p. Gaetano Piccolo SJ, "Leggersi dentro"

XVIII Domenica del Tempo Ordinario - Anno C
Qo 1, 2; 2, 21-23; Sal 94; Col 3, 1-5. 9-11; Lc 12, 13-21.
Congregatio pro Clericis

“Chi invece ama la tua anima,
non se ne va finché essa avanza sulla via del meglio”.
Platone, Alcibiade






Dove sto andando?

La realtà si presenta sempre con una certa ambiguità, la storia delle persone è sempre un mistero, le motivazioni delle nostre scelte sono sempre complesse e difficilmente riconducibili a percorsi lineari. Ce ne rendiamo conto quando ci fermiamo, in genere malvolentieri o in momenti di crisi, a interrogarci sui nostri desideri, sul nostro futuro, su quello che stiamo costruendo, sulla direzione che ha preso la nostra vita, senza che ne accorgessimo in tempo.



L’ossessione

A volte, purtroppo, è solo la paura della morte che ci riconduce verso noi stessi e ci mette davanti alla nostra realtà. Succedeva così a Mazzarò, il protagonista della famosa novella di Verga, La roba. Mazzarò inizia la sua vita come contadino sfruttato, ma grazie ai suoi sacrifici e alla sua astuzia, riesce a mettere da parte una fortuna enorme, comprando gran parte delle terre intorno a Catania. Man mano che accumula quella ricchezza, si attacca sempre di più a quello che si illude di possedere. Non riesce a non pensare alla sua roba, la quale diventa la sua ossessione, lavora senza riposarsi, fino a quando la vecchiaia comincia a metterlo davanti alla necessità di lasciare tutto quello che ha conquistato. Così diventa matto, esce nel cortile e comincia ad ammazzare gli animali gridando: “Roba mia vientene con me!”.



Attivismo cieco

Eppure la vicenda di Mazzarò non è così lontana dalla nostra realtà quotidiana, non tanto perché siamo anche noi dei latifondisti, ma perché attacchiamo il cuore a quello che presumiamo di aver conquistato. Molte volte ci tuffiamo in un attivismo cieco, che non sente più ragioni. Ed è ancor più triste quando questo accade nella vita dei sacerdoti e dei religiosi.

Mazzarò è un eroe? Ecco, l’ambiguità della vita. Difficile giudicare. Molte vite si spendono senza posa. Sono vite eroiche? Mazzarò ha trasformato la sua esistenza, ma cosa ne ha fatto? Molto spesso il nostro attivismo si fonda persino su motivazioni spirituali che ci giustificano agli occhi degli altri e generano un consenso sociale, un’approvazione e persino elogi. Ma cosa ne stiamo facendo della nostra vita? E soprattutto: dov’è il nostro cuore?

Non siamo tutti Mazzarò, per fortuna, non siamo tutti latifondisti, eppure troviamo tutti qualcosa a cui attaccare il cuore, fino a quando la realtà bussa alla nostra porta e, come dice Qoelet, ci ricorda la vanità, il soffio che passa, della nostra vita: “Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità” (Qo 1,2).



Consegnare

Colui che nel Vangelo interroga Gesù, gli pone una domanda sull’eredità: “Uno della folla gli disse: «Maestro, di' a mio fratello che divida con me l'eredità»” (Lc 12,13). L’eredità è un diritto che riguarda il futuro. Un futuro che nasce dalla morte di qualcun altro. A ben guardare, quindi, ogni eredità contiene in sé l’antidoto per non attaccare il cuore: tutto finirà, proprio come è successo a coloro che ci hanno consegnato quel futuro. Anche noi saremo chiamati a consegnarlo a qualcun altro. Ed è forse questa la domanda generativa e sana che dovrebbe accompagnarci: cosa sto lasciando a chi viene dopo di me? Cosa consegnerò alla fine della mia vita?

La vita non dipende da quello che possediamo, ricorda Gesù ai suoi interlocutori (Lc 12,15). La vita dipende da quanto siamo capaci di donare. Sono due criteri molto diversi per valutare la propria esistenza.



Il senso della vita

Alla fine degli Esercizi spirituali, Ignazio di Loyola propone all’esercitante una preghiera meravigliosa che illumina il senso della vita: “Prendi, Signore, e ricevi, [...] tutto quello che ho e possiedo. Tutto è tuo, tu me lo hai dato, a te, Signore, lo ridono [...]” (Esercizi spirituali 234).

Quando ho incontrato questa preghiera per la prima volta, mi sono spaventato e vergognato: non volevo rinunciare a quello che mi sembrava di avere. E mi sono vergognato per questa mancanza di generosità. Poi mi sono reso conto che non si tratta di una coraggiosa rinuncia, ma di rendersi conto di come va inevitabilmente la vita. Non c’è nulla che sia nostro, nulla che non possa esserci tolto in qualunque momento. Siamo veramente poveri e nullatenenti, ma facciamo di tutto per non rendercene conto. Tutto quello che abbiamo è un dono, un dono che non possiamo trattenere, ma di cui possiamo solo godere. Il dono non è mai proprietà. Possiamo anche pensare di essere proprietari e latifondisti, ma prima o poi la realtà bussa alla nostra porta e ci apre gli occhi.

La tensione che ci rende infelici nasce proprio dall’energia con cui maldestramente ci impegniamo a trattenere quello che non è nostro.

Il senso della vita, dunque, è stare in questa corrente d’amore, in cui continuamente siamo inondati dall’amore, così com’è, piccoli o grandi doni, presenze, respiro, cielo... continuamente riceviamo vita che siamo chiamati a restituire. Il peccato è proprio la pretesa di trattenere e diventare padroni di quello che non ci appartiene.



Leggersi dentro

- Da cosa fai fatica a separarti?

- Come ti stai prendendo cura di quello che lascerai?





P. Gaetano Piccolo S.I.

Compagnia di Gesù (Societas Iesu)

Fonte:http://www.clerus.va


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