Abbazia Santa Maria di Pulsano, Lectio DOMENICA «DELLA PARABOLA DEL FATTORE DISONESTO»
domenica
«DELLA
PARABOLA DEL FATTORE DISONESTO»XXV
del
Tempo
per l’Anno C
Lc
16,1-13; Am 8,4-7; Sal 112; 1Tm 2,1-8
L’annuncio del regno di Dio,
del suo amore che salva, viene fatto in un mondo diviso tra ricchi e
poveri. È un annuncio che sconvolgendo l’intimo dell’uomo,
sconvolge anche un certo tipo di ordine sociale.
C’è una falsa religione che i
profeti non hanno mai cessato di denunciare: la religione di chi
crede di avere la coscienza a posto con poca fatica, col compimento
di riti e pratiche esteriori di culto. Spesso questa è una apparenza
di religiosità che serve da copertura allo sfruttamento dei poveri.
Nella prima lettura compaiono ricchi commercianti che fanno il riposo
del sabato, in cui era proibito il commercio, pensando come
imbrogliare i poveri e come frodare sulla merce o sui prezzi. Per il
ricco accogliere l’annuncio del regno è trasformare i beni da
oggetto di preda in mezzo di amicizia e di comunione. Già abbiamo
ascoltato (domenica XXIII) l’invito di Gesù a vendere tutto e
darlo ai poveri. Qui ci viene detto: «Procuratevi
amici con la disonesta ricchezza».
L’amicizia che il ricco deve
costruire non è frutto del suo buon cuore, ma esigenza e dovere che
gli deriva da ciò che possiede. Ciò che egli dona non deve avere
l’aspetto di un’elemosina. Il povero nella comunità cristiana ha
dei diritti che vanno soddisfatti. Il ricco deve sentirsi più un
attento amministratore dei beni che un proprietario.
«Non
sei forse un ladro, afferma san Basilio, tu che delle ricchezze di
cui hai ricevuto la gestione, ne fai cosa tua propria?...
All’affamato appartiene il pane che tu conservi, all’uomo nudo il
mantello che tieni nel baule, a chi va scalzo le scarpe che
marciscono a casa tua, al bisognoso il denaro che tu tieni nascosto.
Così tu commetti tante ingiustizie quanta è la gente cui potevi
donare».
Continua sant’Ambrogio: «È
giusto perciò che, se rivendichi qualche cosa come privata di ciò
che è stato dato in comune (la terra) al genere umano e persino a
tutti gli animali, almeno tu ne distribuisca qualcosa ai poveri: sono
partecipi del tuo diritto, non negare loro gli alimenti».
Ciò che i Padri predicano
riferendosi a casi della propria chiesa ora investe popoli, nazioni,
milioni di persone. Nazioni o gruppi multinazionali esercitano il
controllo sulla ricchezza con una libertà indiscussa, continuano a
fare della ricchezza la fonte della divisione e ad approfittare di
queste divisioni per il loro dominio economico. I capitali si
spostano da un paese all’altro dove migliore può essere
l’incentivo al guadagno. Milioni di lavoratori rurali non hanno né
diritto né possibilità di accedere a terre che pure sono loro,
mentre grandi proprietari tengono incolte le loro terre in vista di
un migliore sfruttamento o di una più grande sorgente di guadagno.
Dall’eucologia:
Antifona d'Ingresso
«Io sono la salvezza del
popolo»,
dice il Signore,
«in qualunque prova mi
invocheranno, li esaudirò,
e sarò il loro Signore per
sempre».
L’antifona
d'ingresso è un centone
di reminiscenze bibliche. Il Signore si proclama solennemente come
l'unica Salvezza per il popolo suo, il popolo della sua alleanza. E
promette che non esiste tribolazione da cui non salvi, se invocato,
esaudendo sempre, intervenendo con potenza, in modo da ristabilire
l'alleanza fedele. Egli vuole essere «il
Signore di essi»,
e vuole che essi siano «il
popolo di Lui»,
in eterno (Ger
14,8;
Sal
4,2;
49,15).
