Padre Paolo Berti, “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria...”

XIV Domenica del T. O.         
Mc 6,1-6 
“Un profeta non è disprezzato se non  nella sua patria...”   
Omelia 

“Uno spirito entrò in me”, dice Ezechiele e con ciò presenta una forza interiore che lo spinge ad obbedire all'invito rivoltogli da Dio di mettersi in piedi davanti a lui per porsi in ascolto e in stato di servizio.
Dio non nasconde ad Ezechiele la durezza della missione che gli affida: ”Io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me”; “Quelli ai quali ti mando sono figli testardi dal cuore indurito”; “Sono una genia di ribelli”. Una missione difficilissima, ma che ha in ogni caso un risultato: “Ascoltino o non ascoltino - dal momento che sono una genìa di ribelli -, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro”. Il risultato, che non potrà mancare, è proprio questo: l'annucio che Dio è fedele e che un profeta è stato da lui inviato. Dunque ad Ezechiele viene chiesta una coerenza eroica, una fedeltà eroica, una perseveranza eroica di fronte ad un impari confronto, sostenibile solo con l'assistenza di Dio.
Ministero difficile quello del profeta, che aveva il compito di sanare le tante defezioni dall'Alleanza e orientare costantemente al Cristo, culmine di ogni ministero profetico, Parola suprema di Dio. Cristo, il Verbo incarnato, l'Inviato del Padre, è la Parola suprema del Padre, l'espressione eloquente dell'amore del Padre per il genere umano, e Cristo, obbediente alla missione affidatagli dal Padre l'ha compiuta in dipendenza dal Padre dicendoci le parole udite dal Padre. Non c'è da attendere altro profeta; Cristo è il vertice inarrivabile di ogni ministero profetico, così nel Nuovo Testamento possiede lo spirito di profezia (Cf. Ap 19,10), colui che, in dipendenza da Gesù e nella forza dello Spirito santo, testimonia Gesù, annunciandolo. Colui che annuncia il Vangelo annuncia Cristo, lui stesso, in se stesso Parola del Padre, che ha detto le parole udite dal Padre. Altre parole oltre quelle di Cristo non si danno. Tutte le lettere degli apostoli sono luce dello Spirito Santo illuminante Cristo e le sue parole.
Il carisma profetico di cui parla san Paolo è un dono dello Spirito Santo che riguarda la rivelazione di avvenimenti, di situazioni che stanno per accadere, al fine di premunire i cristiani a sostenerle maggiormente saldi in Cristo, ma anche riguarda intenzioni nascoste che vengono messe in luce al peccatore perché ne veda l'ingiustizia e si converta. E' un dono che rigorosamente opera nell'ambito della testimonianza di Gesù, e il testimone di Cristo non trova la sua forza in se stesso, ma nella grazia dello Spirito Santo. Paolo udiva la voce dell'umano che gli suggeriva che per annunciare nel modo migliore il Vangelo bisognava essere aitante, forte, capace di gestire con determinazione l'altezza delle rivelazioni avute, ma Dio aiutò Paolo a tenere in scacco la voce della carne attraverso l'umiltà. Dalla carne riceveva qualcosa di umiliante. Una spina confitta nella carne da parte di Satana. Una spina che era una martellante agitazione sensuale. Paolo domandò più volte di essere liberato da quella situazione, ma Gesù non lo fece, gli disse, invece, che doveva bastargli la grazia; con ciò, infatti, lo liberava dal tormento inflittogli dall'Accusatore di avere ceduto al peccato, poiché era, invece, in stato di grazia. Paolo allora comprese l'utilità di quella spina: era perché non montasse in superbia davanti a se stesso e agli uomini a causa delle rivelazioni avute.
Un testimone di Cristo sa che quando è debole è allora che è forte. La debolezza lo porta all'umiltà, alla preghiera, alla vigilanza, alla carità che sa comprendere le difficoltà del prossimo, e sa porsi al servizio del prossimo.
