P. Marko Ivan Rupnik,Commento XX Domenica del Tempo Ordinario
XX Domenica del Tempo Ordinario - Anno B
Gv 6,51-58
Congregatio pro Clericis
Quei Giudei della volta scorsa, che in Giovanni sono quelli che sostengono e osservano la posizione ufficiale della loro tradizione, quelli che mormoravano perché aveva detto di essere il pane disceso dal cielo (cf Gv 6,41), oggi discutono aspramente: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (Gv 6,52). La carne, nel mondo ebraico semitico, significa la persona umana in tutta la sua realtà, soprattutto quella immediatamente percepita, più esposta, più fragile, più vulnerabile. Qui Cristo, dicendo che praticamente tutto quello che di lui possono vedere e toccare è il nutrimento, chiude ogni possibilità di comprendere in modo gnostico il suo messaggio, la sua vita (cf Gv 6, 51.58).
Il processo cui l’uomo è normalmente abituato consiste nell’insegnare, mettere in pratica e poi aspettare il premio, che evidentemente è dovuto. Ma Cristo dice esattamente il rovescio, che la sua vita stessa, così come la si vede è questa sapienza che nutre la vita, è questa vita/sapienza.
Lui ha un Padre con cui sta sempre in dialogo, c’è sempre una missione, e questa vita umana che Lui vive diventa la salvezza per il mondo, per tutta l’umanità, proprio per la sua relazione con il Padre (cf Gv 14,31). Tutto questo è la sua carne. Questa è la storia della sua carne: la missione, Colui che lo ha mandato, l’obbedienza a Lui, fare solo ciò che vede dal Padre, dire solo ciò che il Padre comanda. Tutta questa vita che diventa cibo per il mondo è rinchiusa nell’Eucaristia, in quel pane che Lui ci lascerà.
Non è una visione ideale ma una storia, quella che Lui vive nella sua carne, nella realtà umana tale e quale, a diventare cibo per ogni realtà umana. Tutto questo è rinchiuso nell’Eucarestia. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56).
È curiosa questa sottolineatura del cibo, si parte con il mangiare del verbo fago (cf Gv 6, 53) ma si arriva addirittura al trogo (Gv 6,54) che è piuttosto riferito al modo di mangiare degli animali, masticando con i denti. Ovvero masticare così tanto da vedere la concretezza, da chiudere la possibilità di una idealizzazione, di un romanticismo, di un devozionismo. Perché si vede che si tratta di una assunzione, di un assorbimento di quella realtà per la mia realtà.
Siamo ben lontani da qualsiasi intellettualismo gnostico o intimismo romantico, si tratta proprio della questione della vita vera dell’uomo e bisogna mangiare e nutrire questa vita, bisogna masticare. Perciò non basta la Parola, non basta spiegare e stare con la Parola di Dio, bisogna proprio mangiare la carne di questa Parola che è la vita, perché è facile cadere nell’idealismo della dottrina, delle cose che bisogna poi mettere in qualche modo in pratica. Ma è l’opposto, l’inizio è la pratica, è la realtà umana, è da lì che si parte. Perché quella è la vita vera e quella si mastica, altrimenti non avrete vita in voi (cf Gv 6, 53), perché la realtà umana, tale e quale è, non è fonte della vita, c’è bisogno di una vita.
Questo avere la vita ci rimanda a Giovanni 5,26: “Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in sé stesso” e a Giovanni 6,57: “Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me, vivrà per me”. Sono solo due che hanno la vita in sé stessi: il Padre e il Figlio.
L’uomo non avendo la vita la cerca sempre, dovunque la trova vive una sottomissione, vive per quello che gli ha dato vita e di questo abbiamo un’esperienza continua. Dove uno assapora un po’ di vita, lì si attacca.
Ma ora la vera liberazione ha come sottofondo l’Agnello pasquale, che si mangia e si beve. C’è il sangue che salva la vita. La vera liberazione adesso sarà che l’uomo non avrà più bisogno di andare a cercare la fonte della vita, perché la stessa realtà umana che io vivo e che è fragile, precaria e che ha bisogno di forza, proprio la realtà che io vivo la trovo già assunta in Cristo e diventa per me il cibo.
Allora divento ciò che mangio, cioè vivo per Lui. Il dono si nutre con il dono e il dono nutre il dono. Questo è nutrirsi della Parola. Mangiare e vivere l’Eucarestia come nutrimento della vita fa di me una vita che è dono, perché vivo per Cristo. Come Cristo per il Padre è un dono per noi, così noi ci nutriamo con un dono che ci fa dono.
E perciò è molto importante anche per la nostra esperienza quotidiana, perché se tu vivi come un dono per Cristo, non cerchi le cose per te, non cerchi il pagamento del bene che hai fatto. E in questo essere dono si possono anche sbagliare molte cose nella vita, ma come dono si può continuare a offrirsi, nella carne.
