Jesùs Manuel Garcìa, Lectio XXII domenica tempo ordinario – anno C
XXII domenica tempo ordinario – anno C – 2019
Lectio - Anno C
Prima lettura: Siracide 3,19-21.30-31
Figlio, compi le tue opere con mitezza, e sarai amato più di un uomo generoso. Quanto più sei grande, tanto più fatti umile, e troverai grazia davanti al Signore. Molti sono gli uomini orgogliosi e superbi, ma ai miti Dio rivela i suoi segreti. Perché grande è la potenza del Signore, e dagli umili egli è glorificato. Per la misera condizione del superbo non c’è rimedio, perché in lui è radicata la pianta del male. Il cuore sapiente medita le parabole, un orecchio attento è quanto desidera il saggio.
Il libro di Gesù ben Sira, tradotto in greco dal nipote e così annoverato fra i cosiddetti «deuterocanonici», è una raccolta di insegnamenti e proverbi risalente al II secolo a.C. e rientra nella letteratura «sapienziale» convenzionalmente attribuita al re Salomone (con Proverbi, Qohèlet, Cantico dei Cantici e Sapienza).
vv. 19-20 - La prima coppia di versetti — di stile gnomico — riprende il tema dell'umiltà che troviamo nel Vangelo di oggi. L'autore si rivolge a un «figlio» — il termine indica forse genericamente il «discepolo» — e gli raccomanda l'umiltà e la modestia, perché esse lo renderanno grande agli occhi del Signore. Il concetto è ripetuto con parole diverse, secondo la regola del parallelismo: con mitezza (v. 19a, A) — sarai amato (v. 19b, B); fatti umile (v. 20a, A1) — troverai grazia (v. 20b, B1).
v. 30. Si descrive qui l'atteggiamento del discepolo ideale, attento all'insegnamento del maestro; attenzione che si manifesta attraverso la riflessione e l'ascolto: nulla di meglio può desiderare il «saggio».
Seconda lettura: Ebrei 12,18-19.22-24
Fratelli, non vi siete avvicinati a qualcosa di tangibile né a un fuoco ardente né a oscurità, tenebra e tempesta, né a squillo di tromba e a suono di parole, mentre quelli che lo udivano scongiuravano Dio di non rivolgere più a loro la parola. Voi invece vi siete accostati al monte Sion, alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste e a migliaia di angeli, all’adunanza festosa e all’assemblea dei primogeniti i cui nomi sono scritti nei cieli, al Dio giudice di tutti e agli spiriti dei giusti resi perfetti, a Gesù, mediatore dell’alleanza nuova.
Il passo della lettera agli Ebrei di cui fanno parte questi versetti parla della pace e della santificazione, indissolubilmente legate alla giustizia, cui il cristiano è chiamato dalla grazia di Dio. L'autore della lettera pone a confronto l'antica e la nuova Alleanza, l'obbedienza e la ribellione alla voce di Dio che parla in Gesù Cristo come ha parlato al Sinai.
vv. 18-19 - Con espressioni fortemente evocative viene descritta la teofania che accompagna sul monte Sinai la consegna delle Tavole della legge (cf. Es 19,16), per dire che non è più questa la forma in cui si manifesta la rivelazione. Più che rivelare infatti essa allontanava e incuteva terrore.
vv. 22-24a - Si riprende lo stesso verbo («vi siete accostati», proselēlythate) per contrapporre plasticamente alla rivelazione mosaica l'economia del nuovo Patto. Anche qui un monte, non più il Sinai ma Sion, e «alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste»: la mediazione contingente del popolo eletto diventa segno di una nuova, definitiva condizione di salvezza, e introduce alla nuova alleanza nel segno dell'unico mediatore Gesù.
