Abbazia Santa Maria di Pulsano Lectio «DEL PROFETA DISPREZZATO IN PATRIA»
XIV del Tempo per l’Anno B
Marco 6,1-6; Ezechiele 2,2-5 (leggi 2,1-5); Salmo 122; 2 Corinti 12,7-10
Questa Domenica il Signore è contemplato in un altro episodio della sua Vita pubblica, ricordando sempre che dal Padre è battezzato con lo Spirito Santo e consacrato come Profeta per l’annuncio dell’Evangelo, come Re per compiere le opere della Carità del Regno, come Sacerdote per riportare tutti al culto al Padre suo, e come Sposo per acquistarsi la Sposa d’Amore e di Sangue. Adesso si presenta ad insegnare come Profeta e Maestro divino la Dottrina del Regno di Dio, ma nell’umana incomprensione e nell’aperto rigetto. Le letture di oggi mettono in forte risalto una costante nell'opera salvifica di Dio: la sua potenza si rivela pienamente nella debolezza.
Il profeta Ezechiele è inviato ad un popolo di ribelli e di peccatori, da solo contro gente indurita, dunque umanamente destinato al fallimento (I lett).
L'accettazione dei propri limiti e della propria debolezza consente che si esprima, in tutta la sua forza, la potenza di Dio; quando l'apostolo Paolo è debole ed infermo, allora è veramente forte (II lett.).
Gesù non viene accettato nella sua patria, perché i suoi compaesani non ritengono che la potenza di Dio passi attraverso un uomo comune, pari a tutti loro (Evangelo). La progressiva manifestazione di Gesù ai discepoli, tracciata nelle sezioni precedenti – 3,7-5,43 – contrasta subito con l'incomprensione di coloro che gli sono più vicini umanamente: i parenti (cfr. Mc 3,2130-35).
Dio propone la sua salvezza, invita gli uomini ad uscire dalla loro mentalità, non facendo leva sui mezzi impressionanti, perché così egli imporrebbe la sua chiamata. Attraverso vie umili, normali, deboli passa la sua potenza di salvezza: così da una parte non dipende dalle dimensioni dei mezzi umani, ma solo dalla iniziativa potente e gratuita di Dio; dall'altra, la risposta dell'uomo non viene sollecitata dalla logica delle seduzioni umane, ma dall'intima e personale adesione, in tutta libertà, della sua fede in Dio.
I lettura: Ez 2,2-5
Le parole del profeta suonerebbero sprezzanti per il popolo, se Ezechiele non avesse condiviso la sorte dei ribelli: deportato come loro, parla loro a nome dello Spirito, che ha preso possesso di lui. Testimone, ma anche attore: in nome della sua missione, egli s'impegna nella stessa avventura dei suoi interlocutori, come farà un altro «figlio dell'uomo», ugualmente investito dallo Spirito, che pagherà con la morte la sua libertà di parola.
II Signore sollecita il Profeta ad ascoltare la sua Parola (Ez 2,1, non si sa perché oggi espunto dalla lettura). Allora lo Spirito del Signore prende possesso di Ezechiele, gli conferisce energia e sollecitazione e lo pone in condizione di ascoltare il Signore che parla (v. 2). Le prime parole sono di missione.
Con inesauribile amore, nonostante le delusioni, il Signore ancora invia i suoi messaggi al suo popolo diletto, e qui sceglie uno dei suoi figli, il sacerdote Ezechiele, eletto anche come Profeta. Il suo invio sta sotto il segno del dramma e del fallimento, poiché gli Israeliti sono ribelli, e in quel momento in stato di rivolta contro il loro Signore. In questo essi seguono in modo ostinato il comportamento dei loro padri antichi, in un peccato che dura fino ad adesso (v. 3). Questa lunga linea ininterrotta di peccato è il segno del malessere spirituale e morale che nel popolo resta invincibile. Il Salmista nella sua umiltà e compunzione di cuore riconosce questo, quando confessa la tremenda situazione:
«Noi peccammo con i padri nostri,
compimmo ingiustizia e perpetrammo perversità» (Sal 104,6).