Canto all’Evangelo
2 Cor 8,9
Alleluia, alleluia.
Gesù Cristo da ricco che era, si
è fatto povero per voi,
perché voi diventaste ricchi per
mezzo della sua povertà.
Alleluia.
Il
canto all’Evangelo
ci aiuta a comprendere da dove viene il tesoro delle nostre grazie.
Da Cristo Dio, fattosi volontariamente povero, fino al suo
abbandonarsi alla Croce, affinché da questa sua estrema miseria
venisse la ricchezza salvifica degli uomini.
Oggi
più che mai, il denaro occupa un posto molto importante nella vita
degli uomini, nonostante la svalutazione. Anche nei momenti più
difficili ci sono abili speculatori che sanno prevedere le
fluttuazioni del mercato dei cambi, e spostano i loro capitali
realizzando notevoli profitti. È gente che suscita comunque una
certa ammirazione, anche se non si possono approvare i loro traffici:
ci sanno fare, agiscono con destrezza e con intelligenza, hanno
«successo» nella vita.
Nel
caso dell'amministratore della parabola, che non solo sperpera i beni
del suo padrone, ma arriva fino a falsificare la contabilità, è
evidente che Gesù non ammira la sua mancanza di scrupoli, quanto
piuttosto la sua sagacia e la sua abilità. Quando la fortuna gli
volta le spalle, egli sa approfittare del breve spazio di tempo che
gli rimane per farsi degli amici che si ricorderanno di lui, quando
il padrone l'avrà messo alla porta. Un uomo previdente, di
un'accortezza esemplare! L'abilità di un truffatore negli affari di
questo mondo non potrebbe essere anche la nostra nella conquista del
regno di Dio? Gesù si sofferma quindi ad indicare qual è
l'investimento fruttuoso, quale deve essere l'abilità cristiana nel
campo della «ricchezza disonesta» e ingannatrice, che con la sua
terribile forza di attrazione è capace di indurci a fare di essa il
nostro idolo, tributandole un culto che è dovuto soltanto a Dio. Di
questo cattivo padrone bisogna essere buoni servitori. In che modo?
Usandone con disinteresse e generosità, al servizio dei più poveri.
Questo significa evangelizzare il nostro senso della proprietà,
troppo spesso pagano. In sintesi, si tratta di restituire al denaro
il suo ruolo di mezzo e non di fine.
La
pericope odierna fa ancora parte di quel «grande inciso», il
blocco, proprio solo di Luca, che si chiama la «salita a
Gerusalemme» (Lc
9,51 - 19,28), la cui proclamazione si estende dalla Domenica XIII
alla Domenica XXXI. Questo itinerario è l’"esodo" del
Figlio verso il Padre (Lc
9,31), e si consuma con la Croce e con la Resurrezione.
Lungo
la strada, Cristo Signore battezzato dallo Spirito Santo e così
inviato dal Padre a compiere il ministero messianico che consiste in
via principale nell’annuncio dell’Evangelo e nelle opere della
Carità del Regno. Gesù moltiplica gli insegnamenti salvifici, in
specie con ripetute catechesi sulla povertà e sullo spossessamento,
integrando però questa dottrina anche con quella del buon uso delle
ricchezze, del lavoro, dei beni terreni in genere.
È
noto che Luca ha tra i suoi argomenti preferiti il pregio della
povertà e il pericolo della ricchezza, sicché il suo Evangelo
potrebbe ugualmente essere definito l’Evangelo dei poveri o
l’Evangelo dei ricchi perché gli uni e gli altri, sia pure in
direzioni diverse, hanno di che imparare per la loro salvezza.
