FIGLIE DELLA CHIESA, Lectio Santissima Trinità

Santissima Trinità
 Lun, 10 Giu 19  Lectio Divina - Anno C

Il brano del Vangelo di Giovanni che la liturgia ci propone fa parte dell’ultimo grande discorso di Gesù (13,31-17,26) che a sua volta è inserito nel complesso più ampio dei capitoli 13-17.

Nella prima parte del Vangelo (1-12), denominata il Libro dei Segni, Giovanni ha la tendenza a raccontare la storia del segno compiuto da Gesù facendola seguire da un discorso che lo interpreta. Nella seconda parte (13-21), Libro della Gloria, invece il modello è rovesciato. L’ultimo discorso spiega il significato e le implicazione del ritorno al Padre da parte di Gesù; ma esso precede l’evento che spiega.

La ragione di questo capovolgimento dello schema è semplice: sarebbe poco opportuno interrompere l’azione della passione, morte e risurrezione; e si verrebbe a pregiudicare il punto culminante della narrazione collocando un discorso così lungo dopo la risurrezione. Inoltre, secondo la psicologia che presiede all’opera dell’evangelista, i discepoli, che sarebbero stati colpiti dalla passione e morte di Gesù, dovevano esservi preparati dalla spiegazione e consolazione del Maestro.

L’ultimo discorso non è semplicemente un altro dei discorsi che interpretano un segno. La Pasqua di Gesù esce dalla categoria del segno per penetrare nel regno della gloria; con essa, Gesù rende presenti e disponibili agli uomini le realtà significate nei sette Segni narrati nella prima parte del Vangelo. I discorsi del Libro dei Segni erano pronunciati su uno sfondo di rifiuto da parte del mondo.

Nell’ultimo discorso, invece, Gesù parla ai “suoi” (13,1), per i quali, nell’immensità del suo amore, è pronto a offrire la sua vita (15,13). Il Gesù che parla qui trascende il tempo e lo spazio; è un Gesù già in cammino verso il Padre, e la sua preoccupazione è di non abbandonare i credenti in Lui che devono rimanere nel mondo (14,18; 17,11). Anche se parla nell’ultima cena, in realtà parla dal cielo; sebbene parli ai suoi discepoli, le sue parole sono rivolte ai cristiani di tutti i tempi. L’ultimo discorso è il testamento di Gesù. Tuttavia non è come gli altri testamenti: parole scritte di uomini che sono morti e non possono più parlare. La luce della Pasqua e la venuta del Paraclito lo rendono un discorso vivo, trasmesso non da un morto, ma da colui che dà la vita (6,57) a tutti i lettori del Vangelo.

L’intero complesso Gv 13-17, a cui fa capo l’ultimo grande discorso, si può dividere in quattro grandi sezioni: a) la prima è quella che da l’ambientazione (13,1-35), l’ultima cena, e presenta il tema fondamentale dell’addio per un ultimo supremo servizio di amore; b) nella seconda (13,36-14,31): dopo una breve introduzione con la predizione del rinnegamento di Simon Pietro (13,36-38), inizia l’ultimo grande discorso affrontando i temi della fede e dell’amore come risposta al turbamento dei discepoli per la prossima partenza di Gesù; c) la terza sezione (15,1-16,33), in parte parallela alla seconda, continua a trattare i temi dell’amore e della fede come risposta all’odio del mondo; d) la quarta sezione (17,1-36), infine, è la solenne preghiera di Gesù al Padre per sé, per gli apostoli, per i futuri credenti. Tutto il discorso è stato strutturato dal redattore secondo il modello del genere letterario dei “discorsi di addio”.

Di questo genere letterario troviamo già degli esempi nell’Antico Testamento. In particolare negli ammonimenti e le benedizioni di Giacobbe prima della morte (Gen 47,29-49,33) ed ancora nei lunghi discorsi di Mosè e relative benedizioni del libro del Deuteronomio.

La sezione 16, 4b-33, da cui è tratta la nostra pericope, è divisa, a sua volta, in tre unità: 1) la venuta e la missione del Paraclito (16,4b-15), 2) il ritorno di Gesù (16, 16-24), 3) ultimi moniti (16, 25-33).

