Don Marco Ceccarelli, "Le apparizioni di Gesù."

III Pasqua “B” – 15 Aprile 2018
I Lettura: At 3,13-15.17-19
II Lettura: 1Gv 2,1-5
Vangelo: Lc 24,35-48
Testi di riferimento: Is 50,4-7; 52,13-53,12; Zc 12,10; Mt 14,26-27; 26,56; Mc 9,9-10; Lc 18,34;
24,25-27.30-32; Gv 5,39.46; 15,27; 19,37; 20,19-21.25.27; At 1,3.8; 2,38.42; 3,18; 5,31; 13,29-31;
17,2-3.32; 26,8.24; 1Cor 15,3-5.12; 2Cor 3,14-17; 5,16; 1Tm 1,12-14; 1Pt 1,11; 1Gv 1,1-3; Ap 1,7
1. Le apparizioni di Gesù.
- Anche se siamo nei cinquanta giorni di Pasqua (che si potrebbero anche chiamare i cinquanta
giorni di Pentecoste, dato che questo è il senso del termine), dobbiamo tenere presente che i primi
quaranta costituiscono un tempo particolare, vale a dire il tempo delle apparizioni di Gesù ai discepoli.
Riguardo a questo tipo di apparizioni potremmo anche noi facilmente porci la stessa domanda
che nel secondo secolo un intellettuale di nome Celso poneva ai cristiani per schernire la fede nella
risurrezione di Gesù: Perché Gesù, se è risorto, non è apparso a Pilato e ai sommi sacerdoti? Sarebbe
stata la prova più evidente che essi avevano torto. Di fatto Gesù non ha voluto apparire a tutti.
Come dice san Pietro, «Dio ha voluto che Gesù si manifestasse non a tutto il popolo, ma a testimoni
prescelti da Dio, a noi che abbiamo mangiato e bevuto con lui dopo la sua risurrezione dai morti»
(At 10,40-41). Gesù appare soltanto ai discepoli per due motivi.
1) Egli deve renderli consapevoli e sicuri che, nonostante se ne vada al Padre, egli continua ad essere
presente in mezzo a loro. La condizione necessaria perché il risorto si faccia presente è la comunità
dei discepoli. «Dove due o tre sono riuniti nel mio nome lì io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20).
E i discepoli di Cristo si riuniscono fondamentalmente per celebrare l’eucarestia. Gesù risorto si fa
presente in mezzo ai suoi nel contesto dell’eucarestia. L’eucarestia diventa così il sacramento, la celebrazione
della presenza di Cristo risorto in mezzo ai suoi.
2) Gesù appare a chi dovrà dargli testimonianza. E per dare testimonianza alla risurrezione di Gesù
non basta averlo veduto risorto. Anche se può sembrare strano, non è vedere un morto risuscitato
che cambia la vita di una persona. Quando Gesù ha risuscitato Lazzaro il sinedrio decide di far morire
Gesù (Gv 11,53). E anche per gli apostoli il fattore determinante, ciò che ha cambiato la loro vita,
non è stato vedere Gesù risorto, ma è stato partecipare di quella risurrezione, ricevere in loro la
risurrezione di Cristo attraverso lo Spirito Santo. Per questo nel brano di Vangelo odierno Gesù dice
loro che saranno testimoni, e subito dopo (v. 49, non compreso nel brano odierno) dice: «restate però
in città fino a che non siate rivestiti di potenza dall’alto»; quella potenza che è appunto lo Spirito
Santo. Quindi solo dopo la Pentecoste saranno testimoni (anche se già da tempo avevano visto Gesù
risorto) perché «è lo Spirito colui che dà testimonianza» (1Gv 5,6). Perciò quella degli apostoli non
è una semplice testimonianza esteriore, di qualcuno che ha visto qualcosa che comunque rimane
fuori dalla sua vita. È la testimonianza invece di chi è stato coinvolto nell’evento di cui dà testimonianza.
È la presenza dentro gli apostoli di Gesù risorto per mezzo dello Spirito che li costituisce testimoni.
Essere testimoni di Cristo significa testimoniare che Cristo risorto vive in loro; e la prova è
che la loro vita è stata trasformata. Questo punto è ricorrente nelle testimonianze di Paolo riguardo
la sua esperienza di Cristo (At 22; 26; Gal 1,13ss.). Paolo, come tutti gli apostoli, ha sperimentato
una grazia di Dio che lo ha trasformato 1Cor 15,8-10. È grazie alla Pentecoste che gli apostoli ricevono
la “potenza della risurrezione” (Fil 3,10) per mezzo della quale essi possono dare testimonianza
della risurrezione. Per questo non c’è alcun vantaggio per chi ha visto Cristo nella carne rispetto
alle generazioni future (2Cor 5,16), perché tutti possiamo ricevere Cristo risorto in noi attraverso
l’effusione dello Spirito. E come si riceve lo Spirito? Attraverso la fede nella predicazione. Beati
quelli che non avendo visto crederanno (Gv 20,29). Quando Pietro annuncia la buona notizia alla
famiglia di Cornelio lo Spirito Santo scende sopra di loro (At 10,44).
2. La fede nella risurrezione.

