Don Marco Ceccarelli,“Fare frutto”V Domenica Quaresima “B”

V Domenica Quaresima “B” – 18 Marzo 2018
I Lettura: Ger 31,31-34
II Lettura: Eb 5,7-9
Vangelo: Gv 12,20-33
- Testi di riferimento: Gen 2,18; Sal 126,5; Is 52,13; 53,10; Ger 32,40; Os 8,7; Mt 10,39; 16,24-26;
Lc 14,26; 22,20; Gv 3,13-14; 4,36-38; 8,28; 13,16.31-32.36-37; 14,30; 15,2.5.8.20; 17,1-5; 21,19;
At 20,24; 1Cor 11,25; 15,36; 2Cor 3,6; 4,4; 9,6; 12,9; Gal 6,7-9; Ef 2,2; 6,12; Eb 2,9-10.14; 8,6-13;
1Pt 2,24; Ap 12,11
1. La prima lettura.
- L’annuncio di una nuova alleanza. La prima lettura odierna necessita perlomeno di una riflessione,
al fine di non lasciarci sfuggire l’enorme valore della rivelazione che in essa si trova. Si tratta della

rivelazione di una futura “nuova alleanza”. Tale dicitura è abituale per il frequentatore, anche occasionale,
della Messa. È qualcosa di cui abbiamo sentire parlare fin dai tempi del catechismo. Anche
per questo corriamo il rischio che ci sfugga molto del carattere sconvolgente che tale annuncio dovette
avere ai tempi di Geremia. Per l’ebreo religioso, di ieri e di oggi, Dio ha realizzato una alleanza
con Israele ai tempi di Mosè, sul Sinai, verso la quale Egli rimane fedele, nonostante tutte le infedeltà
del popolo. Eppure Geremia, in modo chiaro e inequivocabile, annuncia che è necessaria
una nuova alleanza; nuova innanzitutto perché diversa da quella stipulata al Sinai. La necessità di
una nuova alleanza ci porta a ritenere che quella precedente sia in qualche modo fallita (cfr. Eb
8,7.13).
- Scritta nei cuori. L’aspetto più importante sta comunque nella novità presente in questa alleanza
annunciata dal profeta. Essa si differenzia dall’antica per il fatto che «porrò la mia legge nel loro intimo
e sul loro cuore la scriverò» (v. 33). Come l’antica alleanza, anche la nuova sarà caratterizzata
da una legge. Però, mentre in quella la legge era scritta su tavole di pietra, questa lo sarà sulle tavole
del cuore. Per capire la metafora dobbiamo fare riferimento al testo di Ger 17,1, dove si afferma che
«il peccato di Giuda è scritto con stilo di ferro ... sulla tavola del loro cuore». Il termine “tavola” ricorda
le tavole di pietra su cui era inciso il decalogo e fa riferimento alla relazione di alleanza del
popolo di Giuda con Jahvè. Con l’immagine del peccato inciso nel cuore si vuole indicare che
l’alleanza sinaitica è stata fortemente condizionata dal fatto che il peccato era talmente profondo,
“scolpito” nel cuore, da essere incancellabile; e quindi tale da compromettere fin dall’inizio la possibilità
di una seria e duratura fedeltà all’alleanza e all’obbedienza al decalogo. Nel cuore di Giuda
non c’era scritta la torah, ma il peccato, l’incapacità cioè di esserle fedele. Da qui si comprende la
portata di questa nuova alleanza. Se il peccato è inciso nel cuore umano, non basta più una semplice
espiazione procurata dai sacrifici templari che procuravano una provvisoria riconciliazione con Dio,
ma non risolvevano il problema alla radice; occorre invece che tale peccato sia rimosso, e che sul
cuore venga scritta la torah stessa, cioè venga data la possibilità intrinseca di essere fedeli alla alleanza.
È questa dunque la novità della seconda alleanza che il Signore promette per bocca del suo
profeta; Egli stesso darà al partner dell’alleanza la capacità di esserle fedele.
2. Il Vangelo.
- I Vangeli quaresimali di questo anno “B” sono un invito a contemplare la croce di Cristo. È una
specie di lunga preparazione alla settimana santa e al triduo. Così anche il Vangelo odierno presenta
il mistero della croce di Cristo attraverso la similitudine del seme e il riferimento all’innalzamento
di Cristo. Questo “esercizio” di contemplazione della croce di Cristo non finisce mai; non può essere
qualcosa che ormai conosciamo, una ripetizione noiosa. Si tratta di contemplare il mistero della
croce gloriosa, per cui Dio ha voluto salvare il mondo attraverso un uomo crocifisso. La croce di
Cristo non è come qualsiasi altra croce. La sua croce è del tutto unica per il modo in cui l’ha vissuta,
e per questo rivela il senso di ogni croce umana. Si tratta inoltre di contemplare questo mistero non
soltanto “in sé”, ma anche nella nostra esistenza. Anche nella nostra vita si manifesta il mistero della
croce di Cristo che occorre contemplare con fede, seguendo umilmente il Cristo sofferente, che
continua a vivere la sua passione in noi (Col 1,24).
