Su un alto monte, in disparte, loro soli: Il monte alto è una località preferita per la teofania, ma non può essere meglio identificato e ricorda il monte di Dio del Sinai. Tra i monti abitualmente indicati c’è l’Ermon, il Carmelo e il Tabor, luogo, quest’ultimo, che la tradizione cristiana ha identificato sin dai tempi di Origene, all’inizio del III sec. Più importante dell’esatta località geografica è il motivo che i monti (Moria, Sinai, Sion, come pure l’Olimpo o molte altre località non ebraiche) sono i luoghi di incontro con esseri soprannaturali e di rivelazione divina. L’enfatica espressione avverbiale: “in disparte, loro soli” fa risaltare il carattere misterioso dell’episodio.
Fu trasfigurato davanti a loro: L’episodio è noto come “la trasfigurazione” per effetto della traduzione latina transfiguratus est, passata poi nelle traduzioni in altre lingue. Il verbo greco metemorphōthē implica un cambiamento di “forma” (morphē). Indica propriamente il passaggio da una “forma” all’altra, cioè ad un modo nuovo diverso di essere, in cui la persona, pur restando se stessa, si manifesta diversa. Mentre il concetto di metamorfosi era ben noto nel mondo greco-romano (vedi le Metamorfosi di Ovidio), nel contesto della teologia cristiana primitiva un modo migliore per capire l’idea è dato dall’inno cristologico in Fil 2,6-11: “Egli, pur essendo di natura (morphē = “forma”) divina […] annientò se stesso […] diventando simile agli uomini”. Nell’evento della trasformazione/trasfigurazione il gruppetto degli intimi tra i discepoli di Gesù riceve un barlume della sua morphē divina. Neppure ciò che è accaduto a Mosè sul monte Sinai può essere portato semplicemente come paragone, poiché lo splendore del suo volto era derivato dal parlare con Dio (cfr Es 34,29). Gesù, invece, già adesso, prima della sua glorificazione, viene fatto conoscere nella sua gloria celeste, quella che aveva presso il Padre prima che il mondo fosse.

v.3 - Le sue vesti divennero splendenti: le vesti di un bianco abbagliante presumibilmente manifestano la gloria di colui che le indossa (cfr Ap 3,4; 7,9). Il verbo stilbein (splendente, brillante, luccicante) nel Nuovo Testamento è usato solo in questo passo.
Bianchissime: nessun lavandaio sulla terra potrebbe renderle così bianche: l’accumulo di superlativi accresce lo splendore della scena. Il paragone presenta l’immagine del lavandaio che lava o sbianca gli indumenti di lana. L’idea è che neppure il miglior candeggiatore sarebbe in grado di produrre un bianco così splendente come quello delle vesti del Trasfigurato.

v.4 - E apparve loro Elia con Mosè, che discorrevano con Gesù: alla Metamorfosi di Gesù si aggiunge l’apparizione di due personaggi dell’Antico Testamento. L’apparizione, che viene descritta con le medesime parole che si usano per le apparizioni pasquali del Risorto (ōphthē: 1Cor 15,5; Lc 24,34) e per le apparizioni dell’Angelo (Lc 1,11; 22,43; At 7,30), è diretta ai discepoli. Le persone apparse parlano con Gesù, il Trasformato. Nulla si dice del contenuto del dialogo (diversamente Lc 9,31). I due personaggi sono generalmente presi ad emblema dei Profeti (Elia) e della Legge (Mosè). Entrambi hanno sofferto a causa della loro fedeltà a Dio. La loro presenza al momento della Trasfigurazione fa pensare al ruolo di Gesù nel dare, nella pienezza dei tempi, compimento alle promesse fatte da Dio nell’Antico Testamento. Inoltre contribuisce a dare alla scena un tono escatologico (cfr Ap 11,3-13). Secondo 2Re 2,11 Elia “salì sul turbine verso il cielo”, e secondo Mt 3,23 egli sarebbe tornato prima del grande e terribile giorno del Signore. Il mistero che circonda la sepoltura di Mosè (cfr Dt 34,6) ha fatto sorgere alcune tradizioni ebraiche circa la sua assunzione e il suo ruolo escatologico.

v.5 - Prendendo allora la parola, Pietro disse a Gesù: il doppio riferimento al parlare mette in risalto il ruolo di Pietro quale portavoce dei discepoli di Gesù nel viaggio verso Gerusalemme (cfr 8,29.32; 10,28; 11,21).
Maestro, è bello per noi stare qui; facciamo tre tende, una per te, una per Mosè e una per Elia! Il termine ebraico rabbì riportato anche in greco letteralmente significa “mio superiore” o “mio signore”. Con l’esclamazione “è bello per noi stare qui”, Pietro esprime anche i sentimenti degli altri due apostoli. Essi sperimentano un’anticipazione della beatitudine celeste. La proposta di costruire tre capanne dice più del solo desiderio di trattenere la situazione sperimentata. Il riferimento in prima istanza riguarda probabilmente le capanne o “tabernacoli” usati dagli israeliti nella festa campestre d’autunno (cfr Lv 23,39-43). Le capanne ricordano che alla fine dei tempi Dio si accamperà col suo popolo (cfr Ap 11,3-18). Le capanne che Pietro vuole costruire ricordano anche le tende eterne (cfr Lc16,9) o le dimore che gli eletti e i giusti riceveranno nella beatitudine del cielo. Esse completano il quadro della visione apocalittica che, a giudizio del discepolo, deve durare il più possibile.