Questo lamento che è confessione delle colpe, è pentimento e manifestazione di conversione del cuore, risuona a lungo nell'A. T., sulla bocca di Salomone quando inaugura il tempio (1 Re 8,47), di Esra al ritorno dall'esilio (Esr 9,6), di Nehemia nella medesima condizione (Neh 1,6-7; 9,19), di Giuditta che prega nel pericolo di Betulia assediata (Gdt 7,19), del profeta Geremia (Ger 3,25; 14,20), del popolo dopo la catastrofe nazionale che è la distruzione di Gerusalemme e la deportazione in Babilonia (Lam 3,42), di Baruk nella medesima condizione (Bar 2,12), di Daniele in esilio a Babilonia (Dan 9,5).
Il Signore preavverte Ezechiele, ma in modo strano, poiché Ezechiele come sacerdote aveva assistito da sempre ai grandi riti di espiazione dei peccati che si officiavano nel tempio anno per anno nel grande giorno del Kìppùr (Lev 16) e poi anche giorno per giorno (Lev 1-7). Egli lo invia tra gente dal volto indurito dalla protervia di chi si riconosce giusto davanti a tutti, anche davanti al Signore, e così ha il cuore arido e indurito per la mancanza dell'avvio a stare con Lui (v. 4). Tuttavia il Signore deve ancora parlare al suo popolo, e perciò pone sulla bocca del suo Profeta il messaggio autorizzato dalla formula: «Così parlò il Signore!» (v. 5). E l'invio è irreversibile e sempre valido, qualunque sia la reazione del popolo, che ascoltino, fatto poco probabile, o che non ascoltino, fatto quasi certo. Il popolo è una stirpe di rivoltosi impenitenti contro il Signore, il Signore lo sa meglio di tutti e tuttavia invia il suo Profeta affinché si sappia che egli sta in mezzo a questo popolo, che esso non è abbandonato, che il Signore ha costante misericordia per esso, e chiede solo che questa sia accettata (v. 6).
Gesù non aveva ancora annunciato l’Evangelo nella sua città. Egli vi suscita le stesse contraddizioni che aveva sollevato altrove: alcuni si stupiscono della sua saggezza, altri sono sconvolti e lo rifiutano. Marco vede in ciò il segno che l’Evangelo esige una scelta e delle rotture. La famiglia di Gesù, i suoi, la sua patria e la sua casa, non sono i conterranei o i parenti, ma coloro che credono. Il Battesimo e l'Eucaristia rendono anche noi parte di questa famiglia.
Il racconto evangelico è semplice e scarno. Il ministero di Gesù in Galilea si conclude con un fallimento, col rifiuto da parte dei suoi concittadini. Eppure l'inizio era stato buono. Lo stupore di fronte alla sapienza e ai miracoli di quell'uomo, che credevano di conoscere tanto bene, aveva portato gli abitanti di Nazaret a porsi la domanda giusta, che avrebbe potuto condurli alla fede: «Donde gli vengono queste cose?».
Sarebbe bastato che si ricordassero di ciò che era stato annunciato da Mose: «Il Signore tuo Dio susciterà per te, in mezzo a te, fra i tuoi fratelli, un profeta pari a me; a lui darete ascolto» (Dt 18,15). Per parlare agli uomini, normalmente Dio sceglie delle persone che sono loro vicine (cf profeta Ezechiele nella I lettura). La fede degli abitanti di Nazaret, invece, si arresta proprio davanti al carattere consueto e familiare della presenza di Gesù: non è così che essi immaginavano un uomo di Dio, un profeta. Anche Gesù rimane sorpreso: di fronte al loro scetticismo, si trova come disarmato, incapace di fare miracoli...
