Jesùs Manuel Garcìa, Lectio IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

Lectio - Anno C

Prima lettura: Geremia 1,4-5.17-19

IV DOMENICA TEMPO ORDINARIO

       Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti».
         

La lettura di oggi contiene la chiamata e la missione del profeta Geremia in un «racconto autobiografico» (in prima persona). La pericope liturgica decurta il testo biblico di circa dieci versetti (mancano i vv. 6-16). I redattori delle letture di questa domenica hanno voluto ritenere solo quelle parti in cui si esprime il conflitto tra il profeta ed i suoi avversari, in vista del Vangelo di oggi, nel quale assistiamo ad un contrasto analogo tra Gesù ed i suoi ascoltatori nella sinagoga di Nazaret.
— vv. 4-5: «Prima di formarti nel grembo materno...». Con queste parole ben note Dio rivela al profeta la sua vocazione: esse manifestano l'assoluta, sovrana potenza di Dio nel costituire Geremia profeta in vista della sua futura missione. Il profeta venne all'esistenza proprio per realizzare la sua missione: in certo senso il suo esistere ed il suo essere mandato formano un'unica ed identica realtà. Inoltre la chiamata di Dio è come una consacrazione («ti ho consacrato»), una speciale investitura che abbraccia tutta la persona del profeta. Anche se occorre molto coraggio per essere l'inviato di Dio, la sua forza deriva da questa investitura da parte del Signore.
— vv. 18-19: «una colonna di ferro e un muro di bronzo...». Il profeta viene paragonato ad una città fortificata, che i nemici assediano senza poterla espugnare. Immagine (o metafora) marziale, impiegata per mettere in risalto anche la dura battaglia che il profeta è chiamato a sostenere.
—v. 19: «sono con te per salvarti». Ecco l'unica certezza che sorregge il profeta. Questa «formula di assistenza», con cui il Signore o il suo angelo promettono l’assistenza indefettibile di Dio agli inviati («Io sono con te...», «Il Signore è con te»), ricorre spesso nella Sacra Scrittura, ad esempio in Es 3,12; Rut 2,4; Lc 1,28, e nella nostra liturgia. È un invito, rivolto alle persona inviate, ad aver fiducia in Dio. Costoro devono affidare a Dio la loro missione, e non cercare altrove le loro certezze.

Seconda lettura: 1Corinzi 12,31-13,13


       Fratelli, desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime. Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità!
         

Solitamente si ama definire la lettura di oggi «l'inno alla carità», uno dei testi più celebri del Nuovo Testamento. Il brano liturgico va riposto esattamente nel contesto in cui Paolo (nella 1 Cor.) parla dei carismi. È lo stesso contesto della II Lettura di domenica scorsa.
— vv. 12-31: «desiderate intensamente i carismi più grandi». I cristiani di Corinto mostrano grande interesse per i doni o carismi, specie quelli più spettacolari, che attirano ed alimentano il loro orgoglio, rappresentando qualcosa di speciale. Paolo ristabilisce il giusto ordine nella realtà di questi doni. In tale ordine il posto centrale lo detiene il dono dell'amore. Chi ha ricevuto questo carisma dell'amore, ha ricevuto il più grande dei doni.
— vv. 1-3: «le lingue degli uomini e degli angeli, ecc.». Perché il dono dell'amore è realtà centrale rispetto ad ogni altro dono? Paolo ne spiega il motivo, affermando che esso è la condizione che garantisce l'autenticità di tutti gli altri carismi. Il parlare in lingue misteriose (v. 1), l'esercitare la profezia (v. 2), l'avere la scienza di tutte le realtà più misteriose, come pure l'aver fede e capacità di trasportare le montagne (v. 2), la stessa grazia del martirio non sono valori assoluti e a sé stanti; valgono soltanto se trovano la loro profonda motivazione nel dono dell'amore.
— vv. 4-7: «Magnanima, benevola, non è invidiosa ecc.». L'Apostolo enumera ben 15 qualità: inizia con due caratteristiche positive, continua con otto negative (ciò che l'amore non è, e non fa), e conclude con cinque positive. Questo elogio diligentemente strutturato dell'amore mira a sottolineare quelle virtù, opposte alla vanagloria ed alla ricerca di sé, che sono appunto all'origine di quelle spinte segrete che portano molti cristiani di Corinto a desiderare i carismi per sé. Vogliono avere i carismi per essere diversi e superiori agli altri.
— vv. 8-12: «La carità non avrà mai fine...». A differenza dei carismi, che prima o poi hanno fine, la carità dura per sempre. Lo stesso carisma della conoscenza, che pure è permanente, è da considerare provvisorio nel senso che nel tempo presente non può essere che parziale e frammentario, incompleto. Per questo la conoscenza è paragonata all'immagine sfocata e approssimativa che si vede in uno specchio metallico usato nell'antichità; oppure, è paragonata alla capacità conoscitiva che ha un bambino rispetto a quella di un adulto. La carità invece si prolunga nell'eternità, senza alterazioni o limitazioni di sorta. Inoltre, la carità è come un legame che ci congiunge con la vita eterna.
— v. 13: «Ma la più grande di tutte è la carità!». Fede, speranza e carità in quanto appartengono al rapporto dell'uomo con Dio, sono importanti.  Ma di queste tre, è l'amore a valere di più, perché ci avvicina maggiormente a Dio, da lui verrà maggiormente stimata e ricambiata e resterà in eterno.

