Padre Paolo Berti, “…Gesù...era guidato dallo Spirito nel deserto...”

I Domenica del T. Q.           
Lc.4,1-13 
“…Gesù...era guidato dallo Spirito nel deserto...”

Omelia 

Gesù, dopo il battesimo nel Giordano, fu condotto dallo Spirito Santo nel deserto; fu dunque condotto dall’amore per un tempo di penitenza e preghiera. Digiuna, ma non è un digiunare miracoloso, senza fame; è un vero digiuno. Ciò che Gesù cerca nel deserto non è precisamente di essere tentato dal Demonio, ma di vivere la penitenza espiatrice per i peccatori, ponendosi deciso sulla strada del sacrificio che terminerà con la croce. Gesù sa, tuttavia, che il Tentatore verrà per ostacolare il suo cammino. Sa che il Tentatore uscirà allo scoperto per un attacco frontale sentendosi all’indomani della sconfitta; sa che nella sua superbia proverà a vincerlo. Gesù sa e si prepara alla scontro, poiché andando nel deserto si è posto in un totale rifiuto di tutto ciò che è onore, ricchezza e senso, per abbracciare la penitenza a favore degli uomini.
Quaranta giorni stette Gesù nel deserto. Un giorno per ogni anno di presenza purificatrice di Israele nel deserto, dopo le varie ribellioni durante il cammino.
Gesù, già pubblicamente consacrato Messia, si unisce nel deserto a tutta l’umanità ribelle, ponendosi a capo di essa nella direzione del sacrificio, per farla entrare in una nuova terra promessa, che sarà quella spirituale dell’unione con Dio, verso la pienezza dell’incontro eterno.
Il Diavolo alla fine, quando vide che Gesù era stremato dalla fame si mosse, tentando di dirottarlo verso il suo consiglio. La fame era sofferenza, e Satana era pronto a presentarla come inutile. Se Gesù, invece, avesse dato soddisfazione alla sua fame, ecco che avrebbe imboccato la strada giusta per essere gradito dagli uomini. Questa la prospettiva del Tentatore. Satana gli presentò che un piccolissimo atto di alleanza con lui gli avrebbe aperto le porte del mondo; sarebbe diventato il conquistatore travolgente delle moltitudini. Se non avesse accettato il suo nausente aiuto, allora gli avrebbe reso la vita un inferno. Se poi voleva conquistare a sé il tempio doveva buttarsi giù dal pinnacolo, senza paura, visto che gli angeli lo avrebbero sostenuto: tutti di fronte ad un tale evento lo avrebbero acclamato loro re.
Gesù risponde ai tre assalti del Tentatore con la parola della Scrittura. E’ trincerato in se stesso, nell’unione obbediente al Padre. Non discute con Satana, la cui dialettica insinuante, baluginante superbia, senso, oro, successo, tenta di avvolgerlo. Gesù rimane nella preghiera, in una posizione di rifiuto totale di tutte le risonanze che Satana gli vuole suscitare nella carne.
Lo scontro si conclude con la fuga del nemico, che furibondo si mette ad organizzare una macchina di odio verso Gesù, per piegarlo col dolore, visto che le lusinghe del potere e del successo gli sono state rifiutate in modo reciso.
La vittoria di Gesù è a nostra disposizione dal momento che per il Battesimo siamo stati innestati in lui. Nel Battesimo siamo stati rigenerati nella grazia dello Spirito Santo e abbiamo pronunciato le parole della rinuncia del mondo, delle sue massime, delle sue pompe, e la rinuncia di tutte le seduzioni del Maligno. E anche abbiamo professato la nostra fede. Certo, tutto ciò al fonte l’hanno fatto per noi i nostri genitori, ma poi noi, istruiti su Cristo, abbiamo posto il nostro atto personale, sia circa la rinuncia, sia circa la professione.
Le rinunce battesimali non sono un atto formale, ma sono una scelta di campo che deve sempre rimanere; abbiamo scelto Cristo. Non è una professione in astratto, ma nella realtà della nostra unione con lui. Ogni professione di fede è un evento vivo, ricco di adesione a Cristo, pena l’essere soltanto una dichiarazione vuota, senza vita, e quindi senza effetto salvifico. San Paolo ci dice, infatti, che non basta la bocca, ma ci vuole anche il cuore; anzi l’atto di fede si sviluppa nel cuore, dopo che la verità ha toccato la mente. La professione di fede è atto di luce e di amore. E la professione deve raggiungere il labbro altrimenti non ci sarebbe la testimonianza e quindi ci sarebbe la viltà. Di fronte al mondo dobbiamo professare la nostra fede, certo tenendo presente che dobbiamo essere candidi come colombe e prudenti come serpenti, ma dobbiamo professarla.
Professare la fede è avere il pensiero di Cristo (Cf. 1Cor 2,16), ed è volere avere un cuore omogeneo a quello di Cristo. E qui possiamo rivolgerci l’interrogativo se sempre noi pensiamo secondo Cristo.
La nostra vita di cristiani è sicuramente drammatica, non tragica però. Drammatica perché siamo dei militi in battaglia, non contro creature fatte di carne e sangue come dice san Paolo (Cf. Ef 6,12), “ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti”. Non tragica, perché fatta nel Vincente, fatta nella pace interiore, che sgorga dall'unione con Cristo.
Il popolo di Israele aveva la sua professione di fede fondata nel ricordo della sua liberazione dall’Egitto. Noi l’abbiamo nella viva adesione al Cristo morto e risorto. Non semplicemente ricordiamo, ma viviamo l’evento pasquale della nostra liberazione dal peccato, poiché partecipiamo all’unico sacrificio di Cristo, sacramentalmente presente nella celebrazione Eucaristica, che è il nuovo rito pasquale.
Il popolo di Israele fu condotto alla libertà dalla schiavitù egiziana, noi siamo stati condotti alla libertà di saperci donare, alla libertà dall’assedio degli onori, delle ricchezze e del senso. Ecco la grandezza portata da Cristo: l’uomo si realizza nel darsi agli altri. Questa è la vera libertà. Satana presenta una libertà che è amara schiavitù, che è distruzione del donare sé. La libertà proposta da Satana è tragica; dona un attimo di sporca giocondità e riserva un’eternità di orrore. Amen. Ave Maria. Vieni, Signore Gesù.

Fonte:www.qumran2.net


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