FIGLIE DELLA CHIESA, Lectio Divina XXIX Domenica del Tempo Ordinario

XXIX Domenica del Tempo Ordinario
 Lun, 15 Ott 18  Lectio Divina - Anno B

L’evangelista pone il dialogo tra Gesù e i figli di Zebedeo e il successivo insegnamento di Gesù in concomitanza con il terzo annuncio della passione, creando così un forte contrasto tra le parole di Gesù e le aspettative dei discepoli. Che l’accostamento non sia casuale ne è prova il fatto che anche in precedenza Marco non ha mancato di evidenziare l’incomprensione che si manifesta nei dodici in occasione degli annunci della passione e della risurrezione. La sequenza è sempre la stessa: annuncio della passione, incomprensione e successivo insegnamento sulla sequela. Dinanzi a questo parlare aperto di Gesù, Marco registra puntualmente la reazione negativa dei dodici: prima Pietro (8,32), poi i dodici preoccupati di sapere chi è il più grande (9,33) e infine Giacomo e Giovanni (10,35): Gesù non si scoraggia e proprio il loro indurimento offre l’occasione per un insegnamento più deciso sulla sequela.

v.36: La domanda che Gesù pone ai discepoli è la stessa che farà, pochi versetti più avanti, a Bartimeo: “cosa volete che io faccia per voi”. C’è differenza tra il modo di porsi di Gesù e il modo di porsi di Bartimeo. Ma in fondo, questa domanda, questo modo di porsi di Gesù davanti ai discepoli e a Bartimeo racchiude un po’ la medesima cecità. È bello che venga a coincidere la domanda di Giacomo e Giovanni e la cecità di Bartimeo. In fondo, chiedere di sedere nella gloria, uno alla destra e uno alla sinistra, è la vera cecità di ciascuno di noi. La vera cecità è la ricerca dei posti di comando. Ma di questa cecità noi siamo consapevoli e siamo indotti alla conversione da una domanda che non facciamo noi: cosa volete che io faccia per voi? In fondo, ciò che converte al servizio è il servizio, ciò che converte all’umiltà è l’umiltà. Non ciò che induce, ma ciò che converte. C’è poi questa docilità di Giacomo e Giovanni sia a bere il calice che a ricevere il battesimo, ma c’è in virtù di questa domanda: cosa volete che io faccia per voi? In fondo, di fronte a ogni potere, paradossalmente, ciò che siamo chiamati a vivere è il potere che ci è dato di metterci al servizio. Quanto più abbiamo responsabilità, tanto più dobbiamo essere in grado di porre questa domanda: cosa volete che faccia per voi?

v.37: Sembra che Giacomo e Giovanni stiano immaginando il cammino di Gesù come un andare verso la sua gloria e probabilmente intendono la gloria terrena, regale, di una persona che sta per salire sul trono ed esercitare il potere messianico sul popolo di Israele. Per fortuna c’è un elemento che salva la richiesta di Giacomo e Giovanni; non chiedono: “dacci il potere”; ma “rendici vicini alla tua gloria, uno alla tua destra l’altro alla tua sinistra”. Volere la gloria è insieme ingenuo e sbagliato, ma qui chiedono la gloria di Gesù. Ed è questo “vicino a Gesù” che salva la richiesta di Giacomo e Giovanni.
È difficile dire su cosa Giacomo e Giovanni fondassero la loro richiesta: forse sul loro essere cugini o parenti di Gesù, come tramanda una tradizione antica, ma è più facile che facessero valere la loro anzianità di chiamati essendo con Gesù fin dall’inizio, oppure il loro zelo, la loro fedeltà. In ogni caso la loro è la solita pretesa che emerge in ogni vita comunitaria circa i primi posti o almeno i secondi quale privilegio acquistato con qualche atteggiamento buono o valoroso.