Vangelo: Luca 4,21-30


        In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino.
         


Esegesi

Il brano del vangelo odierno è la seconda parte della cosiddetta «pericope di Nazaret», ad immediato seguito della prima parte, letta domenica scorsa. Mentre nella I parte si riferiva l'accoglienza positiva di Gesù da parte dei suoi compaesani (elogi, stupore), nella II parte ci troviamo invece di fronte all'aspetto negativo di tale accoglienza: rifiuto e ostilità. L'evangelista Luca ha voluto fare di questo episodio un momento emblematico della missione di Gesù, presentando fin d'ora la divisione degli spiriti che si opera di fonte a lui, sempre.
— v. 22: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». La meraviglia si traduce in delusione e ostilità. In realtà la sua persona «delude» le aspettative dei presenti, perché egli socialmente non appare diverso da loro. Ma anche il suo messaggio li delude, in quanto non prospetta alcun benessere terreno, alcun cambiamento politico e neanche l'esaltazione di Israele. Inoltre a Nazaret Gesù non compie i miracoli che ha compiuto altrove, specie a Cafarnao.
— v. 23: «Medico, cura te stesso». Cosciente di tale delusione, dovuta in particolare all'assenza di segni spettacolari, Gesù mette in bocca ai compaesani il proverbio, noto anche presso i rabbini: « Medico, cura te stesso ». La sua potenza taumaturgica, Gesù avrebbe dovuto metterla in mostra specialmente nella sua patria, e non lontano da essa.
— v. 24: «Nessun profeta è bene accetto nella sua patria». Al proverbio che rispecchia il pensiero dei suoi ascoltatori, Gesù ne contrappone un altro, che spiega perché egli non compia miracoli a Nazaret. Se, come tutti i profeti, non è riconosciuto e accettato nella sua patria, non può compiere prodigi semplicemente per avvalorare la sua identità e indurli a credere. La fede che esige miracoli non è vera fede.
— vv. 25-27: «C'erano molte vedove... molti lebbrosi». Con i due esempi veterotestamentari, la vedova di Zarepta e Naaman il Siro, Gesù esprime due dimensioni essenziali della sua missione: a) la sua patria, per volere divino, passa in secondo ordine di fronte agli stranieri; b) la elezione di Dio non si ferma a vincoli di patria o familiari, ma è rivolta a tutti.
— vv. 28: «Si riempirono di sdegno». Gli esempi addotti da Gesù, con l'universalismo che dichiarano, determinano sdegno e rifiuto ostile da parte dei compaesani. Se quel profeta non compie nulla per la sua patria, anzi mostra di offrire agli stranieri i suoi benefici, non appartiene più ad essa: va ripudiato. Stando al testo del Dt. 13,2, un profeta che non vuole garantire la sua missione con segni, merita la morte. Perciò lo conducono fuori, per ucciderlo.
— v. 30: «si mise in cammino». Come spesso il Vangelo di Giovanni sottolinea il fatto che i Giudei non poterono catturare Gesù «perché non era ancora giunta la sua ora» (Gv 7,30; 8,20:10,39), così qui Luca vuol dire che Gesù passa liberamente in mezzo a coloro che lo hanno condotto fuori della città non tanto per fare un miracolo (che finora ha rifiutato) quanto per affermare la sua sovrana libertà di fronte alla morte. Tale «momento» arriverà, non per fatalità, per effetto di complotti umani o sdegno di popolo, ma per sua libera scelta. Alla luce di ciò, acquista particolare spessore teologico il verbo finale: «si mise in cammino». Respinto e rifiutato dalla sua patria, Gesù a sua volta se ne va, le volta le spalle, la ripudia, per portare altrove l'annuncio di salvezza.