Questa nuova realtà vede uniti a Dio giudice e a Gesù mediatore gli angeli e due gruppi di eletti. Sembra di poter identificare l'assemblea (ekklēsia) dei «primogeniti (prōtotokōn) i cui nomi sono scritti nei cieli» con i giusti dell'Antico Patto, mentre «agli spiriti dei giusti resi perfetti (dikaiōn teteleiōmenōn)» sono i membri della nuova comunità, la Chiesa di Cristo.
Vangelo: Luca 14,1.7-14
Avvenne che un sabato Gesù si recò a casa di uno dei capi dei farisei per pranzare ed essi stavano a osservarlo. Diceva agli invitati una parabola, notando come sceglievano i primi posti: «Quando sei invitato a nozze da qualcuno, non metterti al primo posto, perché non ci sia un altro invitato più degno di te, e colui che ha invitato te e lui venga a dirti: “Cèdigli il posto!”. Allora dovrai con vergogna occupare l’ultimo posto. Invece, quando sei invitato, va’ a metterti all’ultimo posto, perché quando viene colui che ti ha invitato ti dica: “Amico, vieni più avanti!”. Allora ne avrai onore davanti a tutti i commensali. Perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato». Disse poi a colui che l’aveva invitato: «Quando offri un pranzo o una cena, non invitare i tuoi amici né i tuoi fratelli né i tuoi parenti né i ricchi vicini, perché a loro volta non ti invitino anch’essi e tu abbia il contraccambio. Al contrario, quando offri un banchetto, invita poveri, storpi, zoppi, ciechi; e sarai beato perché non hanno da ricambiarti. Riceverai infatti la tua ricompensa alla risurrezione dei giusti».
Esegesi
Il primo versetto del capitolo 14, che introduce una guarigione in giorno di sabato (vv. 2-6), una serie di insegnamenti alla comunità (vv. 7-14) e la parabola del banchetto (vv. 15-24), fornisce l'ambientazione (la casa di un fariseo) e soprattutto il clima in cui Gesù opera e insegna: «stavano a osservarlo». Non si tratta tanto di attenzione e interesse alla figura di Gesù, quanto dell'atteggiamento critico e polemico di chi si aspetta di coglierlo in fallo. Segue infatti immediatamente la diatriba sul sabato (vv. 3.5).
Con il v. 7 siamo ancora nella casa dove Gesù, evidentemente invitato a mangiare, vede che gli invitati scelgono «i primi posti a sedere». È lui ora che osserva il comportamento altrui, e coglie l'occasione per dire quella che è chiamata una «parabola», ma è piuttosto un insegnamento arricchito da esempi.
La situazione presentata è molto chiara: un banchetto di nozze in cui gli invitati si dispongono per ordine di importanza. La scena è descritta in un dittico, seguito dal commento conclusivo di Gesù. Sulla prima tavola (vv. 8-9) il caso in negativo: il vanitoso cerca il primo posto, e la conseguenza è una umiliazione maggiore. Sulla seconda (v. 10) il comportamento positivo suggerito da Gesù: chi sceglie l'ultimo posto, riceverà onore ancor maggiore quando sarà chiamato ad avanzare. Il commento di Gesù (v. 11) generalizza la situazione e invita a uscire dal caso concreto e limitato dell'esempio.
È un brano sapienziale classico, che trascende l'ambito banale delle buone maniere per investire la vita ecclesiale della comunità e quella spirituale del singolo. Il discepolo nella comunità deve porsi al servizio dei fratelli, a imitazione del Maestro; e il fedele non deve vantarsi e pretendere un premio, ma riconoscersi peccatore (cf. la parabola del fariseo e del pubblicano. Lc 18,9ss.).
Con il secondo esempio (vv. 12-14) Gesù si rivolge direttamente al padrone di casa; l'argomento è lo stesso, visto ora dalla parte di chi invita.
Si contrappone il comportamento interessato (invitare chi può ricambiare, v. 12) a quello disinteressato e generoso (invitare i poveri, v. 13-14a). La conclusione è a sorpresa, secondo lo stile delle parabole: proprio chi non cerca ricompensa ne avrà una più grande (v. 14b). Anche questo è un tema sapienziale frequente nei Vangeli (cf. Lc 6,31-35).