Questo racconto può insegnarci due cose. In primo luogo, che si può paralizzare una persona, ridurla all'impotenza, semplicemente non dandole fiducia, buttandole addosso il peso di un giudizio preconcetto. Quante energie soffocate, quanti scoraggiamenti, quanta gioia distrutta dai nostri giudizi decisi e inappellabili su coloro che crediamo di conoscere! Troppe volte, nello sguardo che rivolgiamo agli altri, non c'è posto per la speranza...
Ma c'è un altro insegnamento che dobbiamo raccogliere. Anche per parlare a noi, Dio non si serve di gente fuori dal comune, ma di persone qualsiasi, in cui dobbiamo riconoscere la presenza imprevedibile del suo inviato. L'ospite, il vicino, l'ammalato, lo straniero, l'amico, il nostro prossimo insomma: l'incontro con l'altro può essere un momento di grazia, se il nostro cuore è aperto e disponibile. Per manifestarsi, davvero Dio ha bisogno degli uomini. Così ci dispone nella divina liturgia nell’antif. d’ingresso:
Antifona d'Ingresso Sal 47,10-11 (CS)
Ricordiamo, o Dio, la tua misericordia
in mezzo al tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio, così la tua lode
si estende ai confini della terra;
di giustizia è piena la tua destra.
La risposta dell’uomo che accoglie l’abbondanza della misericordia divina è giubilo immenso festoso, che si estende sino ai confini della terra e la lode investe anche la generosità del Signore la cui Destra è sempre ricolma di delizie per i suoi fedeli radunati alla sua presenza.
Canto all’Evangelo Cf Lc 4,18
Alleluia, alleluia.
Lo Spirito del Signore è sopra di me:
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio.
Alleluia.
Ecco la misericordia dello Sposo per la sua sposa: è la proclamazione iniziale del Signore alla sinagoga di Nazaret, di possedere lo Spirito del Signore per il ministero messianico, che è l’Evangelo, la redenzione e l’Anno giubilare del perdono universale delle colpe operato dallo Spirito Santo
La breve relazione di Marco sulla visita di Gesù alla sua patria non si accorda, per il tempo, con quelle degli altri due sinottici, perché mentre Luca, per motivi programmatici, la pone all'inizio del ministero galilaico (cfr. Lc 4,16-30), Matteo la ricollega al discorso delle parabole (cfr. Mt 13,53-58). Quasi certamente Gesù fu a Nazaret non una sola volta; altrimenti i suoi concittadini non avrebbero avuto ragione di meravigliarsi dei suoi miracoli (v. 2), non avendo avuto occasione di conoscerli se non per sentito dire.
Esaminiamo il brano
v. 1 - «Partì di là»: la frase iniziale di Marco è molto vaga e strettamente non comporta alcun collegamento cronologico con l'episodio precedente. Il libro liturgico fa iniziare infatti il brano col generico «In quel tempo ...». Come d'abitudine, Gesù non resta mai a lungo nello stesso posto. Sempre accompagnato dai suoi discepoli che lo seguono, "esce di là", cioè dalla casa di Giairo. Marco ce lo mostra mentre arriva nel suo paese. Bisogna supporre che Gesù sia a Nazaret? In ogni caso è nella sinagoga a insegnare, in giorno di sabato (cf. 1,21). Un insegnamento che suscita stupore (cf. 1,22) negli uditori. Tutto sembra ricominciare come in 1,21-28. Per il significato del brano in se stesso va rilevato il contrasto tra la fede dei protagonisti degli episodi precedenti e l'incredulità dei Nazaretani, che trova riscontro solo nell'atteggiamento della gente presente nella casa di Giàiro (5,40).