Meditazione

La liturgia ci fa ascoltare in due domeniche successive quanto avviene nella sinagoga di Nazaret. Domenica scorsa abbiamo interrotto la narrazione di Luca nel momento in cui Gesù, dopo aver proclamato la lettura dal rotolo del profeta Isaia, ne afferma il suo compimento oggi. In questa domenica leggiamo la seconda parte del racconto, che si sofferma sulla reazione dei suoi concittadini presenti alla preghiera sinagogale. La meraviglia iniziale si trasforma presto in sdegno, sino al punto di cacciarlo fuori dalla città e tentare di ucciderlo buttandolo giù da precipizio (cfr. v. 29). La meraviglia dei nazaretani diventa così lo stupore di noi ascoltatori: come mai questo diverso e addirittura contrapposto atteggiamento? Cosa fa passare dalla meraviglia allo sdegno? Diversamente da quanto accade nel racconto degli altri Sinottici, in Luca queste contrastanti reazioni nascono entrambe dall'ascolto della parola di Gesù. Descrivono due opposte conseguenze dell'ascoltare, o meglio due differenti modi di ascoltare. Non soltanto la meraviglia per le parole di grazia che escono dalla bocca di Gesù, ma anche lo sdegno nasce «all'udire queste cose» (v. 28). C'è dunque un aspetto di questa parola che affascina e stupisce, e che siamo disposti ad accogliere volentieri; ma c'è anche un altro taglio più duro da accettare, che esige una conversione delle nostre attese, perché la Parola si compie sempre nel modo che non immaginavamo. Di conseguenza, o siamo disposti a lasciarci sorprendere e convertire, o altrimenti ne restiamo scandalizzati.
Gesù discerne cosa c'è nel cuore dei suoi concittadini, lo intuisce e lo porta in piena luce. «Certamente voi mi citerete questo proverbio: "Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!"» (v. 23). Innanzitutto tra i tuoi, per quelli della tua casa. Tu che sei il figlio di Giuseppe, uno di noi, guarda anzitutto ai nostri bisogni. Nel cuore dei nazaretani c'è la tentazione di requisire e circoscrivere l'azione di Gesù. Ciò che si manifesta in questa pretesa non è soltanto il rifiuto del carattere universale della salvezza. Che Gesù compia prodigi a Cafarnao o altrove ai nazaretani sta anche bene, purché li compia anzitutto 'nella sua patria'. La tentazione più grave consiste nel non riconoscere i segni della salvezza là dove germogliano perché essi non sono il soddisfacimento immediato del proprio bisogno personale. Occorre invece rallegrasi per i segni della salvezza anche se sono per altri perché comunque testimoniano la vicinanza di Dio al suo popolo; annunciano che la misericordia del Signore diviene un oggi nella nostra storia.
Gesù cita due proverbi: «Medico, cura te stesso» e subito dopo «Nessun profeta è ben accetto nella sua patria». Vi risuonano due appellativi, entrambi riferiti a Gesù: 'medico' e 'profeta'. Il primo sembra più esprimere il punto di vista dei nazaretani e l'idea che hanno maturato di Gesù, o l'attesa che nutrono nei suoi confronti. Il secondo indica piuttosto come Gesù interpreta la propria missione e desidera compierla. Per i cittadini di Nazareth Gesù è il medico che deve curare le loro infermità e colmare i loro bisogni. Gesù invece afferma di essere anzitutto un profeta, vale a dire un uomo che compie sì segni e guarigioni, ma non semplicemente per appagare un bisogno, ma per rivelare che la promessa di Dio, custodita dalla sua Parola, ha iniziato ad attuarsi nella storia. Per il profeta il segno rinvia alla Parola, la quale a sua volta esige un affidamento e un atto di fede che oltrepassa il segno stesso. Si riconosce il segno, ma per credere nella Parola.