P. Marko Ivan Rupnik
Fonte:http://www.clerus.va
Gv 6,51-58
Congregatio pro Clericis
Quei Giudei della volta scorsa, che in Giovanni sono quelli che sostengono e osservano la posizione ufficiale della loro tradizione, quelli che mormoravano perché aveva detto di essere il pane disceso dal cielo (cf Gv 6,41), oggi discutono aspramente: “Come può costui darci la sua carne da mangiare?” (Gv 6,52). La carne, nel mondo ebraico semitico, significa la persona umana in tutta la sua realtà, soprattutto quella immediatamente percepita, più esposta, più fragile, più vulnerabile. Qui Cristo, dicendo che praticamente tutto quello che di lui possono vedere e toccare è il nutrimento, chiude ogni possibilità di comprendere in modo gnostico il suo messaggio, la sua vita (cf Gv 6, 51.58).
Il processo cui l’uomo è normalmente abituato consiste nell’insegnare, mettere in pratica e poi aspettare il premio, che evidentemente è dovuto. Ma Cristo dice esattamente il rovescio, che la sua vita stessa, così come la si vede è questa sapienza che nutre la vita, è questa vita/sapienza.
Lui ha un Padre con cui sta sempre in dialogo, c’è sempre una missione, e questa vita umana che Lui vive diventa la salvezza per il mondo, per tutta l’umanità, proprio per la sua relazione con il Padre (cf Gv 14,31). Tutto questo è la sua carne. Questa è la storia della sua carne: la missione, Colui che lo ha mandato, l’obbedienza a Lui, fare solo ciò che vede dal Padre, dire solo ciò che il Padre comanda. Tutta questa vita che diventa cibo per il mondo è rinchiusa nell’Eucaristia, in quel pane che Lui ci lascerà.
Non è una visione ideale ma una storia, quella che Lui vive nella sua carne, nella realtà umana tale e quale, a diventare cibo per ogni realtà umana. Tutto questo è rinchiuso nell’Eucarestia. “Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui” (Gv 6,56).
È curiosa questa sottolineatura del cibo, si parte con il mangiare del verbo fago (cf Gv 6, 53) ma si arriva addirittura al trogo (Gv 6,54) che è piuttosto riferito al modo di mangiare degli animali, masticando con i denti. Ovvero masticare così tanto da vedere la concretezza, da chiudere la possibilità di una idealizzazione, di un romanticismo, di un devozionismo. Perché si vede che si tratta di una assunzione, di un assorbimento di quella realtà per la mia realtà.
Siamo ben lontani da qualsiasi intellettualismo gnostico o intimismo romantico, si tratta proprio della questione della vita vera dell’uomo e bisogna mangiare e nutrire questa vita, bisogna masticare. Perciò non basta la Parola, non basta spiegare e stare con la Parola di Dio, bisogna proprio mangiare la carne di questa Parola che è la vita, perché è facile cadere nell’idealismo della dottrina, delle cose che bisogna poi mettere in qualche modo in pratica. Ma è l’opposto, l’inizio è la pratica, è la realtà umana, è da lì che si parte. Perché quella è la vita vera e quella si mastica, altrimenti non avrete vita in voi (cf Gv 6, 53), perché la realtà umana, tale e quale è, non è fonte della vita, c’è bisogno di una vita.
Questo avere la vita ci rimanda a Giovanni 5,26: “Come infatti il Padre ha la vita in sé stesso, così ha dato anche al Figlio di avere la vita in sé stesso” e a Giovanni 6,57: “Come il Padre che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me, vivrà per me”. Sono solo due che hanno la vita in sé stessi: il Padre e il Figlio.
L’uomo non avendo la vita la cerca sempre, dovunque la trova vive una sottomissione, vive per quello che gli ha dato vita e di questo abbiamo un’esperienza continua. Dove uno assapora un po’ di vita, lì si attacca.
Ma ora la vera liberazione ha come sottofondo l’Agnello pasquale, che si mangia e si beve. C’è il sangue che salva la vita. La vera liberazione adesso sarà che l’uomo non avrà più bisogno di andare a cercare la fonte della vita, perché la stessa realtà umana che io vivo e che è fragile, precaria e che ha bisogno di forza, proprio la realtà che io vivo la trovo già assunta in Cristo e diventa per me il cibo.
Allora divento ciò che mangio, cioè vivo per Lui. Il dono si nutre con il dono e il dono nutre il dono. Questo è nutrirsi della Parola. Mangiare e vivere l’Eucarestia come nutrimento della vita fa di me una vita che è dono, perché vivo per Cristo. Come Cristo per il Padre è un dono per noi, così noi ci nutriamo con un dono che ci fa dono.
E perciò è molto importante anche per la nostra esperienza quotidiana, perché se tu vivi come un dono per Cristo, non cerchi le cose per te, non cerchi il pagamento del bene che hai fatto. E in questo essere dono si possono anche sbagliare molte cose nella vita, ma come dono si può continuare a offrirsi, nella carne.
P. Marko Ivan Rupnik
Fonte:http://www.clerus.va