Il v. 14 ha la struttura di una beatitudine: è «beato» colui che non può avere nulla in cambio, perché proprio per questo avrà in cambio il premio della risurrezione.
Meditazione
L'evangelista Luca dà ampio risalto alle scene conviviali disseminate lungo tutto l'arco del suo vangelo (dal banchetto in casa di Levi, narrato in 5,29-31, fino ai pasti che il Risorto consuma con i discepoli, menzionati al cap. 24). Pare che a Gesù piaccia particolarmente stare a mensa, mangiare e bere, conversare intorno a una tavola; e lo fa con tutti, senza discriminazioni, siano essi farisei che pubblicani e peccatori, tanto che una delle accuse che gli rivolgono i suoi avversari è quella di essere «un mangione e un beone, un amico di pubblicani e di peccatori» (Lc 7,34; cfr. Mt 11,19). Se il condividere la mensa con pubbli-cani e peccatori (con persone cioè moralmente compromesse e socialmente e religiosamente emarginate) poteva destare scandalo e sconcerto, i banchetti con farisei e altre persone tenute in grande considerazione dal popolo, non dovevano essere così tranquilli e privi di tensione.
Il brano evangelico di questa domenica ci presenta appunto uno di questi pranzi (è il terzo e ultimo invito che Gesù accetta da un fariseo, qui è addirittura «uno dei capi dei farisei»). È un pranzo che si svolge non in un giorno qualunque ma in «un sabato» (v. 1), in un giorno di festa dunque, dai contorni altamente significativi per ogni pio ebreo. Dopo aver guarito un idropico (vv. 2-6, non riportati dalla liturgia), nello stupore e nel silenzio imbarazzato di tutti i commensali (una guarigione di sabato!), Gesù prende la parola per raccontare una parabola. Lo spunto gli viene offerto da ciò che i suoi occhi sanno cogliere in quel frangente: «come (gli invitati) sceglievano i primi posti» (v. 7). Con il suo sguardo acuto e penetrante, Gesù osserva l'atteggiamento poco 'onorevole' degli invitati, che fanno
quasi a gara per accaparrarsi i posti migliori (tutti credono d'aver diritto ai posti d'onore!). È da notare che Gesù presta attenzione non solo al fatto in sé, ma soprattutto al 'modo' di scegliere i primi posti: quel «come» (pôs) dice infatti un modo di fare, uno stile, una maniera di muoversi e di agire. E sappiamo che il modo con cui si fanno le cose è importante perché traduce e rivela sempre il pensiero profondo di una persona, la verità del suo cuore...
La parabola illustrata da Gesù sembra essere a prima vista un saggio consiglio su come muoversi quando si è invitati a un banchetto: se vuoi evitare una brutta figura, non scegliere il primo posto; al contrario, mettiti all'ultimo così, se ne sei degno, potrai salire più in alto e ricevere onore davanti a tutti (cfr. Pr 25,6-7). Tuttavia, l'intenzione di Gesù non è semplicemente quella di enunciare una regola di galateo o di 'buona condotta' conviviale; partendo da un fatto di vita ordinaria, egli vuole mettere in guardia dalla ricerca sfrenata dei primi posti, dai desideri di grandezza, dalla volontà di volere primeggiare sugli altri, di ritenersi superiori, più meritevoli e giusti degli altri (cfr. Lc 11,43; 20,46; 22,24-27). Nella logica del regno di Dio (perché questa, come altre parabole, parla del regno di Dio), non ci sono 'primi', 'secondi' o 'terzi', ma tutti sono invitati a mettersi al loro posto, che è in qualche modo sempre l'ultimo'. Che cosa infatti può vantare un uomo più di un altro davanti a Dio? Che meriti e che diritti può accampare per sopravanzare sugli altri? Non si è forse tutti uguali, tutti fratelli e figli dello stesso Padre? E tutto ciò che abbiamo non ci è stato donato da Dio (cfr. 1Cor 4,7)? Per l'evangelista Luca, l'unico atteggiamento che si addice all'uomo di fronte a Dio è quello del pubblicano della parabola (18,9-14) che riconosce umilmente il proprio essere peccatore senza vantare alcun merito nei confronti di chicchessia (ed è significativo che troviamo lì la stessa sentenza conclusiva della nostra parabola: «perché chiunque si esalta sarà umiliato, e chi si umilia sarà esaltato»: 18,14; 14,11).