I nazaretani, al contrario, hanno saputo dei segni già operati da Gesù, ma essi, anziché nutrire la fede nella sua persona, li conducono a pretendere altri segni che risolvano i loro problemi. Questa è la tua casa, la tua patria, qui c'è la tua gente e i tuoi parenti: tutto ciò ci offre un diritto e una pretesa nei tuoi confronti. Fa' anche qui, nella tua patria, quanto vai facendo altrove. Tra questi nazaretani ci sono certamente molti bisogni veri,  numerose infermità da guarire e oppressioni da liberare, le stesse che Gesù incontrerà e sanerà altrove; il problema è che tutto ciò viene vissuto nella forma della pretesa e non in quella dell'affidamento. Con l'atteggiamento dei ricchi, dunque, e non con il cuore dei poveri. Ma è ai poveri che viene annunciato l'evangelo della salvezza, come Gesù ha appena affermato citando il profeta Isaia.
Gesù legge nei cuori dei nazaretani l'invito a compiere «anche qui, nella tua patria, quanto hai fatto a Cafarnao» (cfr. v. 23). Luca, in verità, non lo ha ancora raccontato, lo racconterà nei capitoli seguenti del suo vangelo. Ma forse questa non è tanto una svista narrativa, quanto un modo raffinato per invitare il suo lettore ad andare a vedere ciò che Gesù opera a Cafarnao. Tra i vari miracoli si staglia la guarigione del servo del centurione narrata all'inizio del capitolo settimo (vv. 1-10). Un episodio che aiuta a capire, in un gioco di contrasti, proprio ciò che accade nella sinagoga di Nazaret. Il centurione è un pagano che si riconosce indegno di ricevere Gesù nella sua casa. Il suo è un atteggiamento completamente diverso da quello dei concittadini di Gesù. Questi ultimi vantano dei diritti su Gesù, perché era uno di loro. Questo pagano non solo non avanza pretese, ma per ben due volte, con insistenza, afferma di non essere degno, mentre al contrario i Giudei presentano a Gesù le sue credenziali: «egli merita che tu gli conceda quello che chiede - dicevano - perché ama il nostro popolo ed è stato lui a costruirci la sinagoga» (vv. 4-5). «Egli merita» - «Io non sono degno»: davvero forte è il contrasto tra il punto di vista dei Giudei e quello di questo centurione che, oltre a non vantare diritti e a non pretendere il segno, non attende neppure che il segno si compia per credere alla parola di Gesù. Si affida a essa subito, radicalmente, come un povero che sa di dover dipendere in tutto da quella parola, così come un soldato dipende dalla parola del suo superiore: «di' una parola e il mio servo sarà guarito» (v. 7). L'episodio si conclude con lo stupore di Gesù: «All'udire questo, Gesù lo ammirò e, volgendosi alla folla che lo seguiva, disse: «Io vi dico che neanche in Israele ho trovato una fede così grande!» (v. 9).
Neppure in Israele, neanche nella mia patria! Come i nazaretani erano ammirati dalle parole di grazia che uscivano dalla bocca di Gesù, così ora è Gesù ad ammirare le parole di fede che escono dalla bocca di questo centurione. Egli ha infatti compreso che la parola della grazia si compie per chi non ha meriti da vantare, ma può soltanto riconoscersi indegno davanti alla gratuità della salvezza, come un povero che sa accoglierla nella propria casa e nella propria vita. Ai poveri è annunciato l'evangelo della salvezza, che è gratuito e universale, non fa differenze sulla base dei meriti e dei diritti presunti o acquisiti, ma ha comunque un destinatario privilegiato nei poveri, in chi sa accoglierlo nell'umiltà del non riconoscersene degno.
Noi ripetiamo la parola del centurione in ogni celebrazione eucaristica: «Signore, io non sono degno di partecipare alla tua mensa, ma dì soltanto una parola e io sarò salvato». La parola della salvezza, per diventare davvero un oggi nella nostra vita, ha bisogno di questo atteggiamento e di questa accoglienza.

