MONASTERO DI RUVIANO, Commento VENTIQUATTRESIMA DOMENICA ORDINARIA 2018

Geroges Rouault: Cristo e i discepoli (ca. 1931) (New York, Metropolitan Museum)
VENTIQUATTRESIMA DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO
Is 50, 5-9; Sal 114; Gc 2,14-18; Mc 8, 27-35

Domanda culmine dell’Evangelo di Marco quella che oggi risuona: Voi chi dite che io sia? È quella che anche nella nostra cappella monastica sovrasta l’icona del Crocefisso sul cartiglio della Croce. Il Crocefisso interpella e bisogna dare risposta.

Il testo dell’Evangelo di oggi, supportato da alcuni versetti del carme di Isaia sul Servo sofferente che è la Prima lettura, è piena di temi importanti e ne lancia di nuovi. E’ il cuore dell’Evangelo di Marco; si trova al centro preciso della narrazione e ne è culmine e punto di nuova partenza.

Le domande circa l’identità di Gesù erano risuonate in tutta la prima parte del racconto e da parte della gente (1,22.27) e da parte dei nemici per cui è un bestemmiatore (2,7) e da parte dei discepoli attoniti sulla barca dopo la tempesta sul lago (4,41) e da parte dei suoi concittadini che non riescono a vedere nell’ordinarietà di Gesù la verità della sua pretesa (6,1-6): Perfino Erode Antipa si chiede chi sia Gesù e presuntuosamente dà anche la sua risposta superstiziosa (6, 14-16). Tutte queste risposte sono sintetizzate dai discepoli a Cesarea di Filippo; siamo fuori dalla terra di Israele e qui Pietro dirà la verità su Gesù: è il Cristo. Ma, lo vedremo, è una verità non compresa e detta in modo ambiguo.

L’Evangelo di Marco è strutturato in modo da essere per davvero un viaggio dello spirito che parte dall’oscurità della notte del cuore e avrà come meta quella luce paradossale del Calvario; a Gerusalemme, al cuore della terra di Israele, Gesù verrà rigettato e crocefisso ma lì ci sarà la confessione autentica: “Davvero quest’uomo era il Figlio di Dio!” ma sulla bocca di un “lontanissimo”, sulla bocca di un pagano crocifissore.

A Cesarea di Filippo il viaggio dall’oscurità alla luce del Calvario riceve cero un bagliore di luce quando Pietro, a nome di tutti, risponde con una parola di verità: è il Cristo, ma Gesù capisce bene che Pietro e gli altri ora posseggono una verità che però, essendo male intesa, può divenire pericolosa, fuorviante, ingannevole. Per questo li ammonisce severamente di non dire niente al alcuno. Su quella loro ambigua conoscenza Gesù pianta il primo annunzio della croce: se è vero che è il Cristo Egli lo è nella logica della croce, dell’offerta di sè non nelle logiche di potenza e di vittoria che albergano nel cuore di Pietro e degli altri (i figli di Zebedeo al capitolo 10 – vv.35-37 – sono ancora fissi su questa idea mondana di un Cristo vittorioso e potente, capo di eserciti e dominatore politico). Questo annunzio di Gesù è il primo bagliore di vera luce nel viaggio che Marco fa fare ai suoi lettori.

In questo annunzio appare una parola che, cara alla Chiesa nascente, deve diventare cara sempre più anche a noi: “parresía”; Gesù dice questa parola esigente sulla croce con “parresía”, con franchezza, senza infingimenti o edulcorazioni; sì, va bene anche “apertamente” ma in cui bisogna cogliere il totale rifiuto di ogni volontà di blandire gli ascoltatori o di attrarli mostrando vie facili. Marco, alla lettera, scrive che Gesù “con parresía diceva la parola”.

E’ questo il primo annunzio della passione che l’Evangelo registra ed è introdotto da quel “dei” (“è necessario”, “bisogna”) che ha fatto nascere fiumi di interpretazioni a volte anche fortemente svianti. “È necessario” non significa che Dio ha voluto la croce di Gesù per essere “soddisfatto” dell’offesa arrecatagli con il peccato dell’uomo, non è un destino con cui Gesù è segnato da una “perversa volontà divina” (un Dio così non è il Padre delle misericordie che Gesù ha narrato con tutta la sua vita!); “è necessario” perché una violenza inaudita sta per abbattersi sull’Inviato di Dio perché in questo mondo ingiusto il giusto è condannato perché il giusto è condanna per il mondo con la sua sola esistenza (cfr Sap 2,12-20). Ma non basta questo a spiegare quel “dei”. C’è altro: è necessario perché Dio ha deciso di rivelarsi nella croce. Non può e non vuole farlo altrove: sarebbe travisato, come al solito, dalle perversioni “religiose” degli uomini. “È necessario” che Dio si riveli accettando su di sé la violenza

