Don Marco Ceccarelli, Commento XIX Domenica Tempo Ordinario “C”

XIX Domenica Tempo Ordinario “C” – 11 Agosto 2019
I Lettura: Sap 18,3.6-9
II Lettura: Eb 11,1-2.8-19
Vangelo: Lc 12,32-48
- Testi di riferimento: Sap 6,5-8; Sir 29,11-12; Is 11,5; Ger 1,17; 39,8-9; Am 3,2; Mt 16,23.27;
25,19; Lc 10,3; 12,42; 16,2.8; 17,8; 18,22; Gv 21,15; At 20,29; Rm 8,5; 14,10-12; 1Cor 4,2.15;
9,17; 11,23; 16,13; 2Cor 4,1-2; 5,10; Ef 3,2; 5,15-17; 6,14; Fil 2,5; 3,14-15.19; Col 1,9; 3,2.12; Gc
3,1; 1Pt 1,13; 4,10

1. Il contesto del Vangelo odierno.
- Ancora una volta è bene ricordare che lo sfondo dei brani evangelici di queste domeniche, soprattutto quelli che sono unici di Lc, è costituito dalla domanda che abbiamo ascoltato qualche domenica fa: “Cosa devo fare per ereditare la vita eterna?”. C’è qualcosa da fare per possedere la vita, la
vita qualitativamente eterna, felice, realizzata. Gesù “pretende” di insegnarci l’arte del vivere; ci
vuole dire qual è la cosa giusta da fare per vivere bene. Perché, certamente, tutti vorrebbero avere la
vita eterna, cioè essere felici; ma di fatto non tutti ci riescono. Così fra qualche domenica, a uno che
gli chiedeva se sono molti quelli che si salvano, sentiremo Gesù rispondere: «Molti cercheranno di
entrarvi (per la porta stretta), ma non ci riusciranno» (Lc 13,24). E per indicare dove va trovata la
cosa giusta da fare spesso il nostro evangelista presenta una contrapposizione fra due figure o due
situazioni.
- Tuttavia, va osservato che il brano di Vangelo odierno si rivolge ai discepoli (vedi 12,22.32) e non
genericamente alla folla come nel brano della domenica precedente. Dunque qui l’insegnamento
verte non solo su cosa bisogna fare per ereditare la vita eterna, ma anche – per i discepoli, per i cristiani, per coloro che già hanno riconosciuto in Cristo la vita e l’hanno accolta – su come mantenere
tale vita nell’attesa del suo ritorno, quando questa vita eterna troverà compimento nel regno celeste.
Il punto dunque è quello di cosa fare nell’attesa del ritorno di Cristo.
2. “Un tesoro nei cieli” (vv. 32-34). Questi primi versetti sembrano continuare l’insegnamento della
domenica precedente, riguardo a come investire la propria vita. Dicendo che tutto sarà tolto a chi
non “si arricchisce in Dio” Gesù indica che occorre investire i propri beni, a partire dalla vita stessa,
in Colui che solo dà la vita. I beni che non andranno perduti, i beni che ci ritroveremo per la vita
eterna, sono quelli che abbiamo investito in Dio, che abbiamo dato in elemosina (nel senso più ampio e più vero, come insegnato da Gesù in tante parti dei Vangeli); perché chi fa elemosina fa un
prestito a Dio che glielo ripagherà (Pr 19,17). Anche in questo caso Gesù afferma che questo tipo di
tesoro “non verrà meno” (v. 33), cioè non ci sarà tolto.
3. “Beati”.
- Nel contesto di cui sopra va compresa anche l’esortazione a vegliare. Saranno beati – cioè saranno
felici, avranno fatto la cosa giusta per possedere la vita eterna – quei servi che saranno trovati vegliando. Vegliare, in questo contesto, significa appunto fare la cosa giusta (similmente alla parabola
delle dieci vergini in Mt 25,1-13 dove tutte hanno dormito, ma cinque di esse avevano fatto la cosa
giusta). E qual è la cosa giusta? Vivere aspettando il ritorno del padrone. E chi sta vegliando, cioè
aspettando il ritorno del padrone, vive facendo il lavoro che gli è stato assegnato. Il termine “beati”
è infatti applicato a quelli che vegliano (vv. 37-38) e a chi viene trovato dal padrone facendo il suo
lavoro (v. 43); le due categorie coincidono. Dunque non si tratta di una veglia passiva; al contrario.
I «fianchi cinti» (v. 35) sono il segno di chi si sta dando da fare seriamente. Lo “stare pronti” è il
contrario dell’essere “sbracati”.
- “L’amministratore fedele e saggio” (v. 42). I vv. 36-47 del nostro brano ruotano intorno alla metafora servo-padrone (il primo termine appare 5 volte e il secondo 7). Che cosa si vuole intendere con
questa metafora? Non certamente che Dio tratti i suoi fedeli in quella maniera autoritaria in uso
presso gli umani (cfr. Gv 15,15). L’analogia cade piuttosto sulla gestione delle proprietà, su come i
“servi”, cioè i cristiani (ma in seconda battuta anche tutti gli uomini), hanno il compito di amministrare i beni del “proprietario”, cioè Cristo (il termine Kyrios usato 7 volte per “padrone”, nel v. 41