Questi è davvero il profeta
Furono riempite dodici ceste. Questo fatto è mirabile per la sua grandezza, utile per il suo carattere spirituale. Quelli che erano presenti si entusiasmarono, mentre noi, al sentirne parlare, rimaniamo freddi. Questo è stato compiuto affinché quelli lo vedessero ed è stato scritto affinché noi lo ascoltassimo. Quello che essi poterono vedere con gli occhi, noi possiamo vederlo con la fede. Noi contempliamo spiritualmente ciò che non abbiamo potuto vedere con gli occhi. Noi ci troviamo in vantaggio rispetto a loro, perché a noi è stato detto: Beati quelli che non vedono e credono (Gv 20,29). Aggiungo che forse a noi è concesso di capire ciò che quella folla non riuscì a capire. Ci siamo così veramente saziati, in quanto siamo riusciti ad arrivare al midollo dell'orzo. Insomma, come reagì la gente di fronte al miracolo? Quelli, vedendo il miracolo che Gesù aveva fatto, dicevano: Questi è davvero il profeta (Gv 6,14). [...] Ma Gesù era il Signore dei profeti, l'ispiratore e il santificatore dei profeti, e tuttavia un profeta, secondo quanto a Mosè era stato annunciato: Susciterò per loro un profeta simile a te (Dt 18,18). Simile secondo la carne, superiore secondo la maestà. E che quella promessa del Signore si riferisse a Cristo, noi lo apprendiamo chiaramente dagli Atti degli apostoli. Lo stesso Signore dice di se stesso: Un profeta non riceve onore nella sua patria (Gv 4,44). Il Signore è profeta, il Signore è il Verbo di Dio e nessun profeta può profetare senza il Verbo di Dio; il Verbo di Dio profetizza per bocca dei profeti, ed è egli stesso profeta. Cristo è profeta e Signore dei profeti, così come è angelo e Signore degli angeli. Egli stesso è detto angelo del grande consiglio (cfr. Is 9,6). E del resto, che dice altrove il profeta? Non un inviato né un angelo, ma egli stesso verrà a salvarci (cfr. Is 35,4); cioè a salvarci non manderà un messaggero, non manderà un angelo, ma verrà egli stesso.
(AGOSTINO, Omelie sul vangelo di Giovanni 24,6-7, in Opere di sant'Agostino, pp. 564-566).