- La similitudine del seme (Gv 12,24).
• La solitudine. L’immagine del seme è molto efficace per esprimere cosa significhi la croce di Cristo.
Non c’è altro modo perché il seme dia frutto se non quella di morire. In caso contrario rimane
solo. Quello della solitudine è il grande problema dell’esistenza umana, perché l’uomo non è creato
per essere solo (Gen 2,18 [qui si usa la stessa parola, monos]). Essere soli significa non amare, rimanere
chiusi in se stessi; e si può essere in questa situazione anche nel momento in cui si è circondati
da tante persone. Quello che ci fa uscire dalla solitudine non è avere persone intorno a noi, ma
amare. Per amare occorre morire a se stessi, alle proprie comodità, ai propri vantaggi. Se non accettiamo
di morire a noi stessi per l’altro rimaniamo soli, chiusi nel nostro egoismo, nella difesa della
nostra vita. Così per volere difendere la nostra vita in realtà finiamo per perderla (Gv 12,25), perché
è soltanto donandola che la si mantiene. Ogni giorno c’è una morte a noi stessi che siamo chiamati
ad assumere affinché produciamo vita. Questa è la logica della croce. Se non assumiamo questa logica
– morire per dare la vita – siamo condannati a rimanere soli. Se non siamo disposti a morire
rimaniamo chiusi in noi stessi e siamo destinati all’infelicità, perché la solitudine è ciò che contraddice
la vocazione umana. Occorre lasciarsi attirare da colui che è stato innalzato sulla croce per noi,
lasciarci illuminare da lui, credere in lui, per essere lì dove è lui, per entrare con lui nel mistero della
logica della croce e uscire dalla nostra solitudine.
• “Molto frutto”. Soltanto se il seme muore porta frutto. Il contrario del rimanere soli è questo “portare
frutto”. Ogni vita umana è fatta per questo, come comanda Dio alla prima coppia: «Fruttificate
e moltiplicatevi» (Gen 1,28). “Fare frutto” è il primo comando che Dio dà all’uomo. L’esistenza
umana ha questo senso, ha questa vocazione. E il fare frutto significa inequivocabilmente trasmettere
la vita, donare la vita. Per donare qualcosa la devo perdere. Se la trattengo non posso donarla. Se
si trattiene la vita la si perde (Gv 12,25), cioè la si rende inutile. Se il seme non lo si getta, se non lo
si “spreca”, non porterà mai frutto. Infatti, «ognuno raccoglierà quello che avrà seminato» (Gal 6,7).
Soltanto chi semina vita, raccoglierà vita. Così ogni uomo troverà la realizzazione della propria esistenza
soltanto nel donare la sua vita perché essa porti frutto, cioè sia fonte di altra vita. E questo è
tanto più vero per i discepoli di Cristo. L’espressione “molto frutto” riappare in Gv 15,2.5.8, in riferimento
al frutto che portano i discepoli che rimangono uniti a Cristo. I discepoli di Gesù, come i
tralci uniti alla vite, portano lo stesso frutto del maestro. I discepoli porteranno frutto trasmettendo
la vita di Gesù risorto, che vive in loro, agli uomini.
- Servire e seguire Cristo (Gv 12,26). Il discepolo di Cristo sta lì dove è lui, lo segue nella sua missione,
compiendo le sue stesse opere. Come la missione di Cristo è quella del seme che deve morire
per portare frutto, così quella dei discepoli. Il discepolo prende la sua croce e segue Cristo, vale a
dire lo imita, se ne fa carico allo stesso modo che ha fatto lui. Questo esclude qualsiasi volontarismo;
libera il cristianesimo dall’essere scambiato per una forma di moralismo. Infatti è impossibile
seguire Cristo in questo senso, farsi carico della croce come ha fatto lui, senza la potenza della risurrezione
che opera per mezzo dello Spirito. Ne è prova Pietro al quale Gesù rivela che, nonostante
tutte le sue buone intenzioni, non lo potrà seguire “per ora”, ma solo “più tardi” (Gv 13,36-38), vale
a dire soltanto dopo la risurrezione (Gv 21,19). Ne è prova anche il fallimento di tutti gli altri discepoli.
La croce, ma soprattutto la croce di Cristo, il “maledetto” che pende dal legno, colui che si è
fatto peccato per noi senza opporre resistenza all’ingiustizia che subiva, è assolutamente insopportabile
per qualsiasi umano. Soltanto rimanendo uniti a Cristo (Gv 15,4-8) si può compiere la sua
stessa missione che è quella di morire per trasmettere la vita. Il cristiano sarà così quel seme che
morendo darà l’esistenza ad altri cristiani, come afferma Tertulliano: «Semen est sanguis Christianorum»
(Apol. 50).

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it

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