A questo punto, però, non bisogna fraintendere l'insegnamento di Gesù, quasi egli volesse affermare che l'uomo deve prendere l'ultimo posto perché il primo spetta solo a Dio. Al contrario: è Dio stesso che, venendo tra gli uomini, ha preso l'ultimo posto divenendo il servo di tutti e l'ultimo di tutti. Il «mettersi all'ultimo posto» (v. 10) diventa allora gesto rivelativo dell'agire di Dio che, operando uno sbalorditivo 'rovesciamento', ha anteposto l'uomo a se stesso, collocandolo a un posto più elevato del suo (come amava dire il beato Charles de Foucauld: noi possiamo prendere ormai solo il penultimo posto, perché l'ultimo è già occupato dal Signore, in modo tale che nessuno potrà mai rapirglielo!).
In questa luce, possiamo comprendere anche il consiglio dato da Ben Sira (prima lettura) come riflesso del modo stesso di essere di Dio: «Quanto più sei grande, tanto più fatti umile» (Sir 3,18). Chi infatti è «più grande» di Dio? Eppure egli si è fatto il più umile di tutti, scendendo a un tale livello di abbassamento e di spogliazione di ogni potere e privilegio da guardare ormai l'uomo dal basso verso l'alto. Perché sapeva che solo così poteva vincere l'innata tracotanza dell'uomo, la sua mania di onnipotenza e di grandezza, la sua costante brama di ergersi sugli altri affermando orgogliosamente il proprio Io dinanzi a tutto e a tutti. E se «dagli umili è glorificato» (Sir 3,20) è forse perché gli umili sono l'immagine più viva e trasparente del suo volto, sono coloro che più gli assomigliano...
Ma Gesù, dopo una parola agli invitati, ne ha una anche per colui che l'aveva invitato (vv. 12-14). «Quando offri un pranzo non invitare...». Possiamo immaginare lo stupore e la costernazione di quel padrone di casa sentendosi caldamente esortato a chiamare alla sua tavola «poveri, storpi, zoppi, ciechi». Quattro categorie di disgraziati che nemmeno potevano accedere al tempio perché considerati 'impuri'! Tuttavia sono proprio queste persone (che nulla hanno da offrire in cambio e le cui 'mani vuote' sono atte solo a ricevere dalla gratuità altrui) a far sì che colui che invita possa godere di una inattesa beatitudine («e sa-rai beato perché non hanno da ricambiarti»). Ancora una volta, la gratuità di un amore puro e disinteressato, che spezza il circolo di una reciprocità chiusa in se stessa, rimanda al comportamento di Dio che tutti accoglie alla sua mensa, senza discriminazioni o esclusioni di sorta e che, se fa delle preferenze, queste sono per coloro che in questo mondo appaiono privi di ogni valore e considerazione. Se dunque chi si umilia, ricercando l'ultimo posto, riceve in dono un 'onore' e un 'innalzamento' insospettati (vv. 10,11), chi accoglie alla sua mensa i poveri e gli umiliati di questo mondo, nondimeno, conosce già una gloria che è anticipo di quel mondo futuro dove Dio stesso siederà a mensa con i suoi amici più cari: «poveri, storpi, zoppi, ciechi».
L’immagine della domenica
Ciò che diciamo
principio spesso
è la fine,
e finire è cominciare.