v.6 - Non sapeva infatti cosa dire, poiché erano stati presi dallo spavento: la mancanza di comprensione di Pietro è qui sulla stessa linea di 8,32s. Volendo trattenere la beatitudine celeste, il discepolo si difende nuovamente dalla necessità della sofferenza. Lo spavento che prende tutti i discepoli non è qui il rabbrividire dinanzi alla rivelazione celeste, ma la pusillanimità umana. Da essa deriva il non capire (gar). La descrizione preannuncia Mc 16,8 dove le donne sono similmente spaventate al vedere la tomba vuota e all’udire la proclamazione della risurrezione di Gesù.

v.7 - Poi si formò una nube che li avvolse nell’ombra: in una regione come la Palestina in cui la vita dipende in larga misura dal ciclo regolare delle piogge da ottobre ad aprile, la nube era un simbolo di vita e di speranza. Dato che Dio è l’autore della vita e il fondamento della speranza, non è sorprendente che la nube sia diventata anche un simbolo della presenza divina. In Es 40,34-38 una nube copre la tenda dell’adunanza, che era piena della gloria del Signore. Alla dedicazione del Tempio di Salomone a Gerusalemme “la nube riempì il tempio del Signore” (1Re 8,10-11). Allo stesso modo, la nube avvolge ora con la sua ombra il Trasfigurato e i due personaggi celesti. Questo riferimento diventa chiaro per l’aggancio al v. 5. Secondo 2Mac 2,8, per la fine dei tempi si aspettava l’apparizione della gloria di Dio e della nube “così come essa era apparsa al tempo di Mosè”.
E uscì una voce dalla nube: “Questi è il Figlio mio prediletto; ascoltatelo!”: il simbolo della nube e il riferimento a Gesù quale “il Figlio mio prediletto” indicano che la voce è quella di Dio. La scena ricorda il battesimo di Gesù in Mc 1,9-11. Entrambi i passi dichiarano che Gesù è il Figlio di Dio, il primo all’inizio del suo ministero in Galilea (1,11), il secondo all’inizio del viaggio verso Gerusalemme (9,7), ed ambedue guardano in avanti all’identificazione di Gesù fatta dal centurione romano sotto la croce: “Davvero quest’uomo era Figlio di Dio!” (15,39). Ascoltatelo! La voce dà l’approvazione a Gesù quale rivelatore di Dio Padre, conferendo così un’autorevolezza divina al difficile insegnamento riguardo alla cristologia e all’essere discepoli che verrà impartito durante il viaggio verso Gerusalemme. I discepoli vengono caldamente invitati ad ascoltarlo e ad obbedirgli.

v.8 - E subito guardandosi attorno, non videro più nessuno, se non Gesù solo con loro: Marco dà efficacemente l’idea della brusca interruzione della storia non solo usando l’insolito avverbio exapina, improvvisamente, ma anche con la doppia negazione ouketi oudena, letteralmente “non più nessuno”, con l’avversativo alla, eccetto, e con l’espressione finale monon meth’heautōn, solo con loro.

v.9 - Mentre scendevano dal monte: il riferimento al monte ha l’effetto di legare l’insegnamento impartito in 9,9-13 alla Trasfigurazione (cfr 9,2). Il legame a sua volta consente all’evangelista di sondare i rapporti tra l’imminenza del Regno di Dio (9,1), la gloria di Gesù (9,2-9) e le sofferenze del Figlio dell’uomo (9,9-13).
Ordinò loro di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti: il comando di Gesù ai tre discepoli rientra nel disegno del segreto messianico, già altre volte rivelato (cfr 1,34; 8,31). Qui, come nelle tre predizioni della passione (8,31; 9,31; 10,33-34), il titolo “Figlio dell’uomo” è dominante. La precisazione “se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risuscitato dai morti” mette sulla giusta strada per comprendere la portata del racconto della Trasfigurazione. La realtà di Gesù si farà chiara e si potrà comprendere solo alla luce della sua Risurrezione.

v.10 - Ed essi tennero per sé la cosa, domandandosi però che cosa volesse dire risuscitare dai morti: Visto che in alcuni circoli giudaici (in particolare i farisei) la credenza nella risurrezione era data per scontata (cfr 12,18-27), per i discepoli non era certamente la prima volta che ne sentivano parlare. È più probabile che i loro interrogativi riguardassero come fosse possibile che Gesù, come individuo e prima della fine dei tempi e del giudizio finale, potesse risorgere dai morti, poiché la risurrezione dei morti era unanimemente concepita come un evento collettivo ed escatologico. Le parole di Gesù, inoltre supponevano che il Messia dovesse soffrire e morire. E ciò per loro era ancora inconcepibile (cfr 8,32); lo comprenderanno solo dopo la Risurrezione di cui la Trasfigurazione è solo un barlume.

Fonte:figliedellachiesa.org/it/

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