La
comunità per cui è scritto il terzo Evangelo non si può
ragionevolmente immaginare che sia composta solo di poveri e di
sprovveduti di tutto; nel suo seno deve esistere, sia pure sottoposto
a certe norme severe, anche chi possiede beni e li lavora e chi
produce ricchezza per sé e per gli altri. Questo è stato compreso
bene solo dal primo monachesimo, che, accettando in via di principio
e con rigore la povertà e lo spossessamento, tanto più poneva come
regola di vita «pregare
e lavorare»
con le proprie mani per sostentarsi e per procurarsi di che fare
l’elemosina a Cristo nei poveri, imitando in questo anche
l’apostolo Paolo.
I
Lettura: Am
8,4-7
Il
lezionario avvicina all’Evangelo il libro di Amos, grande e
indomabile profeta, che è l’opera di un “contadino”,
raccoglitore di sicomori (7,14ss) e allevatore di bestiame (1,1), che
nell’VIII sec. a. C (783 - 745) arriva nel regno del Nord e vi
scopre, dietro le apparenze, le ingiustizie e le miserie che soffrono
i poveri. Acceso di santo sdegno, proclama il castigo di un Dio
giusto, ma pronto a perdonare.
Il
brano di questa Domenica va letto in un contesto più ampio dei vv.
liturgici proposti; è la 4a
visione che Dio concede al profeta per chiamare all’ascolto
Israele. È un compendio moderno di economia e commercio, che vede
solo il profitto puro a costo di qualsiasi disonestà: rincaro dei
prezzi, riduzione delle misure commerciali, sofisticazioni dei
prodotti. Ieri come oggi!
Le
autorità guardano incuranti; anche quelle spirituali non
intervengono. Interviene però Dio per bocca del profeta.
Il
profeta
Amos
dal
regno di Giuda è salito nel regno scismatico e traviato d'Israele,
inviato dal Signore affinché anche lì risuoni il grido alto ed
esigente della Parola divina. Naturalmente il suo annuncio è aspro e
sgradevole, e lui è accolto male dal re, dai sacerdoti del re, dalla
corte, dai ricchi e viziosi: perché fustiga senza riguardo gli
egoismi dei ricchi e sazi e le loro violenze contro i poveri. Questo
è
fissato
in pagine indimenticabili (vedi Am
4,1-3,
sulla cruda sorte delle donne ricche, meglio sarebbe in una
traduzione letterale dell'ebraico). Il Profeta riceve dal suo Signore
tre visioni, che annuncia e spiega. A motivo della terza di esse è
espulso da Betel. Proprio in quell'antico santuario dei Patriarchi,
posto nel meridione quasi al confine con Giuda, il re scismatico
Geroboamo con astuzia politica, e con suprema malizia contro il culto
santo del Signore Unico, aveva eretto uno dei due santuari nazionali,
ponendovi come idolo e palladio il vitello; e un altro santuario con
vitello aveva posto all'estremo settentrionale, nel santuario di Dan.
In tal modo nell'anima del popolo voleva rendere Reversibile lo
scisma anche religioso dal santuario unico di Gerusalemme.
Allora
il Signore concede al suo Profeta la quarta visione (Am
7,1
-8,3).
Questa
parola, posta sulla bocca di Amos, ancora una volta è diretta con
violenza estrema contro quelli che opprimono i poveri. La violenza
del linguaggio esprime la «rabbia profetica». E questa è la
reazione contro ogni violazione dei diritti del Signore, anzitutto
lesi quando si arreca danno al
prossimo.
Perciò la
rabbia
profetica è
sempre
giusta e santa. Da parte dei profeti è un atto dovuto. Da parte
delle autorità e del popolo stesso, se ne tengono conto in tempo, è
una via verso la salvezza.
Nella
pericope di oggi il Profeta quindi si rivolge con un'apostrofe
improvvisa contro quelli che schiacciano i poveri, in specie quelli
che vivono nella terra e della terra (8,1), e li chiama all'ascolto
(v.
4). Prima
usa l'amaro sarcasmo e rifà a essi il verso: adesso noi aspettiamo
il mese per vendere, che passi il sabato, poi metteremo sul mercato
il grano, ma ridurremo la misura, useremo bilance false, e alzeremo i
prezzi, strozzeremo alla gola i poveri per un paio di sandali, e
daremo a essi per buono anche il residuo della trebbiatura del grano
(vv.