Cristo, ci dice S. Paolo, venne a noi nella debolezza (2Cor 13,4), e per questo fu crocifisso. Poteva venire a noi nella forza, poteva essere affiancato da legioni di angeli sterminatori (Mt 26,53), invece no. Nacque in una stalla al freddo, quando tutti pensavano che sarebbe nato in una reggia. Si guadagnò il pane con il faticoso lavoro del legnaiolo, quando tutti pensavano che sarebbe stato servito da paggi e servi. Camminò umilmente a piedi, quando ci si aspettava che sarebbe salito su cocchi e cavalli. Si circondò di discepoli senza cultura, quando invece si pensava che si sarebbe circondato dei dottori del tempio. Morì su di una croce di Roma, quando tutti lo pensavano organizzatore di eserciti vittoriosi su Roma.
Quando andò a Nazaret dovette dire: “Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Proprio così, un profeta è un uomo al servizio di Dio, la sua forza è Dio, per questo non si ammanta di prestigio, di onorificenze. Gesù era il figlio del falegname, nato in un povero paese, con un'infanzia modestissima e un parentado modestissimo: “Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Joses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle non stanno qui da noi?”. A Nazaret compariva la “debolezza” dei suoi natali, della sua formazione paesana. Dunque, quanto diceva e faceva non poteva essere considerato proveniente da Dio, ciò che viene da Dio, secondo i Nazaretani, doveva avere l'impronta della solennità, del tono d'importanza, del prestigio di una scuola per pochi. Per questo i Nazaretani si scandalizzavano di lui: a loro pareva impossibile che venisse da Dio quanto diceva e faceva. Ciò che diceva parlava d'amore, di umiltà, di accoglienza, di perdono, e ciò non piaceva. Così, l'argomento per confutarlo fu proprio il suo essere disadorno di un alone trionfale: “E che sapienza è quella che gli è stata data?”; e nella negazione di lui finivano anche i suoi miracoli assurdamente pensati come provenienti dal Male (Cf. Mt 9,34; 12,24; Mc 3,22; Lc 11,15). Non fece molti miracoli a Nazaret perché non vide che ben poca fede. La fede non poteva entrare in quei cuori perché essi volevano potenza, ricchezza, prestigio, armi. Quante volte gli uomini hanno girato le spalle a Cristo per seguire uomini pieni di boria, di volontà di potenza, di promesse di grandezza terrena. Non dimentichiamoci le folle oceaniche di Hitler. Non dimentichiamo le parate rosse di fronte agli Acciai (Stalin vuol dire acciaio), e via dicendo.
E diciamo anche qualcosa su di noi cristiani. Quando abbiamo voluto ammantarci di potenza terrena illudendoci - colpevolmente - che con essa avremmo diffuso più sicuramente il Vangelo, abbiamo fallito.
Allora non dobbiamo avere paura della debolezza. Quando si tratta di difendere la verità non dobbiamo pensare ad altro che Cristo ci sta assistendo. Se pensiamo che siamo in minoranza, che coloro che ci stanno davanti possono schiacciarci, zittirci, e per questo ci conformiamo a loro, commettiamo un atto di infedeltà verso Cristo e non siamo più testimoni e perciò non abbiamo più coraggio profetico. Noi ci blocchiamo ai quattro beni della terra e siamo incerti e deboli costruttori del futuro, perché in noi c'è difetto dello "Spirito di profezia" di cui san Giovanni parla nell'Apocalisse (19,10). Sempre educati, sempre rispettosi, ma sempre veri. E se siamo sommersi dalla dialettica degli avversari di Dio, non lo saremo in realtà se sapremo essere miti anche di fronte agli arroganti, anche di fronte a quelli che non hanno lo stile dell'arroganza - oggi non di moda, come ieri - ma ugualmente pronunciano parole che sono come “pugnali sguainati”, come dice il salmo (54,22): “Più fluide dell'olio le sue parole, ma sono pugnali sguainati”. Dunque, fratelli e sorelle, diciamo con S. Paolo: “Mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte“. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

Fonte:  http://www.perfettaletizia.it   

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