Padre Paolo Berti, “Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore”

V Domenica di Pasqua 
Gv 15,1-8 
“Io sono la vite vera e il Padre mio è l'agricoltore”
Omelia 

“La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria”, ci dicono gli Atti degli Apostoli. La persecuzione che Paolo aveva lanciato contro i cristiani era finita; e lui - il persecutore - era passato a Cristo e per di più aveva sostenuto a sua volta la persecuzione, prima dai Giudei di Damasco e poi dagli Ebrei di lingua greca a Gerusalemme. Perseguitato sia come cristiano, sia come traditore della religione giudaica. In tale situazione la Chiesa: “Si consolidava e camminava nel timore del Signore e, con il conforto dello Spirito Santo, cresceva di numero”. Non c'era spensieratezza, baldoria, euforia, ma la Chiesa “cresceva e camminava nel timore del Signore”. Cioè viveva il Vangelo, era nella carità, che è Cristo. Un quadro che Luca, l'autore degli Atti, ci tiene a presentare come risultato delle prove sostenute. Le comunità cristiane ferventi possiedono sempre la pace del cuore, ma spesso sono sottoposte ad urti, ad ostacoli, che tendono a fiaccarle, a scompaginarle. Ma di fronte all'inverno delle prove mantengono sempre un tratto primaverile. “Cresceva e camminava”; cioè si sviluppava come numero, come forza di compattezza; e camminava, cioè non si adagiava sull'esistente, ma seguiva il Signore, lo serviva, animata dalla fiamma apostolica dello Spirito Santo. Luca, ancora, presenterà questo tratto primaverile della Chiesa anche durante una persecuzione (At 12,24): “Intanto la parola di Dio cresceva e si diffondeva”. La comunità cresce mentre cresce la sua comprensione della Parola di Dio, e questa crescita della comprensione si attua non nella staticità, ma nel dinamismo della diffusione della Parola. La Parola di Dio può essere compresa se la si fa diventare concretamente vita, proprio perché essa è Parola di vita, che non può essere compresa là dove c'è morte. Il che vuol dire che uno studio della Parola, che si limitasse all'indagine scientifica, cioè allo studio della lingua, dell'etimologia, dei contesti ambientali nei quali venne pronunciata, dei generi letterari - che vanno presentati onestamente e non per scalzare la Parola, ma, appunto, per vederne meglio la verità trasmessa -, produrrebbe solo nebbie e gelo. Luca ci dice che la Parola cresceva; cioè cresceva la sua comprensione e quindi la capacità di diffusione presso le comunità e i singoli.
Crescere, camminare, diffondere, sono tre realtà vissute dai singoli e dalle varie comunità dell'unica Chiesa in virtù della loro adesione a Cristo. Gesù ci presenta l'immagine della vite e dei tralci; un'immagine che egli ci spiega: lui è la vera vite, noi i tralci che devono portare frutto. Gesù si definisce la vera vite, quella che dà frutti di bontà, ma che ha bisogno che i tralci, che siamo noi, siano ben uniti ad essa per ricevere linfa. E non basta, bisogna pure che i tralci accettino le potature dell'agricoltore celeste. Nessuna paura, le potature del Padre celeste sono tutte ben fatte. Egli è un agricoltore perfetto. Sono potature non per mutilare, ma per far sì che il tralcio non disperda la forza che gli viene dal tronco producendo solo legno; affnché, ben potato, giunga a produrre abbondante frutto. E' noto a tutti, infatti, che se i tralci non vengono potati l'uva prodotta ha grappoli e acini piccoli. Bisogna dunque che l'agricoltore poti. Ma, dicevo, niente paure le potature del Padre sono sapienti; dobbiamo perciò accettarle. Cosa pota l'agricoltore celeste? Pota la ricerca di utili terreni; pota l'attaccamento alle comodità; pota la voglia di comparire; pota l'attaccamento al senso. Come fa? Innanzitutto, ci aiuta con la sua grazia a vincere le nostre inclinazioni verso gli utili terreni e il senso. Poi ricorre a situazioni esterne. Ad esempio, uno che si inorgoglisce non riconoscendo i benefici ricevuti da Dio, si trova di fronte ad un bel fiasco economico, perché Dio non l'assiste più nel suo lavoro, così che è invitato a rientrare in se stesso. Un altro, che fa l'intelligentone, il “so tutto io”, si trova di fronte ad uno culturalmente inferiore a lui, ma che aiutato da Dio, poiché umile, gli fa fronte e magari lo vince. Dio provoca dunque queste situazioni; pota positivamente. Ma sui tralci si abbattono anche tentativi di tagli, di stroncature; sono quelli del mondo, sono quelli che il Padre permette, si noti permette. Anche questi tagli, non fatti sapientemente come quelli del Padre, che portano l'anima all'umiltà, alla mansuetudine, ma fatti con rabbia, fatti per ferire, per svellere, per dissennare, non fanno che favorire frutti abbondanti nei tralci che rimangono uniti alla vite. Tralci che formano una sola cosa con la Vite. La Vite li tiene uniti a sé, li rende parte di sé, comunica la linfa che ha in sé; l'unica realtà che li può separare dalla Vite è un loro disgraziatissimo no, che li rende rami secchi, destinati al fuoco eterno.