(T.S. Eliot, Little Gidding in I quattro quartetti).
Preghiere e racconti
L’umiltà
Per quale ragione aspiri ai primi posti? per sentirti superiore agli altri? Ebbene, scegli l’ultimo posto e otterrai il primo. Se desideri essere grande, non cercare di esserlo: vedrai come, allora, lo diverrai davvero. L’aspirazione ad essere grande, infatti, è propria delle persone più meschine…
La grandezza esteriore dell’uomo deriva dal rispetto che gli altri, spinti dal timore o dall’opportunismo, gli manifestano; la grandezza interiore dell’umile, al contrario, si avvicina a quella di Dio. Colui che possiede una grandezza del genere, la conserva costantemente, anche se nessuno gli dimostra ammirazione; il superbo, invece, è il più disprezzato di tutti, ancorché da tutti riceva ossequio.
L’onore che viene reso al superbo risulta forzato e, per questo motivo, facilmente si dilegua, mentre la considerazione verso l’umile è libera e spontanea e, come tale, si dimostra salda e costante.
Prendiamo, esempio, dall’umile, da colui, cioè che sta davvero in alto! Egli ben conosce il valore dell’uomo: sa che l’uomo è grande e stima se stesso inferiore a tutti; per questo ritiene come qualcosa di grande ogni minimo onore che gli venga reso.
(San Giovanni Crisostomo)
La superbia
È bene avere il cuore in alto, però non a se stesso che è proprio della superbia, ma al Signore che è proprio dell'obbedienza, la quale può essere soltanto degli umili. V'è dunque in modo meraviglioso un effetto dell'umiltà che è levare il cuore in alto e un effetto della superbia che è deprimerlo al basso. Sembra quasi una contraddizione che la superbia sia in basso e l'umiltà più in alto, e nessuno è più in alto di Dio, e quindi l'umiltà che rende sottomessi a Dio eleva. La superbia invece, poiché consiste nel pervertimento, per il fatto stesso rifiuta la sottomissione e decade dall'Essere che è più in alto e sarà quindi nel grado più basso.
(Agostino, La città di Dio, XIV, 13)
Mai uomo ebbe tanto splendore
Qual uomo ebbe mai più splendore? Il popolo ebreo tutto intero lo predice prima della sua venuta. Il popolo gentile lo adora dopo la sua venuta. I due popoli, gentile ed ebreo, lo tengono come loro centro. E tuttavia, qual uomo godette mai meno di tale splendore? Di trentatré anni, egli ne visse trenta senza essere notato. In tre anni, egli passa per impostore; i sacerdoti e i grandi lo rifiutano; i suoi amici e i suoi parenti più vicini lo disprezzano. Infine muore, tradito da uno dei suoi, rinnegato da un altro e abbandonato da tutti. Quale parte ha dunque a tale splendore? Mai uomo ebbe tanto splendore, mai uomo ebbe più ignominia. Tutto questo splendore è servito solo a noi, per rendercelo riconoscibile; e nulla ne ebbe per sé.
(Pascal, Pensieri, 636)
Il sapore del pane
Egli fu un giorno così umile
e così nudo che il suo pensiero batté allo stesso ritmo
del dolore umano.
E dimenticando l'inganno delle rime e dei temi,
sentì il suo cuore
cantare nei suoi poemi.
Tuttavia non osò credere lui stesso a questa voce
e morì senza sapere
che essa non sarebbe morta.
(M. Carême, Il sapore del pane)
L’orgoglio del sacerdote
Sul piano umano la condizione di appartenenza comporta un grande rischio, che mi pare sia stato previsto se è vero che nella dottrina di Cristo si afferma che l’orgoglio è un atteggiamento negativo e del tutto inopportuno al sacerdote, che semmai deve mostrare l’umiltà del “Domine non sum dignus”: Tu mi hai scelto ma io non sono degno, e se Tu non mi darai un sostegno, io non sarò mai all’altezza del compito che mi hai dato.