v.38: Il calice è un’immagine biblica classica, indica il giudizio di Dio sul peccato dell’uomo. “Bere il calice” vuol dire: bere la punizione per l’infedeltà e per il peccato umano. Il “battesimo” indica l’immersione della propria vita, il perdere la vita annegati dentro ad un’acqua che sommerge totalmente la vita dell’uomo. Significa essere travolto dal male, dalla sofferenza, dalla morte. Gesù dunque propone loro il calice e il battesimo quale martirio, quale morte, quale costo di partecipazione alla gloria messianica.
Anche qui si noti quanto sia significativo: Gesù non dice: siete disposti a soffrire e a morire; ma dice: siete disposti a soffrire la mia sofferenza, siete disposti a morire della mia morte? Ed è per questo che Giacomo e Giovanni rispondono: lo possiamo. Può darsi che sia un’espressione di presunzione, ma è anche probabilmente di generosità. Certamente il calice e il battesimo sono realtà ripugnanti, ma sono il calice e il battesimo di Gesù e per questo è possibile dire: lo possiamo, perché amiamo Gesù e desideriamo stargli vicino.

v.39: Gesù promette a Giacomo e Giovanni che condivideranno il suo cammino di sofferenza e di morte, ma che non pensino in questo modo di acquistarsi dei diritti. Dio deve essere servito nell’obbedienza e accolto nella fede: non si conquistano mai dei diritti su Dio. Dio rimane radicalmente libero di donare all’uomo secondo la sua generosità, non secondo dei principi di stretta giustizia (perché ne abbiamo diritto), ma secondo quello che lui vuole, guidato dal suo amore e nella sua libertà. Giacomo e Giovanni erano partiti con il desiderio di conquistare della gloria, ma finora hanno conquistato solo la promessa della sofferenza e non della sofferenza in sé, ma della sofferenza di Gesù.

v.42: Il testo greco tradotto letteralmente sarebbe: “Voi sapete che quelli che sembrano capi della nazioni le dominano”. Vuol dire: quelli che hanno un qualche potere si illudono davvero di dominare il mondo e la gente con le loro gratuite affermazioni e quanto più tiranneggiano tanto più si sentono forti.

v.43: Seguire Gesù significa indubbiamente sopportare delle sofferenze, la passione e passare anche per la morte, ma questo non dà diritto a nulla. Non ci sono condizioni da porre da parte del discepolo nella sequela. Dio non dimentica la morte dei suoi chiamati perché questa è preziosa al suo cospetto, ma non c’è carattere meritorio nelle sofferenze.

v.44: Al v. 43 il termine servitore è tradotto dal greco “diakonos”, mentre al v. 44 il termine servo è tradotto dal greco “dùlos”: schiavo. Diakonos indica la disponibilità al servizio; dùlos dice la sottomissione. Lo schiavo è colui che serve sotto l’aspetto della sottomissione oltre che della disponibilità. I termini diakonos e dùlos sottolineano la natura e la qualità dello Spirito nuovo, non la materialità del servizio; è un giudizio che si deve dare di sé, non un posto da occupare.
C’è questa affermazione molto forte della quale don Alberto Altana sottolineava la parola “tutti”, propria del vangelo di Marco. Chi vuol essere il primo tra voi, sia il servo di tutti. Non si è servi se non di tutti. In fondo, il criterio del servizio è il criterio che ci permette di cogliere la realtà del Figlio dell’uomo.

v.45: Il discorso di fondo è che Cristo è servo ed è servo dell’amore. Quindi il suo essere servo è amore. Nella chiesa dovrebbe esserci la “gara a servire”, per arrivare agli ultimi posti. Sembra paradossale ma è esattamente quello che il vangelo ci chiede, perché la chiesa possa diventare quel luogo dove Dio ama e si dona ad essa nel suo Figlio, dove sono beati i poveri, perché la povertà è la condizione per accogliere pienamente il Dio che si dona.

Fonte:www.figliedellachiesa.org/

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