FIGLIE DELLA CHIESA, Lectio IV Domenica di Quaresima - Laetare


IV Domenica di Quaresima - Laetare
 Lun, 05 Mar 18  Lectio Divina - Anno B

Ambientazione della pericope evangelica -
Il brano evangelico che la liturgia ci offre in questa quarta domenica di quaresima è tratto, come
quello della scorsa domenica, dalla prima (Gv 2-4) delle tre unità nelle quali è suddivisa la prima parte del Vangelo di Giovanni, il cosiddetto “libro dei segni” (Gv 1-12). Fa parte del dialogo di Gesù con Nicodemo (Gv 3,1-21) che è ritmato da tre domande da parte di Nicodemo, con relative risposte da parte di Gesù sempre più lunghe. Può essere suddiviso in due parti precedute da un’introduzione, senza una conclusione, secondo il seguente schema:

(v. 1) Introduzione

(vv. 2-8) La generazione dall’alto a opera dello Spirito Santo è necessaria per entrare nel regno di Dio; la nascita naturale non è sufficiente.
(vv. 2-3) Prima domanda e relativa risposta: la generazione dall’alto.
(vv. 4-8) Seconda domanda e relativa risposta: il modo della generazione dall’alto ad opera dello Spirito Santo.
(vv. 9-21) Tutto ciò sarà reso possibile solo quando il Figlio sarà asceso al Padre, ed è offerto solo a quelli che credono in Gesù.
(vv. 9-10) La terza domanda e risposta introducono tutta la sezione.

(vv. 11-15) Il Figlio deve ascendere al Padre per dare lo Spirito.
(vv. 16-21) La fede in Gesù è necessaria per accogliere questo dono.
Il discorso comincia con Nicodemo che viene da Gesù di notte, e finisce sul tema che gli uomini devono lasciare le tenebre e venire alla luce. Nicodemo apre la conversazione salutando Gesù come un maestro venuto da Dio; l’ultima parte del discorso mostra che Gesù è il Figlio unigenito di Dio (v. 16) che Dio ha mandato nel mondo (17) come la luce del mondo (v. 19). Se consideriamo 2,23-25 come un’introduzione all’episodio di Nicodemo, c’è ancora un’altra inclusione. In 2,23 abbiamo sentito parlare di quelli che “credettero nel suo nome”, ma la loro fede era insufficiente, perché essi non erano venuti a vedere chi egli fosse; in 3,18 troviamo una insistenza nel dire che la salvezza può venire solo a quelli che credono nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.

La domanda di Nicodemo al v. 9 funge da spartiacque alla scena. Con questa domanda, la parte di Nicodemo nella scena è stata svolta; come tanti personaggi nei discorsi giovannei, egli, con i suoi fraintendimenti o con le sue incomprensioni, è servito a spingere Gesù a esporre dettagliatamente la sua rivelazione. Mentre Gesù si lancia nella lunga spiegazione dei vv. 11-21, Nicodemo svanisce nell’oscurità da cui è venuto. Il dialogo diventa un monologo; Gesù solo occupa la scena, mentre la sua luce risplende nelle tenebre e attrae gli uomini a venire a lui e a diventare figli di Dio (vv.19-21).

Struttura della pericope evangelica
La pericope è strutturata da una sequenza di parallelismi bipartiti uno al positivo e l’altro al negativo, o viceversa.