v. 2 - «Venuto il sabato»: Annotazione necessaria per preparare la menzione della sinagoga. Il sabato, infatti, era il giorno dedicato alla preghiera e all'istruzione religiosa, che si svolgeva normalmente in sinagoga. Gesù approfittava volentieri di questa occasione per portarvi il suo messaggio (1,21.39; 3,1), avvalendosi della facoltà che ogni uomo aveva di prendervi la parola. Questa scena è narrata con i particolari da Lc 4,14-30, dove rivela appunto che lo faceva come «suo costume abituale» (Lc 4,16). Gesù legge Is 61,1-3, sullo Spirito donato al Servo e Profeta e Re messianico. Nell'omelia Gesù applica la scrittura a se stesso: «Oggi è (da Dio) adempiuta questa Scrittura nelle orecchie vostre» (Lc 4,21). Marco narra l'insegnamento di Gesù omettendone però i testi.
«nella sinagoga»: Il ministero pubblico di Gesù in Marco comincia con l’insegnamento nella sinagoga (1,21-22), dove poi egli scaccia un demonio (1,23-28); poi continua il suo lavoro di proclamazione e di esorcista nelle sinagoghe (1,39) e sempre nella sinagoga guarisce un uomo con la mano atrofizzata (3,1-6). Dopo la contestazione nella sinagoga di Nazaret, Gesù non mette più piede in una sinagoga.
«Donde gli vengono queste cose?»: le tre domande dei Nazaretani sono complessive e riguardano tutta la figura di Gesù e non solo il suo insegnamento di quel sabato. Essi conoscono il loro concittadino, sanno della sua attività e probabilmente sono stati testimoni di qualche suo miracolo. Si meravigliano per quanto di straordinario scoprono in lui; ma, incapaci di risalire al fondo delle cose, la loro reazione non va oltre l'espressione di un semplice stupore (cfr. 5,20). Sono i tipici rappresentanti di coloro dei quali è stato detto che hanno occhi e non vedono, hanno orecchi e non intendono (4,12).
«Che sapienza è mai questa che gli è stata data?»: Nel passivo che suppone Dio come autore si sottolinea come quella sapienza e quei poteri non vengano dalla carne o dal sangue, non sono quindi frutto di una eredità familiare, ma sono dati direttamente dalla potenza di Dio. Lo «scandalo» della gente sta proprio nel rifiuto di credere che la manifestazione divina accetti di passare attraverso vie così comuni. È lo scandalo dell'incredulità. Questa è l'unica volta che Marco usa il termine «sapienza» (sophia). Questa domanda è una reazione naturale all'insegnamento di Gesù; la seguente invece, riguardo ai suoi prodigi, sembra fuori luogo dal momento che si è parlato solo di insegnamento. La forma della domanda, tuttavia, ci ricorda che in precedenza Marco ha già messo i prodigi insieme con l'insegnamento (1,21-28). Nell'A.T. la sapienza è sovente associata alla potenza:
1. sapienza e potenza/forza come attributi divini (Dn 2,20; Is 10,13; Ger 10,13.16) che vengono dati al profeta Daniele (Dn 2,23);
2. l'attività creativa di Dio si realizza mediante la sapienza e la potenza (Ger 10,12; 51,15);
3. e la persona saggia possiede anche potenza (Dn 2,23; 7,14; Qo 7,19).
La domanda degli ascoltatori di Gesù, mentre può essere una sottile allusione all'accusa di 3,22 (di essere posseduto dal demonio), esprime anche il punto di vista del narratore che Gesù è uno che è dotato del potere e della sapienza di Dio (vedi 1 Cor 1,21).