inaudita del mondo. Il Dio che Gesù narrerà con la Passione non è il Dio che sopprime la violenza degli uomini con un atto di potenza, ma è il Dio che, in Gesù, sceglie di consegnarsi a quella violenza per dichiarare quanto essa sia mortifera, assurda e cieca. La attraverserà con amore e ad essa risponderà con la vita: “e il terzo giorno risusciterà!” Si badi e non “ma il terzo giorno risusciterà”! La Resurrezione non è un “ma”, la Risurrezione è invece la risposta impensabile di vita a un’opera di morte; così, in Gesù, Dio ha salvato il mondo: “inceppando” il meccanismo della violenza e rispondendo alla violenza con la tenerezza, all’odio con l’amore, alla morte con la vita.

Dio ha deciso di rivelarsi proprio lì sulla croce che gli uomini preparano per il Figlio amato che così, e solo così, sarà il Cristo!

Pietro non può capire e “minaccia” Gesù, lo ammonisce a non dire quelle cose! Rimprovera la sua parresía! Marco usa qui lo stesso verbo che aveva usato per Gesù che ammoniva Pietro e gli altri di non parlare della sua messianicità (è il verbo “epitimáo” che esprime fermezza e minaccia ed anche biasimo); Pietro ha osato lasciare il suo posto di discepolo alla sequela di Gesù e gli è passato avanti per “minacciarlo” ed insegnare a Lui come essere il Cristo. Questo suscita ancora una “minaccia” (ancora il verbo “epitimáo”!) da parte di Gesù che non dice a Pietro di allontanarsi, come pure alcune traduzioni fanno intendere, ma di “tornare dietro di lui”, di tornare alla sua posizione di discepolo. Solo da lì potrà seguirlo fino a Gerusalemme e capire chi davvero sia Gesù, come sia il Cristo!

Rispondere alla domanda circa l’identità di Gesù è di capitale importanza per ogni vita cristiana in quanto ogni inganno su quella identità diventa inganno nella sequela e nel volto di Chiesa che si propone. La vera conoscenza dell’identità di Gesù fonda tra noi e Lui una relazione autentica e Marco in questo testo è chiarissimo: non può esserci relazione con Cristo che si fondi sul desiderio di potere e sulla pretesa di sapere tutto. L’Evangelo è fortemente critico su queste vie! Sono quelle che Pietro sogna e sono quelle del mondo e non quelle scelte da Dio.

Chi vuole essere discepolo di Gesù di Nazareth dovrà passare attraverso il sonno del Getsemani, attraverso la fuga, attraverso i rinnegamenti, attraverso la paura che impedisce di salire al Golgotha; passando per queste vie fallimentari il discepolo diventerà discepolo per davvero perché capirà che il Cristo, quello vero, il solo vero, si incontra solo quando si assume la debolezza, quando si capisce che si è impotenti e poveri, quando si capisce che da soli non si può neanche accedere alla fede. Altre vie sono diaboliche, in senso letterale, in quanto separano, dividono da Cristo!

Per poter capire chi è davvero Gesù è allora necessario fare solo quello che Gesù stesso ha chiesto perentorio a Pietro: “ìupaghe opíso mou!”, “passa dietro di me”.

Solo da quella posizione di vera sequela si può contemplare il suo cammino verso Gerusalemme; lo si seguirà forse a tentoni, forse tra tante cadute, ma poi si contemplerà la Croce e da lì si potrà ripartire! Certo, la via della croce è dura, disorientante e richiede lotta!

Dinanzi alla croce resta impassibile e sereno, senza disorientamenti e tentennamenti, solo chi, abituato al racconto dell’Evangelo, ne ha fatto una “storia religiosa” su cui, tutt’al più, versare qualche lacrimuccia come a teatro e non capisce più che Gesù ed il suo Evangelo sono un interrogativo radicale e compromettente sull’esistenza dell’uomo.

“Voi chi dite che io sia?”

P. Fabrizio Cristarella Orestano

Fonte:MONASTERO DI RUVIANO,

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