Se non vi fosse questo freno, il sentirsi toccato da Dio potrebbe alimentare un’aria di sufficienza che produce distacco dal prossimo, in particolare da chi invece non occupa ancora un posto di privilegio nella relazione con il Signore. Si può giungere al “non ti curar di loro, ma guarda e passa”. Un atteggiamento che taglierebbe fuori dalla propria prospettiva tutti i resistenti a Dio, tutti i non credenti che sono in attesa di quella esperienza, per dare risposta al perché del mondo, dell’essere e non del nulla.
Il messaggio silenzioso dell’orgoglio dell’appartenenza a un ruolo e a un gruppo, quello dei cristiani, allontanerebbe ancora più dal mistero e dalla fede chi non vi appartiene, e il sacerdote orgoglioso o superbo finirebbe per essere un rinforzo a non credere. […]
Non si può affermare “io ho Dio” con la stessa certezza e superbia con cui si afferma di possedere un’auto di grossa cilindrata o un abito di griffe esclusiva. Chi veramente possiede la fede, non può dimenticare il dubbio o la paura di perderla, di non meritare di essere ritenuto da Dio un proprio eletto; e lo sforzo che richiede per esserne degno dovrebbe cancellare ogni residuo di esaltazione che entra nello stesso processo che porta alla maniacalità, al mettersi al centro di eventi sempre più grandi fino al delirio. E in questa errata interpretazione della propria posizione si finisce persino – ma qui entriamo nella patologia – per sentirsi dei sacerdoti speciali con compiti che si caricano di sensi voluti da Dio mentre sono soltanto desideri umani esagerati.
(Vittorino ANDREOLI, Preti, Piemme, Milano, 2009, 111; 113-114).
L’umiltà
Il volto di ogni vero discepolo deve essere come quello del Verbo incarnato che spogliò se stesso della gloria divina per assumere la condizione di servo, umiliandosi fino alla morte di croce (cfr. Fil 2,6-8). La vera umiltà è rara a trovarsi perché pochi guardano diritto in faccia a Gesù Cristo. L'umile non è e non sarà mai un arrivato, un realizzato secondo i criteri umani, poiché l'umiltà non può essere l'esito di una bravura, il frutto di una conquista. Il vero umile non sa di esserlo; tutto pervaso di santo timor di Dio - cosciente del proprio nulla - sta come un povero che si sente soltanto in debito con il suo Signore; è come un tapino a cui non bastano mai le parole e le forze per scusarsi di quello che è e per rendere grazie di quello che riceve.
Il segreto che conduce all'umiltà sta nel non vivere più per se stessi, ma per il Signore e nel Signore. Sta nel sapersi rinnegare davvero, senza ostentazione e retorica, senza affettazione e convenzionalismi, ma con naturalezza e semplicità. Il concreto vivere quotidiano è il banco di prova. Infatti, se non si rimane nell'ideale astratto ma si va alle situazioni reali della vita, ci si accorge che non vi è un solo aspetto della propria esistenza quotidiana che non debba essere sottoposto al crogiuolo della purificazione attraverso l'accettazione di ciò che ci ridimensiona e ci mette al nostro giusto posto, nell'umiltà.
L'umile ama avvolgersi di silenzio. Tace di se stesso per dare tutto il posto a Dio. È consapevole del niente che è, e desideroso di conoscere quello che è chiamato a divenire in Cristo. Non c'è, del resto, nessuno che possa ragionevolmente considerarsi migliore degli altri e ritenersi in possesso di buoni titoli di merito prescindendo dall'esperienza della misericordia di Dio. Ogni dignità ha la sua radice nel sacrificio redentore di Cristo.
(A.M. CANOPI, Nel mistero della gratuità, Milano 1998, 62-67, passim).
