Don Marco Ceccarelli, Commento III Avvento “C”

III Avvento “C” – 16 Dicembre 2018
I Lettura: Sof 3,14-17
II Lettura: Fil 4,4-7
Vangelo: Lc 3,10-18
- Testi di riferimento: 1Sam 2,1; Sal 13,6; 21,2-3; 35,9; 37,4; 51,12; Is 25,9; 35,4-6.10; 58,13-14;
61,10; Gl 3,1-2; Ab 3,18; Lc 1,44.47-49; 2,10-11; 11,21-23; Gv 8,56; 14,27; 15,7; 16,22; Rm 12,12;
15,13; 2Cor 6,10; 7,4; 1Pt 1,8-9
1. La gioia della salvezza.
- Il tema principale della terza domenica di Avvento è quello della gioia, evidenziato dalle prime
due letture. La gioia di cui si parla non è una gioia qualsiasi, ma quella che deriva dalla venuta del
Dio che salva, a cui l’Avvento ci richiama. La gioia di cui parla la Scrittura è quella che scaturisce
dall’esperienza che Dio viene a salvarci nelle situazioni di impotenza (vedi i testi di riferimento).
Non c’è gioia più grande di quando sperimentiamo una salvezza che appare fuori dalla nostra portata, di quando otteniamo una grazia insperata. Solo la gioia che procura il Salvatore è vera gioia, una
gioia che non passa, che nessuno ci può togliere.
- Ma è possibile che esista una gioia che non passa, che non finisce? Di fatto anche nella seconda
lettura odierna Paolo afferma: «siate sempre lieti» (Fil 4,4). E tuttavia sappiamo che anche le gioie
più intense prima o poi spariscono. Il punto è capire in cosa consista la gioia cristiana. Non si tratta
di quella gioia superficiale, potremmo dire quasi stupida o puerile, che si mostra nell’essere sempre
allegri o con il sorriso in bocca. È piuttosto l’intima e profonda consapevolezza di avere ricevuto da
Cristo una vita così duratura, così eterna, che nessuno ci può togliere. La gioia che viene da Dio è
una pace interiore che permane in mezzo alle prove; e tale pace è Cristo stesso. Il Cristo che vive in
noi ci dona una pace che non è come quella del mondo, perché questa non dura (Gv 14,27), mentre
quella di Cristo permane anche in mezzo alle prove. Si tratta di quell’intima e profonda certezza –
che permane anche nei momenti di più profonda sofferenza – che Cristo è in mezzo a noi, anzi che
vive in noi, e che niente ci può separare dal suo amore. La vera gioia, quella che il mondo non ci
può togliere (Gv 16,22), è dunque la presenza dell’Emmanuele, del Dio con noi, del Cristo risorto
che ha vinto la morte e che rimane sempre in mezzo ai suoi (Gv 20,20), anche quando non lo vediamo (1Pt 1,8). È la gioia a cui gli angeli invitano i pastori per la nascita del Salvatore (Lc 2,10-
11); è la gioia per cui esulta Giovanni nel seno della madre al saluto di Maria (Lc 1,41). Anche
quando dunque il sorriso può non apparire, rimane comunque quella profonda serenità che permette
di non disperare, come fu per Massimiliano Kolbe nella cella buia e fetida di Auschwitz: «Quando
entravano per l’ispezione quotidiana e per portare via i morti, lo trovavano sempre o in piedi o inginocchiato con il volto sereno» (R. Royal, I martiri del ventesimo secolo, 233). Si tratta di un “paradosso” messo in luce da san Paolo quando afferma: «afflitti, ma sempre lieti» (2Cor 6,10), «pervaso
di gioia in ogni tribolazione» (2Cor 7,4).
- Alla vera gioia si contrappongono le gioie del mondo. Gesù dice che il mondo si rallegra non della
sua presenza, ma della sua assenza (Gv 16,20). Se le gioie che ci procuriamo da noi stessi sono effimere e lasciano presto il posto alla delusione, alla tristezza, è perché non ci aspettiamo la gioia da
Cristo. In realtà cerchiamo la gioia, la felicità, nella realizzazione di nostri progetti, perché pensiamo che in tale realizzazione troviamo la felicità, vale a dire la salvezza, e non in Cristo, che è invece
l’unico Salvatore. Quando il conseguimento di tali progetti viene ostacolato e persino frustrato,
sprofondiamo nella tristezza. Ogni volta che siamo delusi, arrabbiati, scontenti, inquieti, è perché le
cose non vanno come noi pensiamo che dovrebbero andare per poter essere felici. Più pretese abbiamo e più siamo infelici. Ce la pigliamo con le persone che consideriamo la causa del non raggiungimento dei nostri obiettivi e quindi della nostra infelicità. La salvezza è invece la possibilità di