5-6). E
un sorprendente compendio moderno di industria produttiva, di
finanza, di economia e commercio, che opera solo sotto la legge
ladrona del profitto puro, a costo di qualsiasi aggressione alla
povera gente e di qualsiasi disonestà: il rincaro sempre
ingiustificato dei prezzi, la riduzione illegale delle misure, il
commercio a prezzi in aumento, la sofisticazione dei prodotti. Nulla
di nuovo sotto il sole. Ieri come oggi. Le autorità guardano tra
ignoranti, incuranti, compiacenti e colludenti. Ieri come oggi. Non
intervengono mai. Non è affare loro. Ieri come oggi.
Adesso
però interviene il Signore per bocca del suo Profeta. Il Signore
pronuncia un giuramento irrevocabile, e terribile, contro tutto il
suo popolo del settentrione, Giacobbe, che è l'altro nome d'Israele.
Poiché in questo perfino il popolo sfruttato e dissanguato è
colpevole, esso non ha fatto appello alle sue risorse morali, assiste
come complice passivo a tanta infamia. Perciò il Signore fino
all'ultimo non si dimenticherà di tutte le loro opere. Infatti è
regola che quando il Signore per misericordia si dimentica del male,
annulla le realtà colpevoli, perdona e crea altre realtà di bene.
Ma quando interviene contro il male, e se ne si ricorda, la punizione
sarà inevitabile (v.
7).
E
pochi anni dopo verranno gli Assiri.
Il
Salmo responsoriale:
112,1-2.4-6.7-8.
Inno.
Fanno
da versetto responsorio i vv.
la e
7b
(adattati):
Benedetto
il Signore che rialza il povero; l'assemblea
ripete l'imperativo innico di lodare il Signore, restauratore dei
poveri che ama, e sopra i quali pone sempre il suo occhio per
custodirli.
L'Orante
qui è probabilmente un sacerdote. Egli con due imperativi innici
esorta i servi del Signore a lodare Lui e il suo Nome (v.
1; Sal
134,1;
Dan
3,85).
Quindi proclama la sua benedizione del Nome, che indica la stessa
Persona divina. Come si sa, «la benedizione torna sempre sul
benedicente e unisce a lui il benedetto». La forza dossologica della
benedizione innalza i fedeli, benedicenti o benedetti, fino alla
comunione con il Signore benedetto o benedicente (v.
2). Qui
la lode riconosce i titoli magnifici e gli attributi potenti del
Signore.
Il
Signore è riconosciuto e proclamato come trascendente ogni realtà
pensabile, al di là di ogni immaginazione delle nazioni (Sal
98,2;
137,6). La sua Gloria è irraggiungibile, più alta dei cieli
altissimi (v.
4; Sal
8,2;
56,6.12; 148, 13-14). Perciò
l'Orante pone una domanda che contiene la risposta in se stessa, e
che quindi vale come una grande confessione di fede: Chi è come il
Signore Dio nostro
?
L'aggettivo possessivo indica l'alleanza storica. E ovvia la
risposta: Nessuno. Egli ha la caratteristica propria solo a Lui, di
dimorare al di là dei cieli, è irraggiungibile, perfino con la
mente (v.
5).
Tuttavia
ha anche l'altra caratteristica, di rendersi presente nella continua
manifestazione dell'amore per le sue creature. Egli si occupa e si
cura di tutti gli umili, sia degli Angeli nel cielo, sia degli uomini
sulla terra (v.
6), sicché
nulla sfugge alla sua Sovranità creatrice.
Per
questo, Egli interviene a risollevare i più poveri e oppressi dalla
terra in cui erano stati prostrati dalla malvagità umana (Sal
10,6;
137,6), e solleva il povero dallo sterco in cui in modo disumano lo
avevano abbattuto e prostrato e lo costringono a vivere i
ricchi
sempre iniqui (v.