«E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani?»: L'originale greco di questa terza domanda presenta qualche difficoltà sintattica ed alcune varianti testuali. La lettura preferita da alcuni autori contiene un hina («di modo che») per cui la traduzione risulterebbe: «... di modo che le sue mani compiono tali prodigi?». I «prodigi» (dynámeis) è uno dei termini del N.T. tradotti con «miracoli». La frase è costruita in modo tale da far pensare che la forza principale che sta dietro le opere prodigiose è Dio e che Gesù è l'agente incaricato dell'esecuzione. La dizione «dalle sue mani» ricorda la potente azione della mano di Dio nel liberare il popolo dall'Egitto. Si veda in particolare la professione del credo di Dt 4,34: «O ha mai tentato un dio di andare a scegliersi una nazione in mezzo a un'altra con prove, segni, prodigi e battaglie, con mano potente e braccio teso... come fece il Signore vostro Dio» (vedi anche Dt 5,15; 7,19; 9,26; Es 7,4; 32,11). In Gdc 6,36 Gedeone dice a Dio: «Se tu stai per salvare Israele per mia mano...». L'espressione prepara anche ironicamente alla descrizione di Gesù come uno conosciuto per il lavoro che fa con le sue mani (v. 3).
v. 3 - «il carpentiere»: traduce téktōn, che normalmente è reso con «falegname», ma si riferisce anche a chiunque lavora con le proprie mani materiali duri (es.: costruttore edile o scalpellino). Nella maggior parte dei manoscritti principali è Gesù stesso che è il falegname, ma esistono alcune letture varianti, probabilmente per assimilazione con Mt 13,55: «Non è costui il figlio del falegname?». Celso, un oppositore del cristianesimo del secondo secolo, lo derideva per avere come suo fondatore un lavoratore (vedi Origene, Contra Celsum 6,34.36). L'attività di artigiano non si opponeva per sé al ruolo di rabbino colto e autorevole; i rabbi normalmente praticavano un mestiere manuale. L'attività che rendeva un uomo autonomo era stimata e raccomandata; «colui che non insegna un mestiere a suo figlio è come se gli insegnasse a fare il brigante» era una massima conosciuta e ricordata.
«il figlio di Maria»: per la mentalità ebraica si usava indicare una persona sempre con il nome del padre, per cui l'espressione appare strana. Gli studiosi ipotizzano:
1. all'epoca dell'episodio Giuseppe doveva essere morto;
2. l'evangelista ha voluto mettere in risalto la concezione verginale di Gesù (non narrata da Marco, ma da Mt 1,18-25 e Lc 1,26-38).
Ambedue le spiegazioni sono possibili, sebbene vada tenuto presente che qui sono i Nazaretani a parlare e che, quindi, le loro parole potrebbero avere un valore dispregiativo.
«il fratello di Giacomo, di loses, di Giuda e di Simone»: Dei quattro fratelli nominati qui solo due (Giacomo e Giuda) compaiono in altri passi del N.T.
«E le sue sorelle non stanno qui con noi?»: Le sorelle di Gesù non hanno nome. L'accenno alla professione di Gesù e ai suoi fratelli e sorelle serve a sottolineare la sua ordinarietà, che costituisce la fonte dello scandalo.
«Ed era per loro motivo di scandalo»: Il verbo «scandalizzare» (skandalízō), derivato da skandalon («una pietra che fa inciampare»), significa che i familiari e gli amici di Gesù non riuscivano a superare i propri pregiudizi fino al punto di accettare il comportamento e l’insegnamento di Gesù (vedi 3,20-21.31-35). Essi diventano come «quelli che sono fuori» di 4,10-12 per i quali l'insegnamento di Gesù era un enigma.
Se Gesù è proprio colui che essi conoscono, allora nulla di ciò che possono vedere o sentire da lui riuscirà a convincerli di qualcos'altro rispetto a ciò che già sanno. Si rammenti qui la frase di Lutero: «E molto meglio per te che Cristo venga attraverso l'Evangelo. Se entrasse ora dalla porta si troverebbe in casa tua e tu non lo riconosceresti!». Ora, per la gente del suo paese, Gesù è entrato dalla porta, la porta della sua casa, della sua officina di carpentiere, la porta delle case dei suoi vicini. Attraverso quelle porte è difficile intendere la Parola. Non ne arriva che l'eco, deformata dalle chiacchiere e dal fatto che si conoscono fin troppo bene le storie di quella famiglia.