«Da dove gli vengono queste cose?»
Il Vangelo di oggi – tratto dal capitolo quarto di san Luca – è la prosecuzione di quello di domenica scorsa. Ci troviamo ancora nella sinagoga di Nazaret, il paese dove Gesù è cresciuto e dove tutti conoscono lui e la sua famiglia. Ora, dopo un periodo di assenza, Egli è ritornato in un modo nuovo: durante la liturgia del sabato legge una profezia di Isaia sul Messia e ne annuncia il compimento, lasciando intendere che quella parola si riferisce a Lui, che Isaia ha parlato di Lui. Questo fatto suscita lo sconcerto dei nazaretani: da una parte, «tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22); san Marco riferisce che molti dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data?» (6,2). D’altra parte, però, i suoi compaesani lo conoscono troppo bene: E’ uno come noi – dicono –. La sua pretesa non può essere che una presunzione (cfr L’infanzia di Gesù, 11). «Non è costui il figlio di Giuseppe?» (Lc 4,22), come dire: un carpentiere di Nazaret, quali aspirazioni può avere?
Proprio conoscendo questa chiusura, che conferma il proverbio «nessun profeta è bene accetto nella sua patria», Gesù rivolge alla gente, nella sinagoga, parole che suonano come una provocazione. Cita due miracoli compiuti dai grandi profeti Elia ed Eliseo in favore di persone non israelite, per dimostrare che a volte c’è più fede al di fuori d’Israele. A quel punto la reazione è unanime: tutti si alzano e lo cacciano fuori, e cercano persino di buttarlo giù da un precipizio, ma Egli, con calma sovrana, passa in mezzo alla gente inferocita e se ne va.
A questo punto viene spontaneo chiedersi: come mai Gesù ha voluto provocare questa rottura? All’inizio la gente era ammirata di lui, e forse avrebbe potuto ottenere un certo consenso… Ma proprio questo è il punto: Gesù non è venuto per cercare il consenso degli uomini, ma – come dirà alla fine a Pilato – per «dare testimonianza alla verità» (Gv 18,37). Il vero profeta non obbedisce ad altri che a Dio e si mette al servizio della verità, pronto a pagare di persona. E’ vero che Gesù è il profeta dell’amore, ma l’amore ha la sua verità. Anzi, amore e verità sono due nomi della stessa realtà, due nomi di Dio. Nella liturgia odierna risuonano anche queste parole di san Paolo: «La carità…non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità» (1 Cor 13,4-6). Credere in Dio significa rinunciare ai propri pregiudizi e accogliere il volto concreto in cui Lui si è rivelato: l’uomo Gesù di Nazaret. E questa via conduce anche a riconoscerlo e a servirlo negli altri.
In questo è illuminante l’atteggiamento di Maria. Chi più di lei ebbe familiarità con l’umanità di Gesù? Ma non ne fu mai scandalizzata come i compaesani di Nazaret. Ella custodiva nel suo cuore il mistero e seppe accoglierlo sempre di più e sempre di nuovo, nel cammino della fede, fino alla notte della Croce e alla piena luce della Risurrezione. Maria aiuti anche noi a percorrere con fedeltà e con gioia questo cammino.
(Benedetto XVI, Angelus, 03.02.2013).

Quando il vento della profezia scuote la nostra polvere
In quel tempo, Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?».
Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria (...).
In un primo momento la sinagoga è rimasta incantata: tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati! Ma il cuore di Nazaret, e di ogni uomo, è un groviglio contorto, trascinato in fretta dalla meraviglia alla delusione, dallo stupore a una sorta di furore omicida: lo spinsero sul ciglio del monte per gettarlo giù. Che cosa è accaduto? Non è facile accogliere un profeta e le sue parole di fuoco e di luce.
Soprattutto quando varcano la soglia di casa come «un vento che non lascia dormire la polvere» (Turoldo) e smuove la vita, invece di risuonare astratte e lontane sul monte o nel deserto. I compaesani di Gesù si difendono da lui: lo guardano ma non lo vedono, è solo il figlio di Giuseppe, uno come noi. Odono ma non riconoscono le sue parole d'altrove: come pensare che sia lui, il figlio del falegname, il racconto di Dio? E poi, di quale Dio?
Questo è il secondo motivo del rifiuto di Gesù, il suo messaggio dirompente, che rivela il loro errore più drammatico: si sono sbagliati su Dio. Fai anche qui, a casa tua, i miracoli di Cafarnao, chiedono. È la storia di sempre, immiserire Dio a distributore di grazie, impoverire la fede a baratto: «io credo in Dio se mi da i segni che gli chiedo; lo amo se mi concede la grazia di cui ho bisogno». Amore mercenario.
Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui. Non ci bastano belle parole, vogliamo un Dio a nostra disposizione; uno che ci stupisca, non uno che ci cambi il cuore. E Gesù risponde raccontando un Dio che ha come casa ogni terra straniera, protettore a Zarepta di vedove straniere e senza meriti, guaritore di lebbrosi siriani nemici d'Israele, senza diritti da vantare. Un Dio che non ha patria se non il mondo, che non ha casa se non il dolore e il bisogno di ogni uomo.
Adorano un Dio sbagliato e la loro fede sbagliata genera un istinto di morte: vogliono eliminare Gesù. Mentre il Dio di Gesù è l'amante della vita, il loro è amico della morte. Ma egli passando in mezzo a loro si mise in cammino. Come sempre negli interventi di Dio, c'è un punto bianco, una sospensione, un ma. Ma Gesù passando in mezzo se ne andò. Va ad accendere il suo roveto alla prossima svolta della strada. Appena oltre ci sono altri villaggi ed altri cuori con fame e sete di vita.
Un finale a sorpresa. Non fugge, non si nasconde, passa in mezzo a loro, alla portata delle loro mani, in mezzo alla violenza, va tranquillo in tutta la sua statura in mezzo ai solchi di quelle persone come un seminatore, mostrando che si può ostacolare la profezia, ma non bloccarla, che la sua vitalità è incontenibile, che il vento dello Spirito riempie la casa e passa oltre.
(Ermes Ronchi)