7). Allora
il Signore innalza questi suoi poveri fino a Lui, li pone davanti a
Lui nella sua corte regale, insieme con i capi nobili del suo popolo
(Sal
137,23).
Poiché tutti i poveri sono nobili, fatti tali da Dio, nella loro
immensa dignità (v.
8).
Nella
1
Timoteo,
una lettera scritta da Paolo durante il suo ultimo viaggio (verso il
65), o forse, in epoca più tarda, da un responsabile della Chiesa,
l’apostolo si adopera per sostenere con i suoi consigli l’opera
del pastore, responsabile della comunità, in un’epoca in cui i
primi testimoni di Cristo cominciano a scomparire. Nel nostro brano
come prioritaria preoccupazione, l’autore esorta a pregare per
tutti gli uomini; è così presentata una vasta gamma della
preghiera: suppliche, preghiere intense, richieste, rendimenti di
grazie. Segue l’elenco delle intenzioni: per re e governanti perché
assicurino una vita tranquilla e santa al popolo. È il modello della
nostra preghiera universale.
Evangelo
La
parabola, che è esclusiva di Luca, è una delle più difficili
dell’Evangelo a motivo di certe asperità per le quali però non si
è a corto di soluzioni. Le letture proclamate Domenica scorsa (c.15)
ci hanno detto quanto fa per noi colui che è misericordioso con
tutti i disgraziati e i cattivi (cfr 6,35). La parabola di oggi
risponde alla domanda :«che fare» noi, chiamati a diventare come
lui (cfr 6,36)?
La
risposta è implicita nei due termini usati per indicare Dio e
l’uomo, chiamati rispettivamente il
Signore
(4 volte) e l’amministratore
(7 volte). Ma l’uomo è un amministratore ingiusto, perché si è
fatto padrone di ciò che non è suo. Però ora conosce Dio: sa che
tutto dona e perdona. Di conseguenza sa «che
fare»
anche lui: con-donare ciò che in fondo non è suo.
Il
c. 16, incluso tra le parabole dell’uso sapiente (l’amministratore
saggio) e l’uso stolto dei beni (il «ricco epulone» che verrà
proclamata nella Dom. XXVI del Tempo Ord. C), parla
dell’amministrazione concreta della propria vita. Toccandone i vari
aspetti, le istruzioni si prolungano sino a 17,10, quando Gesù
riprende il suo viaggio.
Tra
le due parabole abbiamo un breve interludio con i farisei: «I
farisei, che erano attaccati al denaro, ascoltavano tutte queste cose
e si facevano beffe di lui. Egli disse loro: "Voi siete quelli
che si ritengono giusti davanti agli uomini, ma Dio conosce i
vostri
cuori: ciò che fra gli uomini viene esaltato, davanti a Dio è cosa
abominevole"»
(vv.14-15). Sembra dunque che possiamo leggere i testi anche come un
insegnamento sul rapporto tra beni e giustizia davanti a Dio.
La
pericope è suddivisibile in due sezioni:
-
un racconto parabolico (vv. 1-9),
-
la sua attualizzazione attraverso due domande retoriche (vv. 10-11) ed una sentenza proverbiale (vv. 12-13).
Il
centro del brano è l’elogio dell’amministratore (v.8), che
sfocia nell’esortazione ad agire come lui (v.9). La parabola ci
insegna che anche i beni materiali vanno gestiti per quel che sono,
secondo la loro natura di dono. L’evangelista sa che ciò che
abbiamo accumulato è frutto di ingiustizia; non l’abbiamo fatto
propriamente per puro amore di Dio o del prossimo!
Sa
anche che continuiamo a vivere in un mondo che avanza sullo stesso
binario (cfr I lettura). In tale situazione siamo chiamati a vivere
con il criterio opposto a quello dell’egoismo. Abbiamo capito «che
fare»:
i beni sono un dono del Padre da condividere tra i fratelli.