v. 4 - «Un profeta...»: Gesù cita un proverbio molto diffuso e comune. Il destino di Gesù è quello di tutti i profeti, i quali, come Geremia (11,18-23; 12,6), erano costretti a riconoscere di essere osteggiati perfino dai fratelli e tra i membri della propria famiglia, oltre che tra i concittadini»
v. 5 - «non potè farvi alcun miracolo»: mancava la condizione indispensabile, ossia la fede, che Gesù richiedeva sempre, almeno come apertura del cuore a intendere il suo messaggio (cfr. Evangelo di Dom. scorsa).
v. 6 - «si meravigliava della loro incredulità»: nota realistica di Marco (omessa da Matteo) che mette in evidenza l'eccezionalità dell'ostinazione dei Nazaretani, la quale era tanto forte da suscitare la meraviglia dello stesso Gesù. La «meraviglia» (thaumázō) è la normale (e positiva) reazione della folla alla dimostrazione del potere di Gesù. Per Gesù è usata soltanto qui e rappresenta una paradossale controreazione all'incredulità. Matteo omette questa reazione di Gesù coerentemente con le altre modifiche apportate a quei passi di Marco che potrebbero dare l'idea di voler sminuire il potere o la dignità di Gesù. Anche se il termine «incredulità» è usato soltanto qui e in 9,34 («aiuta la mia incredulità»), esso rispecchia per Marco la netta alternativa tra fede e il suo contrario e tra comprensione e incomprensione. Qui ha anche una funzione simile alla bestemmia contro lo Spirito Santo in 3,29, ossia di un cattivo uso della libertà umana che nella persona chiude la porta all'azione di Dio. Matteo attutisce le drastiche alternative di Marco descrivendo i seguaci di Gesù come «gente di poca fede» (Mt 6,30; 8,26; 14,31; 16,8). Nel disegno di Marco l'episodio segna una svolta nell'attività di Gesù, che da questo momento non metterà più piede nelle sinagoghe.
L'episodio di Nazaret mette in luce con molta chiarezza il metodo di cui Dio invariabilmente si serve per ricondurci a sé. Ci rivolge il suo invito, ma attende la nostra apertura; bussa alla porta, ma non entra se non siamo noi ad aprirgli; ci chiama, ma la sua chiamata non avrà seguito se noi non lo vogliamo. Per questo Gesù manifesta le sue opere rivelatrici soltanto a coloro che lo accolgono con fede. Il che non significa assolutamente che la fede sia una specie di condizione che egli richiede per distribuire i suoi favori, come un sottile ricatto. La fede è un 'apertura del cuore che egli attende dall'uomo, per essere sicuro che quelli che cercano Dio lo cercano secondo verità e con una fiducia almeno iniziale in un amore che hanno cominciato ad intuire. Non si può andare al Padre se non per mezzo di lui, ma non si può andare a lui se non superando, in un modo o in un altro, quella soglia che l'uomo di buona volontà incontra sempre davanti a sé: l'apertura all'altro nell'impegno leale per una verità che si cerca di «fare» insieme.
Le collette con epiclesi chiedono la gioia santa e la luce dello Spirito per essere condotti alla gioia eterna che è la potenza della Sua Risurrezione:
I Colletta
O Dio, che nell'umiliazione del tuo Figlio
hai risollevato l'umanità della sua caduta,
donaci una rinnovata gioia pasquale,
perché, liberi dall'oppressione della colpa,
partecipiamo alla felicità eterna.
Per il nostro Signore...
II Colletta
O Padre, togli il velo dai nostri occhi
e donaci la luce dello Spirito,
perché sappiamo riconoscere la tua gloria
nell'umiliazione del tuo Figlio
e nella nostra infermità umana
sperimentiamo la potenza della sua risurrezione.
Per il nostro Signore Gesù Cristo…
Abbazia Santa Maria di Pulsano
Fonte:http://www.abbaziadipulsano.org
Commenti
Posta un commento