Don Paolo Zamengo, "La parola e il pane"

III Domenica di Pasqua (Anno B) (15/04/2018)
La parola e il pane        Lc 24, 35-48

Il percorso di fede dei discepoli nella risurrezione di Gesù non è stato né immediato né facile. Gesù appare e poi scompare o riappare di nuovo, prima a uno solo poi a due e in fine a tutti quando sono riuniti insieme. Spesso era già presente ma nessuno lo aveva riconosciuto e, se anche lo avevano riconosciuto, nessuno osava credervi per paura o per una strana imbarazzante gioia.

Poi, una parola o un gesto familiare e gli occhi si aprono finalmente: il Signore è vivo, è risorto. Gli apostoli avevano vissuto così le prime settimane, combattuti tra lo scoraggiamento e una dolce evidenza che li aveva inondati.

Erano stati lenti a credere. Non si erano fidati delle parole delle donne e nemmeno alle testimonianze di alcuni fra di loro. Tommaso passa alla storia addirittura con il soprannome di incredulo e tutti, ma proprio tutti, avevano attraversato un loro travaglio prima di credere.

Cercavano prove.  Tommaso le aveva chieste esplicitamente. Nel brano del vangelo di oggi Gesù le offre: “Guardate le mie mani e i miei piedi: sono proprio io!”. E poi: “Avete qualche cosa da mangiare?”

Perché Gesù chiede da mangiare? Se Gesù ha fame e mangia è perché è ancora un uomo come loro, in carne e ossa. Vivo. Gli apostoli non dimenticheranno e parleranno di questa cena improvvisata e frugale sulla spiaggia come una prova del suo ritorno alla vita: “Noi abbiamo mangiato con lui dopo la sua risurrezione”.

Gesù non aveva bisogno di nutrirsi perché il suo corpo, risorto, non era più soggetto alle esigenze della corporeità. Il suo era un corpo glorificato. Gesù mangia con i discepoli per sconfiggere la loro paura. Mangiare insieme è il segno chiaro di un legame rinnovato, di una comunione ritrovata e dell’autenticità della sua presenza. “Non sono un fantasma”.

Gesù lo dice anche a noi, oggi. Dio non è una emozione fugace, un brivido di luce per i momenti di angoscia, non è neppure un rito settimanale. Gesù è il presente e il futuro, è parola fatta carne che si fa cibo, pane fragrante e vino profumato.

Dopo la risurrezione Gesù si veste di umanità, assume tutti i volti della terra e abita ogni vita. L’umanità è il nuovo corpo di Dio. La sua carne è affidata a ognuno di noi. Tuttavia, coloro che meglio lo “incarnano” sono i poveri e i sofferenti. In loro è possibile toccarlo e accarezzarlo.

Straordinaria esperienza, questa successione di presenza e di assenza, di stupore e di esitazione. È iniziata a Pasqua e da allora non si è più fermata. Anche tutti noi facciamo parte di questa avventura che tanto ha scosso gli apostoli facendoli stare sempre in bilico tra la gioia e i loro dubbi.

Il suo corpo visibile è scomparso, provvisoriamente, ma ce ne ha lasciato il sacramento, la presenza reale nell’eucarestia che possiamo non solo toccare ma anche mangiare, consumare tutte le volte che lo desideriamo, prima di tutto per essere guariti ma anche per vivere per sempre. “Se uno mangia di questa pane, vivrà in eterno”.

Ci ha lasciato la sua Parola sempre a nostra disposizione, ispirata e abitata dallo Spirito. Da quando è sceso nella Pentecoste lo Spirito ci ricorda le parole di Gesù e ci conduce alla loro piena verità. È questo Spirito che ci fa ardere il cuore ogni volta che Gesù ci spiega le Scritture lungo il cammino (Lc 24,32).

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