“L’anno di grazia da parte del Signore”
1. L’importanza dell’introduzione di Luca al suo vangelo risiede in un fatto fondamentale: non conosciamo Gesù per mezzo di “speculazioni metafisiche”, ma a partire da “fatti storici”. Per conoscere il Vangelo, è interessante non quello che Gesù è stato (l’«essere»), ma quello che Gesù ha fatto (l’«accadere») (Bernhard Welte).
Quello che cambia la vita degli esseri umani non la “verità dogmatica”, ma “il fatto storico”. Cioè, la forza della religione non sta nel Dogma, ma nell’Etica (cf. J. B. Metz). Non è la “nostra ortodossia” dottrinale quello che ci rende più credenti in Gesù e fedeli alla Chiesa, ma il “nostro comportamento” onesto, libero e buono.
2. Se c’è qualcosa di chiaro – e che non ammette dubbi – in questo passo di Luca, è che Gesù riassume e concentra la sua missione in questo mondo ricordando la liberazione da ogni esilio e da ogni oppressione, che annuncia il cosiddetto Terzo Isaia. Gesù porta “la libertà ai deportati e la liberazione ai prigionieri” (Is 61,1).
Quello che l’antico profeta annunciava era il crollo dell’impero babilonese e la conseguente libertà del popolo oppresso. Aggiungendo che portava “l’anno di grazia da parte del Signore” (Is 61,2) che, secondo Lv 25,10-17, annunciava la restaurazione completa della giustizia, la liberazione degli schiavi e la restituzione dei debiti. Gesù si pronuncia per la libertà, che porta pace e felicità.
3. Gesù sta dove si realizza, e nella misura in cui si realizza, questo fatto sorprendente: il conseguimento della libertà. Sottomettere qualcuno è opporsi e contrapporsi a Gesù. Ma il problema è che proprio in questo momento siamo più dominati e sottomessi. La libertà si è trasformata in coazione. Perché quello che ci domina e ci sottomette non è più il “potere oppressore”, ma il “potere seduttore”.
Ci crediamo più liberi che mai, quando invece viviamo più sottomessi che mai. Sottomessi alla tecnologia, senza la quale non possiamo più vivere. Urge spostare la seduzione: dalle macchine alle persone. Così oggi incontriamo Gesù.
4. In quest’episodio, così come lo hanno tradotto, c’è l’impressione che in quell’occasione è successo qualcosa di molto insolito: gli ascoltatori della sinagoga di Nazareth “si meravigliavano” di quello che Gesù diceva. Ma subito dopo si è verificato un fenomeno strano: gli stessi che si stupivano di Gesù, quando finì di parlare, volevano ucciderlo gettandolo giù in un burrone vicino alla città. Questa non è un’evidente contraddizione?
5. Non vi è contraddizione. È capitato che Gesù, nel ricordare il testo del profeta Isaia (61,1-2) abbia saltato le parole che parlano di “un giorno di vendetta da parte del nostro Dio” (Is 61,2b). E questo senza dubbio ha iniziato a infastidire quelli che stavano nella sinagoga. I nazaretani, a quanto pare, credevano in un Dio vendicativo che sarebbe venuto a “prendersi una rivincita” ed a castigare i romani.
Ma, invece di placare quei nazionalisti violenti, dei quali sembra abbia fatto parte Giuseppe (Lc 4,22b), Gesù ricordò loro due casi nei quali Dio aveva favorito i pagani invece dei giudei. Questo fu il caso della vedova di Sarèpta e di Naaman il Siro (Sir, 48,3; Gc 5,17; cf. L. C. Crockett; At 11,28, 10,1-11.18; Cf. F. Bovon).
6. Il Dio di Gesù non vuole religioni che considerano se stesse superiori ad altre, preferite e privilegiate più di altre. Non vuole limiti e frontiere che dividono e separano. E non tollera nazionalismi che escludono. Gesù ha preferito il centurione romano (Lc 7, 2-10 par), la donna cananea (Mc 7,24-30; Mt 15,21-28), il buon samaritano rispetto al sacerdote e al levita (Lc 10,30-35), il samaritano lebbroso più che i nove lebbrosi giudei (Lc 17,11-19).
Come ha detto papa Francesco, quello che importa è l’onesta e la bontà, non la religione alla quale appartieni. Gesù ha messo il centro della religione nell’etica, non nei riti e nei dogmi.
(José María Castillo)