La promessa dello Spirito è preceduta da una lunga elaborata introduzione (16, 4b-7). Segue la prima breve unità letteraria sulla triplice missione forense del Paraclito riguardo al mondo (16, 8-11). Il v. 12 costituisce il passaggio alla seconda, breve unità letteraria sul ruolo del Paraclito come maestro dei discepoli (16, 13-15) che risulta essere duplicato in 14,26.

Nel v. 12, Gesù annuncia ai discepoli che solo dopo la risurrezione ci sarà la piena comprensione di quanto è accaduto ed è stato detto durante il suo ministero. Così siamo condotti al v. 13 e al Paraclito come colui che guida i discepoli alla verità piena. La guida del Paraclito lungo la via della verità tutta intera implica non soltanto una più profonda comprensione intellettuale delle Parole di Gesù, ma anche un modo di vivere conforme all’insegnamento ricevuto, come riecheggia in alcuni passi veterotestamentari: “Il suo spirito buono mi guidi in terra piana” (Sal 143, 10); “insegnami, Signore, i tuoi sentieri, guidami nella tua verità” (Sal 25, 4-5). Inoltre il ruolo di guidare gli uomini era attribuito alla Sapienza (Sap 9, 11; 10, 10); e come la figura del Gesù giovanneo è modellata sulla divina Sapienza personificata, così lo è anche la figura del Paraclito.

In 8, 31-32, Gesù aveva promesso: “Se rimanete nella mia parola, sarete veramente miei discepoli; e conoscerete la verità”. Ciò si compie nello e in virtù dello Spirito. In At 8, 29-31, l’eunuco non riesce a comprendere che il quarto carme del servo di JWHW (Is 53) si riferisce a Gesù fino a quando non è guidato da Filippo che a sua volta è sotto l’azione dello Spirito.

L’accento a tutta intera la verità nel v. 13 (cfr 14,26) sottolinea che la missione del Paraclito è parallela a quella di Gesù. Anche lui è maestro e guida. L’ambito della guida del Paraclito è però la rivelazione di Gesù, pienamente compresa. “Non parlerà infatti da se stesso, ma quanto sentirà lo dirà”: Gesù definisce allo stesso modo la sua rivelazione nei confronti del Padre (cfr 3, 32; 5,30). Qui non è identificata la persona da cui sente; ma ciò non ha grande importanza perché il Padre e il Figlio “sono uno” (16,15).

“Vi annuncerà le cose future”: il verbo utilizzato, anangellein, annunziare, proviene dalla tradizione apocalittica (cfr Dn 2, 2.4.7.9), dove non indica una nuova rivelazione, ma l’interpretazione delle visioni o la rivelazione dei misteri. In questo senso, lo Spirito non rivelerebbe qualcosa di nuovo, ma interpreterebbe la rivelazione storica di Gesù, in relazione al futuro escatologico. L’annuncio delle cose future consiste nell’interpretare in rapporto a ogni generazione futura il significato contemporaneo dell’opera di Gesù. La migliore preparazione cristiana a ciò che avverrà non è una esatta precognizione del futuro, ma una profonda comprensione di ciò che Gesù significa per il tempo di ognuno.

Il v. 14 rafforza il concetto che il Consolatore non porti alcuna nuova rivelazione in quanto riceve da Gesù Cristo quanto annuncerà ai discepoli. Come Gesù glorifica il Padre (17, 1.4) rivelando agli uomini il suo amore e la sua potenza salvifica; lo Spirito glorifica Gesù rivelandolo agli uomini continuando la sua stessa rivelazione. Per i Sinottici, il Figlio dell’uomo verrà nella gloria nell’ultimo giorno (cfr Mc 13, 26), ma per Giovanni c’è già gloria nella presenza di Gesù nel Paraclito e mediante il Paraclito.

Il v. 15 accenna indirettamente al rapporto del Consolatore col Padre e col Figlio. Nell’annunciare o interpretare il mistero di Gesù, il Paraclito in realtà interpreta il Padre agli uomini; in quanto il Padre e il Figlio possiedono tutto in comune. L’ultima fonte della rivelazione è il Padre, nella sua essenziale unità con il Figlio. Più tardi i teologi orientali e occidentali discuteranno se lo Spirito procede dal Padre, o dal Padre e dal Figlio. Nel pensiero dell’autore del quarto Vangelo sarebbe incomprensibile che il Paraclito avesse qualcosa da Gesù e non dal Padre, ma tutto ciò che Egli ha è di Gesù.

Fonte:www.figliedellachiesa.org


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