amare, di spendere la nostra vita per gli altri; e solo questo dà veramente la gioia. La gioia che non
passa è quella che viene dalla presenza di Cristo in noi, che ci permette di amare come lui ha amato.
2. Il Vangelo.
- Da quanto detto sopra ne consegue che, se vogliamo accogliere tale salvezza e la gioia che ne deriva, occorre rinunciare ai propri progetti e convertirsi ai piani di Dio. Perciò nel brano di Vangelo
odierno Giovanni Battista predica un “battesimo di conversione” (Lc 3,3) e di fare “opere degne di
conversione” (3,8). Chiama a preparare la via di Dio, a riconoscere la Sua volontà e camminare in
essa, e non nelle nostre vie. A tal fine indica delle cose concrete che sono appunto una esplicitazione della via del Signore.
- La salvezza che viene da Dio. La predicazione del Battista (Lc 3,7-9.17) ha come sfondo gli antichi annunci riguardo l’avvento del “giorno del Signore”. Egli invita il popolo a prepararsi alla venuta del Signore, che sarà un giorno d’ira, un giorno di giudizio. Certamente il giorno del Signore porta la salvezza, ma non in forma automatica, quasi indiscriminata. È la salvezza per chi la sta aspettando, per chi confida proprio in quella salvezza che viene solo da Dio. Perciò alla domanda delle
folle egli offre delle indicazioni apparentemente molto semplici, ma che rivelano l’atteggiamento
con cui uno si prepara al giorno del Signore. Accogliere la salvezza che viene da Dio significa aver
capito che al di fuori di Lui non esiste altra salvezza. La salvezza per l’uomo può venire soltanto da
Dio. Non c’è una salvezza in altre realtà. Esiste però una follia che consiste nel credersi salvi semplicemente sulla base di un proprio potere personale. C’è sempre la tentazione di ritenersi salvi in
base a ciò che si possiede, in forza di beni terreni. Nel libro di Daniele si racconta di Nabuccodonosor che passeggiando sulla terrazza del palazzo e contemplando lo splendore di Babilonia si gonfia
di orgoglio per il suo potere e i suoi beni (Dn 4,27); e, a causa di questo, viene colpito da Dio con
una malattia mentale che lo costringe a vivere come un animale selvatico (4,30). È un esempio di
quella follia che colpisce tante persone che si credono onnipotenti, e quindi in salvo, perché hanno a
disposizione grandi beni. La realtà invece è ben diversa. Come dice il Sal 49,21: «L’uomo nella
prosperità è come gli animali che periscono». Ci si sente sicuri, protetti dai propri beni, dalle proprie sicurezze, e invece si è come degli animali irrazionali che stanno andando verso il precipizio
senza rendersene conto. Allora Daniele dice a Nabuccodonosor: «Riscatta i tuoi peccati con
l’elemosina e le tue colpe con atti di misericordia verso i poveri, affinché la tua prosperità si prolunghi» (Dn 4,24). La via di uscita dal delirio di onnipotenza, dalla presunzione di essere autosufficienti, è rinunciare a confidare nei beni e riconoscere che l’unico Dio che ci può salvare è il Signore; è rinunciare alla prosperità che viene dai beni terreni per ottenere quella divina. Come Daniele
ha fatto con il re babilonese, anche Giovanni invita tutti a fare altrettanto.
- Il Messia in mezzo a noi. La missione di Giovanni è quella di manifestare la presenza del Messia
in mezzo a noi. Lui ci dice che c’è e chi è. Ci dice che non c’è altra salvezza che in lui. Giovanni è
ben consapevole della differenza fra la sua missione e quella di Gesù. È in Cristo che Dio si fa presente la salvezza e il giudizio di Dio. Davanti a Cristo si opera un giudizio, una demarcazione fra
chi lo accoglie e chi lo rifiuta. Egli dirà: «Chi non è con me è contro di me» (Lc 11,23); e lo dice
proprio nel contesto in cui Gesù si paragona a quel “forte”, così come ha indicato di lui il Battista
(Lc 11,21-22), che caccia i demoni con la potenza dello Spirito. La “buona notizia” (Lc 3,18) che
Giovanni annuncia è proprio questa: ciò che nessuna realtà umana può fare, nemmeno una figura
così carismatica e profetica come lui stesso, si realizza in colui che battezza in Spirito Santo.

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it


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