Questo
è il senso dell’anno sabatico, la cui osservanza è condizione per
restare nella terra promessa. L’attività di Gesù, che inizia e
finisce di sabato (4,16; 23,56) e si svolge nell’arco di sette
sabati, è descritta dal terzo evangelista come realizzazione
dell’anno sabatico.
L’ascolto
della sua parola ne attualizza «oggi»il
compimento (4,21).
Esaminiamo
il brano
v.
1 «Diceva anche ai discepoli»:
l’istruzione, prima diretta agli scribi e ai farisei, ora si
rivolge ai discepoli. Dopo
tre parabole dirette ai farisei (cfr.
15,1-2),
Gesù si rivolge ora ai discepoli. Il testo non indica i Dodici, i
responsabili
della comunità, ma tutti coloro che hanno accettato le condizioni
del discepolato e stanno seguendo il Maestro. Il testo è scritto,
dunque, anche per noi.
«l’uomo
ricco »:
è il Signore, al quale appartiene «la
terra e quanto contiene, l’universo e i suoi abitanti»
(Sal 24,1).
«un
amministratore»:
tutti noi siamo semplici amministratori: «cosa
mai possiedi che tu non abbia ricevuto? E se l’hai ricevuto, perché
te ne vanti come non l’avessi ricevuto?»
(1 Cor 4,7). L’amministratore deve agire secondo la volontà del
suo padrone altrimenti ecco l’accusa di peccato.
«fu
accusato … di sperperare»:
Il testo non entra nei dettagli: non sappiamo chi abbia accusato
l’amministratore o quali siano le accuse. Il termine “sperperare”,
applicato in precedenza allo stile di vita del figlio minore (cfr.
15,13), indica forse un’esistenza dispendiosa. Il risultato è la
convocazione dell’amministratore e la comunicazione del suo
imminente licenziamento.
v.
2
- «rendi
conto»:
La chiamata al rendiconto è la morte, che pone l’uomo davanti a
Dio per verificare se è diventato simile a colui del quale è
immagine. La vita si valuta solo dal suo fine. Dio accorda del tempo,
tutto il tempo necessario per rimediare alla cattiva gestione.
vv.
3-4
«disse
tra sè»:
Utilizzando
un monologo interiore, Luca apre per i suoi lettori la mente
dell’amministratore, mentre vaglia le poche possibilità rimaste.
L’uomo nei guai medita come provvedere al suo futuro per nulla
roseo; fa «una
bella pensata»
diremmo. Non potendo sperare nella generosità del padrone truffato,
cerca alleati dalla parte dei suoi clienti.
«Zappare…
mendicare»:
Le due opzioni “vangare” e “mendicare” rappresentano le
occupazioni di chi non ha futuro. Scarta la prima, probabilmente
perché richiede un notevole sforzo fisico e la seconda perché fonte
di vergogna: «Meglio
morire che mendicare»
(Sir
40,28).
«So
io che cosa farò»:
trova una “soluzione”, che Luca non svela fino a quando non sarà
posta in atto dall’amministratore.
vv.
5-7
La parabola fa due esempi noti a sufficienza, tuttavia può essere
utile quantificare con misure più vicine a noi il cambio effettuato.
Per «barile»
e «misura»
il testo greco dà i nomi ebraici di Bath
e Kor
su una tavola delle misure di capacità o volume troviamo che il bath
= 45 litri e il kor = 450 l (1 kor = 10 bath).
Come
si vede, i debiti risultano cospicui e quindi i terreni amministrati
erano assai vasti, ma si deve tener presente la predilezione dei
narratori orientali per le cifre vistose, adatte a stimolare la
fantasia. I numeri 100 - 50 - 80 sono tuttavia numeri simbolici: 100
e 50 della pienezza, 80 (40 x 2) della tensione.
v.
8 -
Il fatto viene riportato dal padrone, il quale, uomo fine, loda
l’intelligenza applicata alla disonestà, invece di adontarsi.