Spiegazione della pericope evangelica
vv.14-15 E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in Lui abbia la vita eterna.
La missione del Messia consisterà nel conferire all’uomo l’amore e la verità (1,17), la vita peculiare del Regno. Pertanto il trionfo è la croce, dimostrazione suprema dell’amore cui conduce il dinamismo dello Spirito. “Salire definitivamente in cielo” si identifica con l’essere levato in alto, in quanto la croce non sarà per Gesù uno stato passeggero, ma l’inizio dell’effusione di amore e di vita destinata a durare per sempre (19,34; 20,25.27: il costato aperto). “Il cielo” o sfera divina è situato sulla croce, in cui il Padre è presente in Gesù e manifesta il suo amore. “Essere levato” indica al tempo stesso la morte e l’esaltazione definitiva di Gesù, la manifestazione perenne della sua gloria, che è quella del Padre (17,1). Questo si spiega con un episodio dell’esodo. In Nm 21,9 si narra che dinnanzi alla piaga dei serpenti velenosi, Mosè, su indicazione di Dio, costruisce un serpente di bronzo e lo innalza su di un palo. Chi veniva morso, guardando il serpente innalzato guariva o, secondo l’espressione ebraica, viveva. Su quest’antico episodio si costruisce un parallelo, che si sviluppa in un paragone (3,14: come…così) dei fatti e dei loro risultati. Nel caso di Mosè, la vita che si otteneva era transitoria, qui invece definitiva. La prima particella (come) annuncia la somiglianza di ciò che deve avvenire con il fatto già avvenuto. Di quest’ultimo si menziona la persona operante, Mosè; e si conoscono il tempo e il luogo: nel deserto. Nel secondo membro (così) non vi è agente, tempo, né luogo definito; si esprima soltanto una necessità (bisogna) che si dovrà verificare in un futuro non precisato. Tuttavia il parallelismo è chiaro: al serpente del primo membro corrisponde “l’Uomo” del secondo; al “levare”, “l’essere levato in alto”. Nel terzo membro (3,15: perché), la vita definitiva corrisponde al “viveva” di Nm 21,9. Il fatto di “innalzare/essere innalzato” (3,14) indica un segno visibile, destinato a essere visto e guardato. L’uomo levato in alto sarà la presenza salvatrice di Dio, il punto di confluenza di tutti quelli che guardano, il luogo da cui sgorga la vita divina. Viene così spiegato in che modo si nasce dall’alto (3,3.7). Questa localizzazione (alto) è determinata dall’immagine del serpente innalzato che liberò dalla morte. Anche l’Uomo deve essere innalzato, e chiunque aderisca a lui in tale situazione, accettando il suo amore e il dono del suo amore, otterrà vita definitiva, cioè nascerà dall’alto, ricevendo lo Spirito che sgorga dal suo costato (19,34). Questo segno, dal quale scaturisce la vita, è espressione dell’amore di Dio per l’umanità (3,16), ed è innalzato in modo che il mondo intero possa vederlo. Prende il posto della Legge, che prometteva la vita.

v.16 Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna. Si offre la spiegazione ultima della realtà del Messia. Nei versetti precedenti lo si è descritto partendo dall’uomo, come il segno visibile, l’Uomo levato in alto; ora, partendo da Dio, che prende l’iniziativa inserendo la propria azione nella storia. È la stessa realtà espressa in precedenza con la frase “colui che è disceso dal cielo” (3,13). Gesù è il dono di amore di Dio per l’umanità. L’Uomo levato alla vista di tutti è al tempo stesso il Figlio unigenito di Dio (cfr 1,34); questa è la sua realtà nascosta, che si rivela con il suo essere levato in alto, dimostrando così l’amore di Dio per il mondo. Questa missione, unita alla menzione del “Figlio unigenito”, allude a Gen 22,2. Dio si comporta come Abramo, che fu capace di privarsi del proprio figlio. L’allusione ad Abramo, inoltre, mette il passo in relazione con l’esodo, in quanto, secondo tradizioni giudaiche, il sacrificio di Isacco ebbe luogo nell’ora in cui più tardi sarebbero stati sacrificati gli agnelli nel tempio, e la liturgia della Pasqua univa il gesto di Abramo al sacrificio dell’agnello. Si vede così la connessione di tutto l’episodio con quello del tempio e con l’aspettativa messianica. Il dono è avvenuto nel passato (ha amato) e si va realizzando nel corso della vita di Gesù, che culminerà al momento di essere levato in alto, “la sua ora” (2,4), con la manifestazione piena dell’amore di Dio, il dono totale di sé al fine di comunicare la vita.

v.17 Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. La duplice formulazione, negativa e positiva, che appariva in 3,16: “perché…non vada perduto, ma abbia la vita eterna”, si incontra nuovamente qui: “non…per condannare, ma perché…sia salvato”. La manifestazione dell’amore di Dio e il dono del Figlio unigenito (3,16) sono ora descritti in termini di missione (ha mandato…nel mondo). In entrambi i casi c’è stato uno stesso soggetto, Dio, e uno stesso destinatario, il mondo. L’amore di Dio fu il movente dell’invio del Figlio e la sua finalità era salvare ogni uomo.
Il Messia non ha un compito giudiziario e non esclude nessuno dalla salvezza. Non viene a operare discriminazioni all’interno di Israele, ma neppure fra Israele e gli altri popoli. La salvezza è destinata all’umanità intera. Salvarsi è passare dalla morte alla vita definitiva, e questo è possibile attraverso Gesù, il datore dello Spirito.
Per la prima volta appare la denominazione “Figlio” applicata a Gesù. Questa riassume le due precedenti: “l’Uomo” (il Figlio dell’uomo, 3,13-14) e “il Figlio unigenito di Dio” (3,16.18; cfr 1,18: l’unico Dio generato). Gesù è “il Figlio”, cui si uniscono l’origine umana e la “processione” divina, il massimo esponente dell’umanità che rende presente la pienezza di Dio.