viene impiegato da Pietro per rivolgersi a Gesù). Anche questo insegnamento viene illustrato attraverso un contrasto fra due modi di vivere, quello del servo che vive facendo il lavoro prescritto, e
quello del servo che invece, facendosi lui padrone, agisce come gli pare. Anche costui, come voleva
fare il ricco della parabola della domenica precedente, mangia, beve e si diverte. Anche costui “si
sbraca” si lascia andare. Cosa sta dietro a questo atteggiamento? Il pensiero che «il padrone tarda a
venire» (v. 45). Dunque egli si fa padrone. Dimenticandosi di essere soltanto un servo, un amministratore – e «ad un amministratore si richiede che sia fedele» (1Cor 4,2) – egli fa uso delle cose e
delle persone a suo piacimento. Questo è lo sbaglio capitale. Il fatto è che niente è nostro. Tutto appartiene ad un altro padrone. Certo, noi dobbiamo “lavorare” con questi beni, usarli, investirli, ma
non come vogliamo noi. L’amministratore fedele e saggio è colui che amministra i beni secondo la
volontà del padrone. Ed è ovvio che niente di quanto abbiamo ci appartiene, compresa la vita (vedi
Vangelo della domenica scorsa in cui al ricco viene chiesto di restituire la vita). Nudi siamo venuti
al mondo e nudi ce ne andremo (cfr. Gb 1,21). Si tratta della solita ovvietà difficile da capire. Quante volte abbiamo detto o sentito dire: La vita è mia e ne faccio quello che voglio? Eppure il fatto che
la vita non è nostra e che non possiamo farci quello che ci pare è talmente ovvio … che non si capisce. Nel momento in cui usiamo delle cose che abbiamo, vita compresa, semplicemente come crediamo meglio – e non secondo «la volontà del padrone» (v. 47), chiedendoci come il Padrone vuole
che le usiamo – significa che ci siamo addormentati, che ci siamo “sbracati”, e che il ladro sta arrivando per portarci via tutto. Chi ha capito (v. 39) che il padrone è un altro e che gli sarà chiesto
conto, avrà tutt’altro atteggiamento. Fare la cosa giusta consiste dunque nell’imparare a vivere come amministratori fedeli e saggi, facendo la volontà di Dio. E occorre impararlo subito, senza aspettare, pensando che tanto il padrone tarda a venire. Occorre agire in fretta come quell’amministratore
disonesto della parabola di Lc 16,1-8 il quale, sapendo che gli è rimasto poco tempo, si dà da fare
per porre rimedio alla sua situazione disperata.
4. “Lo dici per noi o anche per tutti?” (v. 41). Possiamo capire allora la risposta di Gesù a questa
domanda di Pietro. Nella Chiesa ci sono degli amministratori delle cose di Dio (vedi testi di riferimento) dai quali Dio esige una estrema fedeltà. Possiamo pensare ai vescovi e a tutti coloro che
hanno un servizio nella Chiesa – dato loro da Cristo – in funzione degli altri. Però è anche vero che
tutti sono amministratori delle cose di Dio, nel senso che abbiamo detto sopra. Inoltre, ad ogni cristiano Dio ha dato un battesimo che deve amministrare, cioè far fruttare secondo la volontà del Padrone. Perciò a tutti sarà chiesto conto, anche se a ciascuno in proporzione a quanto gli è stato dato
e soprattutto affidato (v. 48).
5. Le opere buone e la volontà di Dio. Mi pare di notare a volte fra i cristiani praticanti una incapacità di vedere e seguire la volontà di Dio causata dalle loro stesse buone opere. Non è sempre scontato che chi fa delle buone opere stia facendo automaticamente la volontà di Dio. Ci possono essere
opere apparentemente di carità che ci impediscono di accogliere Cristo e di fare la cosa giusta (come nel caso di Marta: Lc 10,38-42), o di vedere dove sta la vera vita (come nel caso del figlio maggiore della parabola: Lc 15,25-32). Il fatto è che la vita non sta nelle opere in se stesse (come non
sta nel possesso dei beni), ma nel conseguimento di Cristo, e nel suo “mantenimento”, nell’essere
pronti ad aprirgli la porta quando arriva. Ma se le opere ci impediscono di riconoscerlo, di stare in
attesa di lui (vedi farisei), allora sono “opere morte” (Eb 6,1; 9,14). Dunque fare la cosa giusta non
è fare qualsiasi cosa buona, ma avere il discernimento per fare la volontà del Padrone, in attesa della
sua venuta.

Fonte:http://www.donmarcoceccarelli.it


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