Mentre
noi
ci
aspetteremmo uno scoppio d'ira,
dato
che dopo lo sperpero deve ora
subire
persino la
contraffazione
dei documenti, il
padrone
-
e
Gesù
con
lui - lo loda. Mi
sembra importante
rilevare
che la
lode
non
riguarda la
disonestà,
ma
la
scaltrezza,
la
capacità di
usare
il
poco
tempo a
sua
disposizione
per
assicurarsi
un
futuro.
Gesù
annota tristemente: «I
figli della notte... dei figli della luce
(= la generazione che ha avuto l’illuminazione divina. «Figli
della notte» è un’espressione semitica che indica coloro i cui
orizzonti di vita si chiudono su interessi terreni).
Lo scandalo risiede proprio in queste parole di lode, peraltro
perfettamente equilibrate; accanto alla lode infatti troviamo la
qualifica di disonesto data all’amministratore. La lode è solo per
il modo in cui ha saputo trarsi d’impaccio. Tuttavia pur nel genere
parabolico sembra strano che il padrone non si curi di questa nuova
truffa.
Per
capire e sciogliere l’arcano, facciamo ricorso agli usi del tempo
in materia di amministrazione. Il fattore per il suo lavoro non
riceveva dal padrone uno stipendio, ma gli era consentito di rifarsi
con i clienti; i beni del padrone venivano considerati come dati in
prestito ad essi, su questi l’amministratore prelevava un interesse
a proprio vantaggio.
In
realtà, questo interesse era una vera usura, proibita dalla Legge,
ma ammessa dal costume. Quello che l’amministratore condona è solo
il suo interesse, che poteva rasentare l’usura e non si tratta di
un ulteriore danno inferto al padrone; gli sperperi di cui è
accusato sono quelli generici del v. 1.
Altri
ritengono invece che l’amministratore abbia continuato
il
suo comportamento
scorretto,
dato che ormai
non
aveva più nulla da perdere. In questo
caso il
termine “ingiustizia”
che
troviamo al v. 8a non sarebbe riferito soltanto all’agire
precedente,
ma anche a quest’ultima azione.
Quale
sia la vera intenzione dell’autore personalmente ritengo che la
parabola
di Luca intenda
scandalizzare i suoi uditori per scuoterli
dal loro torpore morale, civile e religioso. L’espressione dunque
non può essere letta come l'invito a “farsi furbi”, ma come una
sollecitazione ad agire con la stessa rapidità, decisione, arguzia
dei «figli
di questo mondo».
v.
9 -
Gesù parla ora in prima persona e ci esorta a fare come il fattore.
«disonesta
ricchezza»:
il vocabolo mamōnâs
appare in tutta la Bibbia solo in questo capitolo (vv. 9. 11.13) e in
Mt 6,24;
è
un celebre termine aramaico, che è un maschile e indica per sé solo
il guadagno, il lucro, e la somma che si è guadagnata. Il termine ha
un’assonanza con il verbo della fede l’ebraico amàn,
che indica ciò di cui si ha fiducia, su cui si può contare, da cui
deriva anche il nostro amen.
Dato
che denaro, possedimenti, ricchezza... sono ciò su cui uomini e
donne “fanno affidamento” per vivere, è passato gradualmente ad
indicare i beni.
L’abbinamento
con il termine “disonesta”
lett. adikía
= in-giusta, sorprende: è difficile pensare che si tratti
dell’accumulo illegale! Occorre forse ricordare che per Luca ogni
ricchezza non condivisa è iniqua:
l’unico
utilizzo “giusto” dei beni è la condivisione (12,33).
Condividere i propri beni renderà amici dei poveri e permetterà di
condividere la loro beatitudine: l’ingresso nelle dimore celesti.
Nella parabola del povero Lazzaro e del ricco epulone il lettore sarà
condotto a riflettere sul destino di chi non ha acquisito «un
tesoro in cielo»,
per il momento in cui la morte renderà ogni “mammona”
inutile, e l’unica sicurezza su cui contare sarà il nostro
rapporto con Dio mediato dai poveri in cui lo abbiamo servito.