San Francesco di Sales e la virtù dell’umiltà
«Disse Eliseo alla povera vedova: "Prendete in prestito gran numero di vasi vuoti e versatevi l'olio". Per ricevere nei nostri cuori la grazia di Dio, bisogna averli vuoti della nostra gloria» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 4).
«Che abbiamo di buono che non lo abbiamo ricevuto? e se l'abbiamo ricevuto, perché vogliamo riportarne orgoglio? Al contrario, la viva considerazione delle grazie ricevute ci rende umili, poiché la conoscenza genera riconoscenza» (Introduction à la vie dévote [Filotea], V, 5).
«Il punto forte di tale umiltà sta non solo nel riconoscere volontariamente la nostra abiezione, ma nell'amarla e compiacervisi, e non per mancanza di coraggio e di generosità, ma piuttosto per esaltare tanto più la Maestà divina e stimare molto di più il prossimo a paragone di noi stessi» (Introduction à la vie dévote [Filotea], III, 6).
«Quanto più sei grande, tanto più umiliati»
L’umiltà è il fondamento dell’edificio dell’orazione. È umile la persona che permette a Dio di essere il protagonista della propria vita. Capire bene l’umiltà è conoscere la verità.
L’umiltà consiste non nel negare o dissimulare o svilire le proprie qualità, ma nel riconoscere che esse sono dono di Dio. In effetti, dinanzi a Dio l'umiltà provoca lo svuotamento di sé. Al centro di questa virtù viene a instaurarsi la povertà, per la quale l'uomo si espropria di sé per riconsegnare tutto se stesso a Dio, quale sua fonte originaria. Tuttavia, con ciò, egli non si annulla, ma si consolida nella sua pienezza perché si afferma, ponendo in Dio tutto il suo sostegno. Nella umiltà l'uomo trova la sua vera grandezza e si apre a nuovi doni e a nuove grazie: "Quanto più sei grande, tanto più umiliati; così troverai grazia davanti al Signore". Trovare grazia vuole dire entrare e stabilirsi nella sicurezza, nella pace, nella gioia.
L'umiltà apre il cuore alla verità. Saggezza e umiltà sono strettamente annodate e solidali. Gli umili diventano saggi perché sono illuminati sulla verità della loro esistenza, ma, anche resi luminosi dalla saggezza, si consolidano nella posizione di totale e amorosa dipendenza da Dio.
L’abbassamento
Un’ulteriore energia dello Spirito è l’abbassamento. Non uso volutamente la parola «umiltà» perché il significato abituale che attribuiamo a quest’ultima comporta una certa dose di autodeterminazione, il che in realtà è un’impressione a posteriori. L’umiltà è una condizione prima di essere un giudizio su noi stessi. È una situazione di abbassamento sulle tracce di Cristo: «Chi si umilia sarà esaltato». Un abbassamento che ha valore solo se è opera dello Spirito santo. È indubbiamente a questo punto che entra in gioco l’obbedienza religiosa, nella misura in cui tale obbedienza consiste nel rimanere sottomessi, soggetti ad altri uomini, per amore del Signore e seguendo il suo esempio.
(A. Louf, La vita spirituale, Edizioni Qiqajon - Comunità di Bose, Magnano (Biella) 2001, pp. 9-20).
In tutto si prenda a modello l’umiltà del Signore
Chi vuole accostarsi al Signore, essere fatto degno della vita eterna, diventare dimora di Cristo ed essere riempito di Spirito santo al fine di portare i frutti dello Spirito e di osservare in modo irreprensibile e puro i comandamenti di Cristo, da questo deve cominciare: deve innanzitutto credere fermamente nel Signore, dedicarsi con tutto se stesso ai suoi comandamenti e rinunciare in tutto al mondo affinché il suo cuore non sia occupato da alcuna delle cose visibili. Deve perseverare sempre nella preghiera attendendo con fede il Signore, la sua visita e il suo aiuto, e deve custodire sempre il cuore intento a questo scopo.