Gesù è la vera vite. La vera, perché gli uomini tendono a diventare tralci di viti che avvelenano, tralci di uomini che trasmettono morte. Quanti in Israele avevano eletto per propria vite un Rabbì e non crescevano, non producevano che frutti striminziti, acerbi, immangiabili, che allegavano i denti (Cf. Ez 18,2), quando non erano addirittura velenosi.
Gesù è la vera vite; come Gesù è la vera luce (Gv 1,9), il vero pane (Gv 6,32), la vera ricchezza (Lc 16,11). La Chiesa vive di Gesù e da lui riceve la linfa dello Spirito Santo. Così lo Spirito del Capo è anche, per donazione, lo Spirito del Corpo. Gli Atti ci presentano il dolce conforto dello Spirito Santo: “La Chiesa era dunque in pace, con il conforto dello Spirito Santo”. Conforto perché lo Spirito Santo tiene la Chiesa unita a Gesù; la illumina con la conoscenza di Gesù (Gv 16,13); la fortifica nel seguire Gesù, nel servire Gesù. Il risultato è l'intima unione con Gesù, l'intima conoscenza di lui: questa è la consolazione data dallo Spirito Santo, la conoscenza che la Sposa ha dello Sposo, la conoscenza che ha la discepola del Maestro, la conoscenza che l'Amica ha dell'Amico (Cf. Ct 5,2).
Giovanni, il teologo dell'amore, dell'unione tra Cristo e la Chiesa, sigilla con le sue parole il nostro cuore a Cristo. Ci dà i termini coi quali riconosciamo di essere in Cristo. Giovanni ha davanti a sé tanti che si dicono di Cristo, che dicono di conoscerlo, ma non lo conoscono, non sono suoi. Sono gli anticristi, e più in generale sono coloro che hanno una parvenza di carità, ma è solo calore umano a cui manca la forza soprannaturale della carità riversata nel cuore dei credenti dallo Spirito Santo (Cf. Rm 5,5). Essi non credono in Cristo se non in modo astratto, per ragionamento, e non per intima unione di fede viva. Giovanni ci dice che dobbiamo amare non a parole, non con l'abilità linguistica, ma “con i fatti e nella verità”. Credere in Dio nel nome di Gesù Cristo, è amare, perché Gesù è il testimone perfetto dell'Amore. Credere nel nome, cioè nell'identità, nell'essere, di Gesù, è amare; ed è amare anche i fratelli: “Questo è il suo comandamento: che crediamo nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e ci amiamo gli uni gli altri”. L'amore reciproco è il sigillo dell'unità dei fratelli in Cristo, dei figli di Dio. In una comunità la regola è l'amore reciproco. Ma, attenzione, l'amore non si blocca in assenza della reciprocità, esso continua anche quando non si è amati, non si è compresi. E' qui che l'amore raggiunge le sue vette e diventa fecondo di rinnovati innalzamenti di fervore. L'amore non si ferma mai. Mai anche di fronte all'ingiustizia, anche quando si deve ricorrere alla tutela dei propri diritti presso le autorità competenti. Mai, anche quando le autorità addette all'esercizio della giustizia ti fanno ingiustizia. Anche allora la carità non si ferma, ma cresce, cammina in una sempre maggiore perfezione.
Giovanni ci invita ad ascoltare il nostro cuore, che è puro se crede in Cristo vitalmente. Se il cuore non ci rimprovera nulla, allora questo è segno che abbiamo fiducia in Dio. Infatti, se ci dichiarassimo autosufficienti saremmo dei superbi e non avremmo allora fiducia in Dio. Il cuore urla di fronte alla superbia, perché la superbia lo avvelena facendolo morire sempre di più ad ogni voce d'amore. La fiducia in Dio è garanzia di essere esauditi nella preghiera, ma la fiducia in Dio senza l'obbedienza ai suoi comandamenti e alle ispirazioni che ci invia, è semplicemente un vuoto d'amore, perché l'obbedienza è la vittoria sulla superbia, sulla pretesa di essere autosufficienti sia nell'intelletto sia nella volontà. E l'autosufficienza scarta il disegno di Dio, l'obbedienza ai comandamenti di Dio, alle ispirazioni di Dio, obbedendo alle proprie prospettive fino alla testardaggine. Solo accogliendo il disegno di Dio, che è Cristo, l'uomo si salva, e si salva perché ama in Cristo. Ave Maria, sigillo dei cuori che vogliono vivere sigillati in Cristo, per essere veri adoratori del Padre, e viva carità verso tutti. Amen. Vieni, Signore Gesù.

Fonte:http://www.perfettaletizia.it/

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