v.18 Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio. La responsabilità ricade così sull’uomo, non su Dio, che nel suo amore non fa eccezioni. Si comincia pertanto a descrivere l’atteggiamento dell’uomo, che diventa il soggetto grammaticale. O si è a favore o contro Gesù; non esiste possibilità di indifferenza. Dinnanzi all’offerta dell’amore non si può che accettarla o rifiutarla.
Nicodemo aveva obiettato che non è possibile nascere di nuovo (3,4). Tuttavia, da parte di Dio tutto è possibile; spetta all’uomo prendere la decisione. Se di fatto vi sono degli esclusi dalla salvezza, lo si deve al rifiuto dell’offerta che Dio compie in Gesù. Chi crede, chi dà la sua adesione a Gesù non è sottoposto a giudizio, in quanto Dio non agisce come giudice, ma come datore di vita. Chi rifiuta, si condanna da sé. Al rifiuto radicale e definitivo di dare adesione a Gesù corrisponde la definitività dell’esclusione.
La Legge stabiliva con Dio un rapporto Signore-servi. Tra i due termini si interponevano i maestri (3,2: maestro, 3,10: il maestro di Israele) e la gerarchia dei capi (3,1: capo). Il contatto con Dio aveva bisogno di intermediari. L’uomo elevato in alto, al contrario, rende presente l’amore di Dio per il mondo. Ormai non bisogna essere fedeli che all’amore di Dio, incarnato nel Figlio unigenito (3,15.16.18). La relazione con il Padre presente in Gesù è immediata; non è quella dei servi, ma dei figli. Donando suo Figlio, Dio offre all’umanità la pienezza di vita che è in lui: così, attraverso l’identificazione degli uomini con il Figlio unigenito, Dio Padre avrà altri figli. L’Unigenito li fa nascere mediante lo Spirito, dando loro la capacità di diventare figli tramite una pratica dell’amore simile alla sua. Non bastava l’adesione a Gesù come Messia riformatore, manifestatasi a Gerusalemme subito dopo la sua attività nel tempio (2,23). Non è al riformatore delle istituzioni che va data l’adesione, ma al datore di vita; la società nuova sarà il frutto e l’espressione dell’uomo nuovo, Figlio di Dio. Dare la propria adesione a Gesù come al Figlio unigenito di Dio, è credere nella possibilità dell’uomo, nell’orizzonte che gli apre l’amore di Dio, perché è lui il modello dei figli che nascono per mezzo suo.

v.19 E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. L’autore a questo punto sviluppa quanto ha detto in precedenza: la causa dell’esclusione di molti (3,18). La luce che è venuta nel mondo di per sé illumina tutto. La luce è il Figlio, nella sua funzione salvifica di dare la vita, è Gesù come Messia (cfr 8,12: io sono la luce del mondo; 12,35). Si conferma la relazione di questa pericope con la scena del tempio (2,13ss). Egli è venuto ed è rimasto nel mondo: presenza duratura di portata universale. La frase: “la luce è venuta nel mondo”, è in parallelo e in opposizione a quella di Nicodemo: “sei venuto da Dio come maestro” (3,2), a servizio della Legge. Secondo la tradizione rabbinica, la Legge era vita e luce. La sua osservanza dava vita all’uomo e al popolo, rivelava Dio e la sua volontà e serviva da guida e condotta. Gesù elevato in alto prende il suo posto: la condotta dell’uomo è guidata e giudicata da questa luce, splendore del suo amore per l’uomo. Essa è l’unica norma e scopre la bontà e la malvagità delle azioni.
La presenza della luce-vita nel mondo pone l’uomo di fronte all’esigenza di accettare la vita-luce o rifiutarla. La sentenza di esclusione si identifica con un’opzione in malafede: vedendo la luce, splendore della vita, che è venuta nel mondo (1,4), gli uomini hanno preferito la tenebra, cioè la morte. La tenebra, come viene detto nel prologo (1,5), rappresenta l’ideologia oppressiva che soffoca la vita dell’uomo, qui oggettivata nell’istituzione giudaica denunciata da Gesù (2,14ss). Gli uomini (3,19) sono un’altra espressione per indicare il mondo (3,16). La frase è iperbolica: la totalità indicata dagli uomini significa l’immensa maggioranza e include i molti che diedero la loro adesione a Gesù durante le feste (2,23), dei quali Egli però non si fidava (2,24); fra loro ci sono anche quelli rappresentati da Nicodemo (3,2: sappiamo). L’universalità del rifiuto contrasta con quella dell’amore di Dio (3,16: Dio infatti ha tanto amato il mondo), ed è stata espressa nel prologo con un’iperbole equivalente (1,10: il mondo non lo ha riconosciuto; 1,11: i suoi non l’hanno accolto). Prima della venuta della luce l’umanità giaceva nelle tenebre. La maggioranza degli uomini preferisce restare nella morte, rinunciando alla pienezza di vita: questo è il peccato dell’umanità (1,29). Disprezzando l’amore di Dio, optano per la tenebra. Tale scelta costituisce la loro sentenza. Sono gli stessi uomini a pronunciarla. La scelta ha una motivazione: perché le loro opere erano malvagie, in consonanza con l’attività malvagia della tenebra, che cerca di soffocare la luce (1,5).