- Il brano di Vangelo odierno si apre con i discepoli di Emmaus che narrano di come hanno riconosciuto
Gesù. Ma perché ciò avvenisse hanno avuto bisogno che i loro occhi “fossero aperti” (Lc
24,31); e questo si era verificato «nello spezzare del pane» (v. 35), una espressione che nella Chiesa
primitiva indicava la celebrazione dell’eucarestia. La cosa curiosa è che dal momento in cui Gesù
viene riconosciuto apparentemente non c’è più; non è più visibile agli occhi. Eppure mentre egli
c’era essi erano tristi; e quando lui sparisce essi hanno gioia. È l’esperienza delle apparizioni di Cristo
risorto. Gesù, anche se ritorna al Padre, continua ad essere presente in mezzo ai suoi. Una presenza
assolutamente reale; così reale che i discepoli lo riconoscono veramente presente in mezzo a
loro e sono pieni di gioia. L’esperienza dei discepoli di Emmaus è una metafora del cammino che
gli apostoli hanno dovuto fare – e come loro devono fare tutti i cristiani – per credere alla risurrezione
di Gesù e riconoscere la sua presenza in mezzo a loro.
- La difficoltà di credere nella risurrezione (vv. 37-38.41). Si tratta di un tema ricorrente nei Vangeli.
È chiaro che nessuno si aspetterebbe di vedere una persona morta di nuovo in vita. Però Gesù
aveva preparato i discepoli a questo evento. I discepoli hanno avuto una “quaresima” di preparazione
alla Pasqua, durata non quaranta giorni, ma qualche anno. Gesù li ha preparati al suo triduo di
passione, morte e risurrezione, annunciando loro quanto sarebbe accaduto. Evidentemente essi non
capivano queste cose, come si afferma in Gv 20,9: «Non avevano ancora compreso la Scrittura, che
doveva egli risuscitare dai morti» (cfr. anche Mc 8,32; 9,9-10.31-32). Gesù infatti rimprovera i discepoli
di Emmaus per la loro ottusità nel comprendere le Scritture (Lc 24,25-26). Anche se essi
erano stati istruiti nelle Scritture e poi da Cristo stesso, tuttavia non capivano. Il fatto è che la risurrezione
dai morti è qualcosa di così lontano dalla nostra esperienza, di così estraneo alle nostre categorie,
che la sua comprensione ha grandi difficoltà a farsi spazio in noi, anche in chi è molto religioso
e conosce le Scritture. Che la morte di Gesù contemplasse la risurrezione era qualcosa che si
poteva comprendere soltanto abbandonando gli schemi umani e entrando in quelli divini, che sono
lontani dai nostri come il cielo dalla terra (Is 55,9).
- Cristo è un fantasma? Può succedere allora che anche per dei cristiani praticanti Gesù finisca per
essere soltanto un fantasma. Si può avere con lui una relazione come se fosse un reperto storico, un
monumento da venerare, un personaggio che ci ha lasciato delle belle parole e dei bei gesti, ma nulla
più. In definitiva, si può correre il rischio di avere con Cristo un rapporto come con un caro estinto,
al quale portiamo un fiore, accendiamo una candelina, diciamo una preghiera, facciamo dire una
messa … e stop. Diverso invece è il rapporto che si ha con i vivi e molto diverso sarebbe il rapporto
con Cristo se … fosse (per noi) vivo! Allora abbiamo bisogno anche noi che Cristo vivo, in persona,
ci appaia e ci convinca che egli non solo è risorto, ma continua a vivere per sempre. Di più: abbiamo
bisogno di credere che quella sua stessa vita, che non è più soggetta alla morte, vuole trasmetterla
a noi per mezzo del suo Spirito. E lo Spirito in noi ci darà testimonianza di Cristo (Gv 15,26).
Per questo Gesù ordina per due volte di “guardare” (v. 39) le sue mani e i suoi piedi, cioè le sue trafitture.
Gesù è, e rimane eternamente, “il trafitto”, secondo quanto era stato profetizzato in s 53,5 e
Zc 12,10. Occorre guardare quelle trafitture e guardarle con fede, riconoscendo nel trafitto colui che
è stato ucciso per il nostro “shalom” e che continua a rimanere vivo per sempre. Quelle piaghe sono
il marchio della sua conquista, della sua vittoria sulla morte.
3. La conversione e il perdono dei peccati (Lc 24,47). Dal riconoscimento della nostra ignoranza,
della nostra incapacità di comprendere i disegni di Dio, sorge la necessità della conversione (prima
lettura). La conversione è la metanoia, un cambiamento di prospettiva, del modo di valutare la realtà,
adeguandolo a quello di Dio. In “queste cose” di cui sono testimoni gli apostoli (Lc 24,48) è presente
anche l’esperienza del loro fallimento nel capire il mistero pasquale. Anche Paolo farà questa
esperienza e darà testimonianza di come, con tutto il suo fervore religioso, perseguitava il Figlio di
Dio (At 22,3-4; 26,9-15). Con tutta la sua scienza umana e religiosa non era stato capace di riconoscere
in Gesù il Messia. In questo sta la radice dei peccati da cui abbiamo bisogno di essere perdonati;
e il fondamento di questo perdono sta nel riconoscimento che Dio ha realizzato le sue promesse
di salvezza attraverso il mistero pasquale compiuto da Cristo. Il perdono dei peccati costituisce
l’epilogo di ogni predicazione apostolica sul mistero pasquale (At 2,38; 3,19; 5,31; 13,38; ecc.).
Possiamo dire che ne costituisce l’esito. Se Cristo ha compiuto il mistero pasquale è per ottenerci la

grazia della remissione dei peccati. Ciò significa che 1) la salvezza è un dono gratuito di Dio che ci
è stata ottenuta da Cristo, e non è un frutto delle nostre opere; 2) se siamo stati uniti alla morte e risurrezione
di Cristo, se abbiamo creduto in lui, come dice S. Paolo, possiamo camminare in una vita
nuova (Rm 6,4), liberi dalla tirannia del peccato. E di questo gli apostoli sono veramente testimoni,
e con essi tutti coloro che appartengono alla Chiesa, alla comunità dei salvati.

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it

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