Poi, a motivo del peccato che abita in lui, deve farsi violenza per compiere ogni cosa buona e tutti i comandamenti del Signore. Si faccia violenza, ad esempio, per umiliarsi dinanzi a ogni uomo e ritenersi inferiore e peggiore non ricercando da alcuno l'onore, la lode o la gloria degli uomini, come sta scritto nell'evangelo (cfr. Gv 5,44), ma avendo sempre dinanzi agli occhi soltanto il Signore e i suoi comandamenti, desiderando di piacere a lui solo in mitezza di cuore, come dice il Signore: Imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le anime vostre (Mt 11,29) [...] In tutto prenda a modello l'umiltà, la condotta, la mitezza, i modi di vita del Signore con un ricordo sempre desto. Sia perseverante nelle preghiere supplicando sempre con fede il Signore che venga a dimorare in lui, lo risani, gli dia la forza di osservare tutti i suoi comandamenti e divenga egli stesso dimora della sua anima. E così, ciò che ora compie per forza, facendo violenza al proprio cuore, lo compirà spontaneamente quando avrà assunto l'abitudine al bene, quando ricorderà sempre il Signore e lo attenderà con amore grande. Quando il Signore vede tale risoluzione e il suo zelo buono, e in che modo fa sempre violenza a se stesso per il ricordo del Signore e per il bene, e si costringe all'umiltà, alla mitezza, alla carità e come, anche se il suo cuore non vuole, vi si dedica con tutte le sue forze, facendosi violenza, allora gli fa misericordia e lo libera dai suoi nemici e dal peccato che abita in lui, colmandolo di Spirito santo. Ed egli ormai compie ogni comandamento del Signore senza sforzo ne fatica, in verità - o meglio è il Signore che compie in lui i suoi comandamenti - e produce in pienezza i frutti dello Spirito.
(PSEUDO-MACARIO, Omelie 19,1-2, in Spirito e fuoco, Bose 1995, pp. 241-242).
Preghiera
Chiesi a Dio di essere forte
per eseguire progetti grandiosi:
Egli mi rese debole per conservarmi nell'umiltà.
Domandai a Dio che mi desse la salute
per realizzare grandi imprese:
Egli mi ha dato il dolore per comprenderla meglio.
Gli domandai la ricchezza per possedere tutto:
mi ha fatto povero per non essere egoista.
Gli domandai il potere perché gli uomini avessero bisogno di me:
Egli mi ha dato l'umiliazione perché io avessi bisogno di loro.
Domandai a Dio tutto per godere la vita:
mi ha lasciato la vita
perché potessi apprezzare tutto.
Signore, non ho ricevuto niente di quello che chiedevo,
ma mi hai dato tutto quello di cui avevo bisogno
e quasi contro la mia volontà.
Le preghiere che non feci furono esaudite.
Sii lodato; o mio Signore, fra tutti gli uomini
nessuno possiede quello che ho io!
* Per l’elaborazione della «lectio» di questa domenica, oltre al nostro materiale di archivio, ci siamo serviti di:
- Messalino festivo dell’Assemblea, Bologna, EDB, 2007.
- La Bibbia per la famiglia, a cura di G. Ravasi, Milano, San Paolo, 1998.
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- COMUNITÀ DI S. EGIDIO, La Parola e la storia, Milano, Vita e Pensiero, 2012.
- COMUNITÀ MONASTICA SS. TRINITÀ DI DUMENZA, La voce, il volto, la casa e le strade, Milano, Vita e Pensiero, 2008-2009.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret, Milano, Rizzoli, 2007.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, Gesù di Nazaret. Dall’ingresso in Gerusalemme fino alla risurrezione, Città del Vaticano, Libreria Editrice Vaticana, 2011.
- J. RATZINGER/BENEDETTO XVI, L’infanzia di Gesù, Milano/Città del Vaticano, Rizzoli/Libreria Editrice Vaticana, 2012.
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