FIGLIE DELLA CHIESA, LECTIO II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia

II Domenica di Pasqua o della Divina Misericordia
 Lun, 22 Apr 19  Lectio Divina - Anno C

Dinanzi a questi versetti è come essere sulla spiaggia, guardare verso l’immensità del mare e chiedersi “chi cerchi”?

Chi cerchi è la domanda che sta sotto tutto il capitolo 20. Chi cerchi Maria... Chi cercate Pietro e Giovanni, dopo aver corso?... Chi cercate voi discepoli che vi rallegrate alla sua vista?... Chi cerchi Tommaso?... Chi cerchi ancora tu Pietro? E’ il Signore!

L’articolazione del capitolo giovanneo relativo alla Pasqua nella sua forma attuale, si presenta fondamentalmente così:
vv.1-18 raccontano i fatti avvenuti la mattina del primo giorno della settimana = Domenica di Pasqua;
vv.19-23 invece l’apparizione di Gesù ai discepoli la sera dello stesso giorno;
vv.24-29 la storia di Tommaso che è collegata a questa apparizione ed avviene la domenica successiva;
vv.30-31 costituiscono la conclusione di tutto il vangelo.

Questi versetti ci mettono subito dinanzi ad un dinamismo, quello del susseguirsi del mattino e della sera, dall’andare delle donne e dei discepoli Pietro e Giovanni verso il Signore “rimosso” dal sepolcro, e del venire del Signore verso i discepoli nel loro posto di ritrovo. All’incontro col Risorto, riservato in forma privata a Maria di Magdala, segue l’apparizione di Gesù ai discepoli la sera dello stesso giorno.

Si può stabilire un certo parallelismo tra il sepolcro vuoto e l’apparizione del Risorto: Maria nota per prima che il sepolcro è vuoto e il fatto è poi confermato da Pietro, con l’altro discepolo; così pure il Risorto si incontra prima con Maria e poi si manifesta ai discepoli.

Le due apparizioni sono entrambe connesse dall’accenno “al vedere il Signore”. L’esperienza, che Maria porta a conoscenza dei discepoli: “Ho visto il Signore” (v. 18), si ripete per i discepoli nello stesso giorno: “essi si rallegrarono al vedere il Signore” (v. 20b).

v.19 La sera di quello stesso giorno, il primo dopo il sabato: si tratta del primo giorno della settimana nel quale Maria di Magdala aveva rinvenuto il sepolcro vuoto, l’episodio che ora segue è collegato alla precedente narrazione. L’evento del mattino continua la sera e raggiunge il suo culmine.

Gesù venne: tale espressione è tipica di Giovanni nel contesto dei racconti pasquali, l’annuncio verrò presto che caratterizzava il discorso di addio, v. 14,18ss., si realizza.

E stette in piedi in mezzo a loro e disse pace a voi: lo stesso verbo, stare in piedi lo ritroviamo in Lc 24,36 e in Gv 20,14, ed evoca con la posizione eretta il trionfo sullo stato del giacere che la morte significa (Gv 20,12). Giovanni non sottolinea che Gesù abbia attraversato le porte, ma intende dirci, che Gesù è capace di rendersi presente ai suoi quando vuole, può raggiungere i propri discepoli in ogni circostanza, ed è là improvvisamente, in mezzo a loro. I discepoli in ansia vengono liberati dalla paura e dalla tristezza con l’apparizione di Gesù in mezzo a loro.

Pace a voi: è la pace, la mia, che io vi do; non ve la do alla maniera del mondo (Gv 14,27). Dopo questo primo versetto, Gesù si fa riconoscere dai discepoli, come Colui nel quale loro avevano posto tutta la loro speranza, ed è stato crocifisso. Il saluto di pace di Gesù e la certezza che si tratta di Lui, il crocifisso e il trafitto, fanno sì che la paura ceda alla gioia

v.20 Detto questo, mostrò loro le mani e il costato. I discepoli alla vista del Signore furono pieni di gioia: il Signore mostra le mani e la ferita del costato, da cui era sgorgato sangue ed acqua (Gv 19,34), in modo da ripetere con il salmista: “hanno forato le mie mani e i miei piedi” e ancora un invito a fissare lo sguardo su colui che hanno trafitto.

Riconoscere così il Signore, significherà per i discepoli intessere con Lui una relazione senza eguali, una relazione definitiva: “in quel giorno voi riconoscerete che io sono nel Padre e voi in me ed io in voi” (Gv 14,20). Gesù mostra solo le mani e il costato ai discepoli; non si dice che essi lo abbiano toccato. Riconoscere, intessere una relazione con il Risorto, significherà per il discepolo, assumere una missione, andare oltre il proprio vissuto, aprirsi all’avvenire del mondo.

vv.21-23 Gesù disse loro di nuovo: “Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anch’io mando voi”. Dopo aver detto questo, alitò su di loro e disse: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi”: all’inizio Gesù rinnova il dono della pace, come ad indicare una cosa nuova che proprio allora spunta, è iniziato un tempo nuovo e le cose di prima sono passate ne sono nate di nuove.