v.20a Chiunque infatti fa il male, odia la luce. Questo principio generale estende l’enunciato al di là delle frontiere di Gerusalemme e del tempo di Gesù. La luce, splendore di vita, denuncia per comparazione la bassezza di condotta che si oppone alla vita. Già nel suo significato primario, la luce espone e denuncia la malvagità occulta. Per questo esiste una risposta d’odio all’amore di Dio. L’opzione per la tenebra non si compie in base al valore che questa abbia in sé, ma per l’odio verso la luce, e questo nasce dal timore di venire smascherati. Vi è un rigetto della vita in colui che è complice della morte. Si odia la bontà della luce. La malvagità non può sopportarne la vista e cerca di soffocarla. I fautori di ingiustizia e morte non possono sopportare la denuncia fatta dalla luce (1,5; 11,53; 12,10; 19,15).

v.20b e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Non sono le dottrine a separare da Dio, ma i comportamenti, così come Dio non offre dottrine, ma la vita. Avvicinarsi alla luce equivale avvicinarsi a Gesù (6,37: chi si avvicina a me io non lo respingerò) e indica adesione, fede in lui. Avvicinarsi alla luce significa dare la propria adesione alla vita che Dio offre in Gesù. Egli stesso è la luce (8,12) e la vita (11,25; 4,6); chi danneggia l’uomo con il suo operare, odia Gesù e gli nega la propria adesione, perché teme che venga messa in luce la sua bassezza.

v.21 Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte da Dio. L’autore continua a mescolare i due significati di luce, quello fisico e quello metaforico. Chi agisce in modo perverso e chi pratica la verità si definiscono entrambi attraverso la loro condotta. L’uomo si definisce attraverso le sue opere.
Torna a comparire la “verità” del prologo (1,14.17), qualità dell’amore del Padre e di Gesù Messia e, pertanto dell’amore ricevuto dalla pienezza di lui (1,14.16.17). La “verità” dimostra l’amore. L’espressione “fare la verità” è in parallelo con “fare il bene” (5,29), in opposizione a “fare il male” (5,29). Equivale quindi a fare ciò che è buono per l’uomo. L’utilizzando il termine “verità” anziché quello di “amore”, Giovanni indica che l’amore non è teoria, ma pratica, che non esiste amore se non si traduce in opere. L’amore può chiamarsi tale nella misura in cui realizza il bene dell’uomo, comunicandogli la vita.
Perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio. La manifestazione è conseguenza dell’avvicinamento; il modo di agire è pertanto precedente all’adesione a Gesù, la luce. Di fatto, fin dal principio della creazione, la vita si è manifestata nel mondo, non è stata soffocata dalla tenebra. La dialettica morte-vita è precedente alla manifestazione piena della vita in Gesù. Gli uomini per i quali la vita è luce (1,4), cioè, coloro che rispondono al progetto creatore e sono a favore della creazione e della vita, sono quelli che si avvicinano a Gesù, la luce. Vi sono una disposizione e una prassi che precedono l’adesione a Gesù: la verità verso la vita e l’uomo; così anche in 8,47: Chi è da Dio ascolta le parole di Dio. Per questo voi non ascoltate: perché non siete da Dio. Essere da Dio significa imitarne il modo di agire e precede l’adesione a Gesù. In modo simile in 6,45: Chiunque ha ascoltato il Padre e ha imparato da lui, viene a me. Vi è una docilità a Dio precedente la fede in Gesù e che permette di giungere ad essa. Il Padre è il Dio creatore, fonte della vita e amore. Colui che con la sua condotta ha assecondato l’opera creatrice di Dio, l’attività del suo amore per l’uomo, riconoscerà la luce e le si avvicinerà senza timore; allora apparirà che le sue opere rispondevano al disegno di Dio, pienamente rivelato in Cristo e che non era soltanto dell’uomo, ma di Dio assieme all’uomo.

Fonte:figliedellachiesa.org

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