Il
mammona va dunque trattato dovutamente, poiché come valore a sé è
moralmente indifferente, ma quando è detenuto avidamente da uno,
automaticamente è sottratto agli altri, e diventa «di
iniquità».
Perciò occorre trafficarlo senza farsene irretire, il che, tenendo
conto della natura umana che vi propende, significa trafficarlo senza
adorarlo come un idolo totalizzante.
vv.
10-12
Sono uno sviluppo del v. 9, dove con un argomentazione «dal
minore al maggiore»
è mostrato come amministrando debitamente la realtà terrestre (il
minimo, l’ingiusto mammona, ciò che è altrui), ci procuriamo
quella celeste (il molto, la cosa vera, ciò che è vostro).
v.
13
-
È
posta la vera alternativa: o Dio o mammona! Non possiamo tenere il
piede in due scarpe.
La
fede in Dio si gioca nella fedeltà in ciò che egli ci ha affidato;
i beni, che l’uomo stima di tanto valore, sono una cosa minima
rispetto al vero bene. Sono necessari per conseguirlo l’uso
corretto che ne facciamo (vedi in fondo art. Avvenire, 18 / sett. /
‘92 ).
Il
fallimento dell’uomo consiste nell’amare ciò che non è
l’oggetto del suo cuore. Qui
qui il verbo servire, douleúō,
indica
il culto di adorazione che però rende schiavi!
Soltanto
l’appartenenza totale a Dio, senza compromessi, rende possibile il
corretto uso della ricchezza: la sua distribuzione ai poveri.
«La
miseria impedisce di essere uomini. La povertà come la concepisce
l’Evangelo non è per tutti quella di san Francesco d’Assisi, che
abbandonò tutto. Un direttore di azienda può essere povero secondo
l’Evangelo se ha la coscienza che tutti i suoi privilegi sono un
debito. Non è obbligato a proporsi l’ideale di lasciare tutto, ma
di fare il suo mestiere, di operare affinché ci sia lavoro e salario
per tutti. Se vive con questo pensiero, egli è povero secondo il
Vangelo».
L’Abbè
Pierre, a cui dobbiamo questa riflessione, non è un sognatore, un
predicatore oracolare, un «esaltato», sia pure per una buona causa.
La riflessione che abbiamo citato ne è un esempio nitidissimo. Un
distacco pauperistico plateale può essere talora meno difficile e
meno efficace di un impegno intelligente e nascosto perché si riesca
a sostenere il maggior numero di emarginati. «Fare
bene il bene»
è un motto ben lungi dall’essere scontato e banale; è una lezione
di metodo che rende la carità più operosa, più continua, più
incisiva. Tutto questo naturalmente non cancella l’esigenza del
distacco. Un distacco che si radica nel cuore e si manifesta
nell’esistenza, segnata da semplicità e generosità. Ma tutto si
deve compiere secondo intelligenza e amore, non per sentimento e
vanagloria. Al centro, comunque, resta lui, il povero, che è il
privilegiato di Dio e questa parzialità divina è, in realtà,
suprema imparzialità. «Ascoltate,
fratelli mie carissimi: Dio non ha forse scelto i poveri nel mondo
per farli ricchi con la fede ed eredi del regno che ha promesso a
quelli che lo amano? Voi invece avete disprezzato il povero!»
(Giacomo 2,5-6a).
da
" Mattutino " di G. Ravasi (Avvenire, 18 / Sett. / ‘92)
II
Colletta:
O Padre, che ci chiami ad
amarti
e servirti come unico Signore,
abbi pietà della nostra
condizione umana;
salvaci dalla cupidigia delle
ricchezze,
e fa’ che alzando al cielo
mani libere e pure,
ti rendiamo gloria con tutta
la nostra vita.
Per il nostro Signore Gesù
Cristo...
Lunedì
16 settembre 2019
Abbazia
Santa Maria di Pulsano
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