Essere profeti
Il profeta, Signore, non è un depositario di verità,
ma un testimone di bene.
Non sa dire cose sublimi, ma le compie.
Annuncia la speranza nella disperazione,
la misericordia nel peccato,
l’intervento di Dio dove tutto sembra morto.

Il profeta è consapevole dei suoli limiti, delle sue debolezza,
dei suoi dubbi, delle sue incapacità, della sua inesperienza,
ma è anche sereno e coraggioso,
perché Dio lo ha scelto e amato.

Il profeta fa la scelta di Dio,
vive la comunione intima con lui.

Essere profeti oggi, significa passare da una pastorale di conversazione
ad una pastorale missionaria,
significa essere presenti là dove la gente
vive, lavora, soffre, gioisce.

Tu, Signore, sei il profeta per eccellenza
che dobbiamo ascoltare e accogliere.
Tua chiesa erano le piazze, le rive dei fiumi,
i monti, le strade.

Ogni cristiano è profeta,
è la tua bocca che evangelizza,
che parla davanti agli uomini, al mondo, alla storia.

Signore, aiutaci ad essere profeti di frontiera
là dove scorre la vita della gente.
(A. Merico)

Preghiera
Tu ci parli. Signore, attraverso profeti pienamente inseriti nelle vicende del loro popolo e del loro tempo e insieme capaci di restare in solitudine o di andare nel deserto per fare riascoltare la tua Parola a coloro che li seguono.
Tu ci parli, Signore, attraverso testimoni in grado di condividere le angosce dei loro fratelli, le paure e i drammi degli uomini e insieme pieni di fede nell'indicare la tua presenza già operante, la tua promessa suscitatrice di vita.
Tu ci parli, Signore, attraverso uomini che sanno contestare coraggiosamente le mode, le abitudini, i pregiudizi, i luoghi comuni dei loro contemporanei e insieme profondamente solidali con loro nel ricercare il tuo volto che salva, nel parlare al cuore di chi dispera.
Guarda, ti preghiamo, alla tua Chiesa, alla Chiesa del nostro tempo, a noi che siamo il tuo popolo, costituiti per tua grazia profeti e testimoni della tua verità: donaci di essere mediatori della tua consolazione nel momento stesso in cui denunciamo le nostre e le altrui ipocrisie. Nei deserti della nostra società fa’ risuonare la tua Parola, perché anche noi ‘usciamo’, confessando i nostri peccati per essere di nuovo immersi nella grazia del tuo Spirito.




* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
- Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
- La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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- COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
- COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
- M. FERRARI, «Oggi di è adempiuta questa scrittura». Avvento, Tempo di Natale e Tempo ordinario (prima parte), Milano, Vita e Pensiero, 2012.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
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- Immagine della domenica, a cura di García-Orsini-Pennesi.



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