FIGLIE DELLA CHIESA, Lectio XXIV Domenica del Tempo Ordinario

XXIV Domenica del Tempo Ordinario
 Lun, 10 Set 18  Lectio Divina - Anno B

La XXIV Domenica del Tempo Ordinario cade al riavvio delle attività sia parrocchiali che lavorative, in quanto il riposo estivo si è ormai concluso per tutti e sia nella vita personale, che nella vita di comunità, si riprende l’ordinaria attività, programmando gli impegni dell’anno. È importante considerare il contesto in cui siamo immersi mentre riceviamo l’annuncio evangelico, perché ci permette di comprendere la chiave di lettura che il Vangelo può dare alla nostra vita nel momento che stiamo vivendo. La liturgia della Parola di questa domenica ci pone di fronte alla scelta che Gesù fa del tipo di messianismo col quale portare avanti la missione che il Padre gli ha affidato. La prima lettura tratta dal Libro del profeta Isaia, ci presenta proprio la decisione del Messia di realizzare il piano di salvezza in un modo che noi non ci aspetteremmo o non sceglieremmo mai: la via della sofferenza e dello scherno. Una scelta dunque che coinvolge in pieno il messianismo di Gesù che non sceglie di salvarci con la forza, come i discepoli si aspettavano, bensì con la sofferenza che redime.

Se, da un lato, la lettura tratta dal profeta Isaia ci mostra la scelta di Gesù, il vangelo ci pone di fronte ad un bivio in cui anche noi dobbiamo fare la nostra scelta e indicare in quale Gesù crediamo, qual è il volto del Signore che portiamo nel cuore, perché solo così potremo verificare se coincide con il volto che il vangelo ci mostra. La domanda diretta che il Nazareno rivolge ai suoi, è dunque rivolta a tutta la Chiesa, è rivolta alla comunità parrocchiale di cui facciamo parte, è rivolta alla personale esperienza spirituale di ciascun credente. Accostarci alla liturgia di questa domenica dunque comporta il sentirsi rivolgere la domanda chiara e senza fronzoli: Tu chi dici che io sia? Cioè tu che ti affanni quotidianamente, che ti trovi ad affrontare situazioni difficili, chi dici che sia il Signore? È interessante allora seguire il cammino che il Maestro fa fare ai suoi discepoli, perché è lo stesso che chiede anche a noi.

v.27a: «Poi Gesù partì con i suoi discepoli verso i villaggi intorno a Cesarèa di Filippo…» La pericope evangelica che la liturgia ci propone, si colloca in un punto cruciale nel vangelo di Marco. Ci troviamo infatti nel mezzo della narrazione, che fino ad adesso ha mostrato un agire del Signore fatto di miracoli, di guarigioni, di esorcismi, accompagnati dall’ingiunzione di non dire ad alcuno i benefici ricevuti, senza tuttavia sortire l’effetto sperato. In questo scenario si colloca il viaggio di Gesù verso Cesarea, il luogo più lontano raggiunto in regione pagana. È l’inizio di quel viaggio che lo porterà verso la lontananza più impensata, quella che raggiunge l’uomo che si è allontanato da Dio per ricondurlo a sé. E proprio in questo viaggio Egli porta i suoi perché imparino a seguirlo sulla via della croce. Insieme ai discepoli siamo condotti anche noi, per imparare la difficile sequela di un Dio che muore e risorge.

v.27b – 28: «…e per la strada interrogava i suoi discepoli dicendo: "La gente, chi dice che io sia? " Ed essi gli risposero: "Giovanni il Battista; altri dicono Elia e altri uno dei profeti"» La lenta educazione dei discepoli comincia con una domanda che sembra partire da lontano, quasi come se il Signore volesse prendere tempo. In realtà è un modo molto efficace per permettere ai suoi di prendere coscienza di quello che vivono e delle risonanze che il contesto suscita anche nei loro cuori. Infatti la risposta è particolarmente indicativa di uno stile che è diventato abituale nel nostro modo di vivere il cristianesimo, in quanto non si fa altro che ridurre l’esperienza sconvolgente con Gesù, ad un déjà vu, un qualcosa che possiamo definire come già visto, già vissuto, già sperimentato. È questo un gravissimo rischio che corriamo tutti: quello di ridurre la persona di Gesù a qualcosa che possiamo catalogare o contenere, da cui derivano le storture del “si è fatto sempre così”, con l’effetto di paralizzare la novità dirompente che anche oggi il vangelo vuole proporre.