Gesù l’inviato del Padre, ora invia i suoi discepoli, per il fatto che “il Padre mi ha inviato, così anch’io mando voi”. Il Figlio estende la sua missione, mostra la continuità di un’unica missione, ricevuta dal Padre. Essere inviati comporta anche un’altra relazione, come il Padre rimaneva sempre presente a Gesù, così i discepoli non saranno mai soli nel compimento della missione, perché chi crede in Lui farà le opere che Lui compie e ne farà di più grandi, perché Lui va al Padre (14,12). Da questo riconosciamo che dimoriamo in Lui ed Egli in noi: egli ci ha donato il suo Spirito (1Gv 4,13; cf 3,24).

v.25 Abbiamo visto il Signore! Ma egli disse loro: “Se non vedo nelle sue mani il segno dei chiodi e non metto il dito nel posto dei chiodi e non metto la mia mano nel suo costato, non crederò”: Ai discepoli era bastato che Gesù mostrasse loro le mani e il costato; Tommaso esige un controllo più dettagliato.

Tardo a capire, Tommaso è però fedele a Gesù (Gv 11,6); solo non comprende la via del suo Signore (Gv 14,5); egli dunque non è “l’incredulo”, ma la persona che la debolezza rende incapace di credere e che solo dallo stesso Gesù, dopo la risurrezione, riceverà in dono la fede totale.

E’ evidente il crescendo dal “vedere” le ferite provocate dai chiodi “all’infilare” il dito in esse e la mano nella ferita al costato di Gesù.

Al tal proposito si può notare la contraddizione apparente tra l’elogio del discepolo amato che “vide e credette”, e il rimprovero a Tommaso “perché mi hai veduto, credi”.

v.26 Otto giorni dopo i discepoli erano di nuovo in casa e c’era con loro anche Tommaso: qui non si parla più della paura dei discepoli dei Giudei, perché essa non si concilia più con la gioia pasquale, di cui sono colmi.

La scelta di otto giorni ha il motivo della prassi liturgica, per ricordare alla comunità, che nelle sue celebrazioni si deve ricordare di quell’apparizione di Gesù a Tommaso. Questo è il giorno del Signore, a ricordo della sua risurrezione.

v.27 Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato; e non essere più incredulo ma credente!”: Gesù si presenta a Tommaso con le stesse parole usate dal discepolo, così egli si rende conto che Gesù vede nel suo intimo, che Gesù risponde alle pretese del discepolo, esaudisce il suo desiderio provocatorio.

Gesù legge nel cuore, legge i cuori, già era successo con Natanaele (Gv 1,47-50), è bastata una parola di Gesù per provare a Natanaele come sia conosciuto bene da Gesù.

v.28-29 Rispose Tommaso: “Mio Signore e mio Dio!”. Gesù gli disse: “Perché mi hai veduto, hai creduto: beati quelli che pur non avendo visto crederanno!”: il vangelo non ci dice alla fine se Tommaso abbia toccato le ferite del suo Maestro, ma sicuramente ci dice che ha visto. Come per Natanaele, così per Tommaso c’è alla base un riconoscere il Signore, il Maestro, come proprio: “mio Signore e mio Dio”.

Gesù ha conquistato quel cuore, potremmo dire in un certo senso è Gesù che ha messo la mano nel cuore di Tommaso e lo ha cambiato e lo ha conquistato.

Gesù è stato per Tommaso quella “Parola di Dio viva, efficace e più tagliente di ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito, delle giunture e delle midolla e scruta i sentimenti e i pensieri del cuore. Non v’è creatura che possa nascondersi davanti a lui, ma tutto è nudo e scoperto agli occhi suoi e a lui noi dobbiamo rendere conto” (Eb 4,12).

Gesù ha operato in Tommaso quello che chiede Geremia: “perché la mia ferita è incurabile”?

Gesù ha operato in Tommaso una discesa nei suoi inferi, voleva toccare le ferite del suo Maestro e dalle sue ferite è stato guarito, perché ha potuto toccare le sue. In questi inferi vita e morte si sono combattute come in un duello, ma il Signore era al suo fianco come un prode valoroso, Lui il Primo e l’Ultimo.

Tommaso è sceso nei propri inferi, non ha avuto paura perché la porta del sepolcro era stata già rimossa, ha potuto toccare le sue ferite, i suoi sentimenti più profondi forse di rabbia, di risentimento nei confronti di Gesù che li aveva lasciati, ora ha preso contatto con i suoi sentimenti e sono stati toccati da quelli di Gesù, dalla tenerezza di Gesù, dalla sua compassione.

Tommaso toccando le ferite di Gesù si è lasciato toccare, penetrare, purificare da quell’amore che è fino alla fine: “purificante amore, fa ancora che sia scala di riscatto la carne ingannatrice” (G. Ungaretti, la preghiera).

Tommaso forse ha sperimentato questa umile certezza di essere stato amato nel suo limite dal Suo Signore, ora in Lui si è aperta una dolce ferita, quella della sposa del Cantico, che sta nelle fenditoie delle rocce, che sta nelle feritoie, è ferita di amore. Tommaso, Didimo, gemello nostro, forse cercava un riparo dentro quelle piaghe, per scoprire di essere a casa sua, per assaporare quello che più tardi scriverà S. Bonaventura da Bagnoregio: “lì, nelle piaghe del suo costato, dove Egli ha preparato un nido in cui nascondere i piccoli nati da un casto amore”.

Con Tommaso ci è chiesto di entrare in quelle ferite per scoprire le nostre, entrare in quel cuore e comprendere con l’apostolo quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere intimamente quell’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza (Ef 3, 18-19).

Fonte:www.figliedellachiesa.org


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