v.29: «Ed egli domandava loro: "Ma voi, chi dite che io sia?". Pietro gli rispose: "Tu sei il Cristo"» Come con i discepoli, il Signore non si accontenta delle nostre risposte preconfezionate che non ci coinvolgono e che ci lasciano nel nostro mediocre perbenismo, ma ci sprona a dare una risposta personale riguardo la sua identità. Il verbo usato dall’evangelista Marco è all’imperfetto, ad indicare che è una domanda che viene continuamente rivolta a chi decide di accogliere l’invito di Gesù a seguirlo. È indispensabile infatti che rispondiamo personalmente a questa domanda, in quanto ci interpella a dire prima a noi stessi chi è Gesù per noi, quale posto gli diamo nella nostra vita, quale valore ha nelle nostre scelte piccole o grandi. La domanda sull’identità richiama necessariamente il nostro grado di conoscenza, quanto abbiamo imparato a conoscerlo e ad accoglierlo nella nostra quotidianità. L’interrogativo sull’identità di Gesù risuona forte anche per noi: “Tu, chi dici che io sia? Chi sono per te?”.

Il quesito è rivolto a tutti i discepoli, ma a rispondere è solo Pietro! Il vangelo parallelo di Matteo ci dice anche il motivo per cui è solo Pietro a rispondere: “Beato te, Simone figlio di Giona, perché né la carne né il sangue te l'hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli” (cf Mt 16,13-20). “Nella parola «Cristo» si cristallizza tutto quanto di bello e di buono l’uomo può attendere da Dio. Tutte le azioni e le parole raccontate fin qui danno il significato vero e pieno a questo termini, che significa messia (=unto, consacrato), re» (S. Fausti). È dunque una risposta che solo lo Spirito del Padre può donarci, perché indica un’appartenenza totale e totalizzante che non può essere solo frutto dell’agire dell’uomo, ma che richiede un dono particolare del Padre. È Pietro a rispondere, figura della Chiesa che ha già in sé la rivelazione di chi è Gesù e che ne custodisce l’identità. Ogni cristiano deve farla propria questa identità nella testimonianza di una vita che profumi di questa appartenenza e che si completa nel cammino dell’intera esistenza.

v.30 – 31: «E ordinò loro severamente di non parlare di lui ad alcuno. E cominciò a insegnare loro che il Figlio dell'uomo doveva soffrire molto…». Il comando di non dire nulla ad alcuno, che può sembrare strano, visto che la risposta è giusta, si colloca nella linea del cammino di accoglienza della vera identità di Gesù. Quel segreto che la Chiesa custodisce, ha bisogno di essere assimilato e incarnato nella vita concreta di ciascun credente ed è per questo che Gesù comincia ad educare i suoi, e noi, al mistero incredibile della croce come via per la salvezza. Ogni volta che dichiariamo con la vita un’identità di Cristo che non rispecchia il mistero della croce, il Signore ci comanda di tacerlo, di non testimoniarlo, perché ci porta a vivere un cristianesimo che non coincide con la buona notizia del Vangelo. È il dramma dei nostri tempi: noi cristiani con la vita mostriamo un volto di Dio che non coincide con quello che Gesù ha annunciato e rivelato. Quando non perdoniamo, quando non accogliamo, quando giudichiamo senza misericordia, quando ci ergiamo a giustizieri di Dio lì dove invece dovremo portare la tenerezza del nostro Dio … è lì che anche per noi risuona l’ordine severo di Gesù di tacere!

v.32: «Faceva questo discorso apertamente. Pietro lo prese in disparte e si mise a rimproverarlo.» È il verso centrale della pericope evangelica di questa domenica che ci permette di cogliere la subdola dinamica di opposizione che si innesca nel nostro cuore nel momento stesso in cui si rivela il mistero più grande che Gesù è venuto a consegnarci. È interessante notare come Gesù si rivolge apertamente a tutti i suoi discepoli e non ha “peli sulla lingua” come si suol dire, cioè non fa sconti e non nasconde nulla. Di contro Pietro ha un atteggiamento opposto: prende in disparte, lontano dagli altri, perché quello che sta per dire in un certo senso è imbarazzante per il Maestro e quindi è da tenere nascosto. La scena richiama la descrizione che fa l’evangelista Giovanni riguardo gli uomini che camminano nella luce e gli uomini che camminano nelle tenebre: “Chiunque infatti fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio” (3,20-21). È questa anche un’importante legge di vita spirituale a cui tutti dovremmo prestare molta attenzione, perché tutte le volte che il nostro agire non è limpido, preferiamo di rimanere nell’ombra, di non essere visti, di tenerlo nascosto e prestarvi attenzione ci permette di riconoscere che non stiamo ragionando secondo i criteri di Dio, ma secondo i nostri criteri.

Il punto infatti è proprio questo, è tutta una questione di criteri! È inutile che ci illudiamo o che ci inganniamo: noi non abbiamo i criteri di Dio, i suoi sono decisamente diversi dai nostri e opposti: “i miei pensieri non sono i vostri pensieri, le vostre vie non sono le mie vie - oracolo del Signore. Quanto il cielo sovrasta la terra, tanto le mie vie sovrastano le vostre vie, i miei pensieri sovrastano i vostri pensieri” (Is. 55,8-9). Non tener conto di questa fondamentale realtà ci conduce inesorabilmente a farci maestri di Dio, a insegnargli come fare per affermare il Regno di Dio, ponendoci lontani da Lui.

v.33: «Ma egli, voltatosi e guardando i suoi discepoli, rimproverò Pietro e disse: "Va' dietro a me, Satana! Perché tu non pensi secondo Dio, ma secondo gli uomini"». Il movimento di Gesù riporta Pietro a ricongiungersi ai discepoli dai quali si era staccato, pensando di essere migliore e davanti a tutti lo rimprovera. È un vero e proprio esorcismo che Gesù compie su Pietro e su ciascuno di noi ogni volta che ci mettiamo al posto di Dio e ci arroghiamo il diritto di sapere cosa sia bene fare o dire, ponendoci fisicamente davanti a Lui, davanti ai suoi precetti con la semplice giustificazione che noi sappiamo cosa sia veramente buono per la nostra vita e per la vita degli altri. Il Maestro riporta il discepolo al suo posto, quello che gli spetta, ossia dietro a Lui: «il discepolo non deve mettersi davanti, ma dietro al suo maestro. Non lui deve seguire noi, bensì noi lui. Pietro vorrebbe tirare il Cristo dalla propria parte, invece che passare lui dalla sua. È una operazione diabolica, che capovolge radicalmente le fede: invece di obbedire noi al Signore, dovrebbe lui obbedire a noi!» (S. Fausti)

v.34: «Convocata la folla insieme ai suoi discepoli, disse loro: "Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vuole salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia e del Vangelo, la salverà» Adesso Gesù può convocare la folla e dichiarare l’identità del discepolo, perché la sua è ormai chiara. Difatti “il discepolo non è più grande del suo maestro” (cf Mt 10,24) e nella misura in cui riconosciamo il vero volto del Cristo che si rivela pienamente sulla croce, riconosciamo anche chi siamo noi, qual è il nostro ruolo nella Chiesa e in che modo il Signore si rivela nella nostra vita e ci salva. Le tre indicazioni che Gesù dà designano il cammino che da ora in poi ogni credente dovrà percorrere se vuole davvero seguire il suo Signore. Sì, se vuole, perché la sequela di Gesù non è un obbligo, ma una scelta! E la scelta non può avvenire se prima non abbiamo fatto esperienza di un Dio che ci ama alla follia, fino a dare tutto se stesso morendo da infame su una croce. Solo allora infatti saremo capaci di “rinnegare” noi stessi, perché saremo certi di non perdere nulla, saremo capaci di disinnescare la paura di morire, perché un amore così ha già vinto ogni nostra morte e saremo in grado di seguirlo dovunque Egli vada.

Fonte:figliedellachiesa.org

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